TIPOLOGIA: attentato
CAUSE: carica occultata
DATA: 23 marzo 1944
STATO: Italia
LUOGO: Roma, via Rasella
MORTI: 41
FERITI: 18
Analisi e ricostruzione a cura di Luigi Sistu
È il 23
marzo 1944, è pomeriggio, un gruppo di quattro ragazzi uscendo da un locale
di Piazza Santi Apostoli si è diretto due ore fa verso il centro della
città. A mezzogiorno, quando all’interno della birreria Dreher di
Roma non c’era nessuno il pranzo è stato consumato velocemente. Finito di
mangiare, i giovani, due uomini e due donne, si sono alzati, hanno pagato il
conto e si sono allontanati in direzione del civico 47 di via Marco Aurelio,
una strada alle spalle del Colosseo. Qui uno dei quattro, Rosario
Bentivegna detto “Paolo”, studente 22enne romano della facoltà di medicina, ha indossato
abiti da spazzino, impugnato il carretto metallico utilizzato per la raccolta
dei rifiuti e si è diretto verso Largo del Tritone con destinazione via
Rasella. Roma è occupata, è nel pieno della Seconda Guerra Mondiale, l’esercito
tedesco è in città ormai da sei mesi. La settimana scorsa, per alcuni giorni, con
Lucia Ottobrini, “Maria”, 20enne impiegata, Mario Fiorentini, "Giovanni",
25enne studente di matematica, e Carla Capponi, “Elena”, 25enne impiegata in
un laboratorio chimico, aveva studiato minuziosamente il tragitto che un
reggimento percorre giornalmente in marcia nel centro cittadino. In seguito ai
diversi appostamenti avevano appurato che l’11a Compagnia del 3° Battaglione
del "Polizei Regiment Bozen”, coscritti sudtirolesi, tutti contadini
italiani arruolati a seguito della creazione della Zona di Operazione delle
Prealpi, l’occupazione nazista delle province di Trento, Bolzano e Belluno avvenuta
dopo l’8 settembre del 1943, percorre ogni giorno lo stesso tratto di strada
alla medesima ora, alle due del pomeriggio. In un primo momento i quattro
militanti avevano proposto a Carlo Salinari, "Spartaco",
responsabile del GAP centrale, il Gruppo di Azione Patriottica, l’unità
partigiana del Partito Comunista Italiano, di lanciare
alcune granate nel momento in cui i militari nemici avessero girato da via
Rasella in via Quattro Fontane, piano ritenuto troppo limitato dal “dirigente”
partigiano. Sarebbe servito qualcosa di più incisivo, di esemplare. Si era
deciso quindi, con la partecipazione di molti più elementi dei GAP romani, di
studiare un attacco decisamente più ambizioso: una bomba, e la regolarità del
percorso, i ranghi compatti in cui marcia e le strette strade che percorre, avrebbero
reso la colonna del Bozen un bersaglio ideale per un’azione di questo tipo. Esaminato
con cura il percorso della Compagnia si era valutato che il punto più
favorevole in cui attaccare fosse via Rasella, una strada piuttosto stretta e
in forte pendenza attraversata dal solo incrocio con via del Boccaccio. La
salita avrebbe rallentato la marcia della colonna mentre l'angustia della
strada avrebbe accresciuto i danni dell’esplosione e ridotto la mobilità del
contrattacco. L'ordigno sarebbe stato collocato all’altezza del civico 156, a circa
a un terzo dalla sommità della strada, esattamente di fronte a Palazzo Tittoni.
L'edificio è semi abbandonato e la via appare molto poco frequentata, soprattutto
nel primo pomeriggio, poichè anche i pochi negozi presenti nei dintorni sono chiusi.
Inoltre, la relativa esiguità di passanti avrebbe ridotto gli effetti
collaterali, la possibilità di destare sospetti e il rischio di vittime civili.
Il piano definitivo elaborato da Mario Fiorentini aveva previsto la
partecipazione di 17 gappisti: quello travestito da spazzino, al segnale
convenuto avrebbe innescato un ordigno nascosto all'interno di un carrettino
della nettezza urbana; gli altri, ad esplosione avvenuta, approfittando della
confusione generale avrebbero attaccato la compagnia con armi da fuoco e granate
a frammentazione. Anche il Papa, Pio XII, il 12 marzo si era espresso in merito
alla guerra e nel suo discorso aveva chiesto ad entrambe le parti di cessare i
bombardamenti e porre fine al martirio della già provata città. Proprio per
questo discorso nei 7 giorni successivi si era diffusa la voce su un possibile
ritiro dell’esercito tedesco, voce confermata dal fatto che la colonna del
Bozen aveva diminuito i passaggi nel centro cittadino. Dopo due giorni di
silenzio, il 20 marzo era passata per il solito percorso rimettendo in questo
modo in piedi le intenzioni di annientarla il prima possibile. L’ordine per l’attacco
era stato dato per il giorno successivo ma per un problema logistico non era
stato possibile che l’ordigno venisse concluso. Inoltre, mancando la colonna nuovamente
l’appuntamento del 22, i GAP avevano temuto che ne fosse stato modificato il
percorso col pericolo che il piano potesse andare in fumo con stessa la
velocità con cui era stato creato. Il carrettino per l’immondizia era stato
trafugato da Raoul Falcioni da un deposito della nettezza urbana, alla divisa
da spazzino ci aveva pensato invece Guglielmo Blasi, entrambi portati ieri sera
nella cantina di via Marco Aurelio 47 utilizzata dai GAP come rifugio, deposito
e laboratorio per la preparazione degli esplosivi. Duilio Grigioni, Giulio
Cortini, Laura Garroni, Carla Capponi e lo stesso Bentivegna si erano occupati
della bomba: 12 chilogrammi di Trinitrotoluene macinato, pressato e chiuso in
un contenitore di ghisa fabbricato dai membri della Sap Romana Gas di
via Ostiense. Accanto al Trinitrotoluene, esplosivo preparato la prima volta
nel 1863 dal chimico tedesco Julius Wilbrand, perfezionato dal chimico tedesco Hermann
Frantz Moritz Kopp nel 1888 e prodotto industrialmente in Germania un anno dopo
col nome di Tritolo o Tnt, avevano stipato sei chilogrammi di pezzi sfusi di
ferro chiusi in un sacco di canapa. Questi sarebbero stati trasformati in proiettili
assieme all’involucro frantumato, le schegge sarebbero state sparate con una
traiettoria a ventaglio dalla spinta dell’onda di sovrappressione creata dalla
detonazione. La carica di esplosivo era stata armata da un singolo detonatore a
fuoco, un artifizio esplosivo primario costituito da un cilindro di
alluminio lungo 6 centimetri e del diametro di 45 millimetri contenente una
piccola quantità di esplosivo secondario, la Pentrite, Pentrite, uno degli
esplosivi più potenti, preparata per la prima volta nel 1891 dal chimico
tedesco Bernhard Tollens, innescato a sua volta da pochissimo esplosivo
primario, l’Azoturo di Piombo, preparato dalla Curtis's and Harvey Ltd
Explosives Factory nel 1890. A questo, erede di quello inventato da Alfred
Nobel nel 1867 costituito da un tubetto di stagno riempito con Fulminato di Mercurio,
esplosivo primario sensibilissimo agli urti e al calore sintetizzato già nel XVII
secolo e perfezionato nel 1799 dal chimico inglese Edward Howard, era
stato fissato uno spezzone di miccia a lenta combustione. Questo cordone di
cotone del diametro di 5 millimetri reso impermeabile con un’anima di Polvere Nera
è erede del cordone di canapa catramata brevettata il 6 settembre 1836 da
William Bickford e la polvere al suo interno, antica ricetta vista per la prima
volta in un'opera di un autore cinese, Wu Ching Toung Yao, che nel 1044 suggeriva
il dosaggio di un 74% in peso di nitrato di potassio, 15% in peso di carbone e
11% in peso di zolfo, formula ripresa dal monaco e scienziato Ruggero Bacone
che l’aveva modificata a 74,65% di nitrato di potassio, 13,50% di carbone e
11,85% di zolfo, ricetta che dal 1249 è arrivata praticamente immutata fino ai
nostri giorni, avrebbe consentito alla fiamma un percorso di un metro ogni 120
secondi. L’effetto domino generato dal detonatore annegato del Tritolo avrebbe trasformato
il contenitore di ghisa in una enorme granata a frammentazione. La
conformazione della via avrebbe fatto il resto. Il contenitore era stato
collocato all’interno del carrettino della nettezza urbana chiuso in uno degli
scompartimenti interni utilizzati per la raccolta dei rifiuti mentre nell’altro
scompartimento erano stati riposti, come copertura, dei sacchi colmi di
immondizia, col carretto che sarebbe dovuto sembrare a tutti gli effetti,
quello adibito alla pulizia delle strade e per questo nulla era stato lasciato
al caso. Con la colonna del Bozen avvistata stamattina sul percorso mentre si
accingeva a compiere il tragitto di andata, la notizia è circolata immediatamente
mettendo in moto i gappisti e il loro piano per colpire la colonna sul tragitto
del ritorno. Col pesante carretto Bentivegna è sul punto prestabilito
dalle ore 14:00, in perfetto orario. Il giovane, faticando a spingerlo su via
delle Tre Cannelle e su via IV Novembre, avvicinandosi al Quirinale è stato notato
da due spazzini veri che, scambiandolo per un venditore dedito al mercato nero,
si sono avvicinati cercando di sollevare i coperchi dei cilindri per vederne il
contenuto. Bentivegna, dopo averli allontanati in malo modo, giocandosi il
tutto per tutto, ha proseguito verso la discesa che dal Quirinale conduce a via
del Tritone attraverso via delle Quattro Fontane. Sudato, affaticato, ha accostato
il carretto al civico 155 di Via Rasella, sulla strada, davanti a Palazzo
Tittoni. È fermo, aspetta. La sua ragazza, Carla Capponi, è appostata
a largo del Tritone davanti all’ingresso del palazzo del quotidiano “Il
Messaggero”. Si trova tra due agenti di polizia in borghese, aspetta con un
impermeabile in mano mentre legge la prima pagina del giornale esposto dietro
il vetro. La sua attenzione si sofferma sull’eruzione del Vesuvio, a Napoli,
ormai la vita che stanno conducendo li ha isolati dal mondo al punto che tutto
il resto sfugge alla loro attenzione. In questi pochi minuti di distrazione non
si è accorta che i soldati del Bozen sono in ritardo rispetto all’orario di
sempre. Tornata in sé, capacitatasi della cosa, si innervosisce, ma anche gli
agenti in borghese si accorgono del nervosismo e di questo continuo guardarsi
attorno con circospezione. La donna ha appena attirato la loro attenzione. Uno
di loro si muove nella sua direzione, si avvicina e con gli occhi sull’impermeabile
da uomo che da qualche minuto lo incuriosisce le chiede se stia aspettando qualcuno.
Dopo averli liquidati dicendo loro che appartiene al fidanzato e di starlo ad
aspettare per restituirglielo dopo averlo lavato, con passo svelto si allontana
svoltando l’angolo su via Quattro Fontane. Bentivegna è lì, giù per via Rasella
in mezzo alla strada che cerca di comportarsi da spazzino nel modo più naturale
possibile. Non gli riesce, spazza in modo così goffo che la Capponi inizia a
temere che qualcuno si accorga di lui. Il compagno alza lo sguardo e la vede,
si ferma, accende la pipa e attende il segnale. La donna rimane accanto al
cancello di Palazzo Barberini in modo da avere una visuale maggiore ma i
due agenti, che non l’hanno persa di vista neanche un secondo, si avvicinano
una seconda volta. In quel momento spunta dalla via parallela un’anziana
signora di sua conoscenza e la giovane, nel vederla approfitta di questo regalo
del caso avvicinandosi per salutarla in maniera più che calorosa, distogliendo in
questo modo da lei l’attenzione degli agenti che si allontanano tornando
davanti al palazzo del quotidiano. Sulla via Rasella Guglielmo Blasi si avvicina
a Bentivegna: deve tenersi pronto. La compagnia, di ritorno dall’esercitazione
al poligono di tiro di Tor di Quinto, con mitra e munizioni a tracolla e granate
in vita, sta girando l’angolo per salire in marcia verso di loro. I
soldati marciano e cantano, “Hupf, mein mädel” è la canzone che li accompagna
ogni giorno nel tragitto per la città. All’inizio della guerra questi soldati
avevano prestato servizio militare per il Regno d’Italia giurando fedeltà ai
Savoia; una volta sotto il controllo tedesco, erano stati inviati a Roma perché
sapevano l’italiano e, considerati troppo vecchi per essere impiegati al
fronte, erano utilizzati per operazioni di polizia e principalmente come
piantoni su obiettivi di interesse strategico-militare. I soldati al comando di
Herbert Kappler, tenente colonnello delle SS e capo del servizio di sicurezza
che rappresenta la Gestapo a Roma, passano accanto a “Cola”, Franco
Calamandrei, che si toglie il berretto. È il segnale. Bentivegna dopo un
sospiro avvicina la pipa alla miccia lunga 50 secondi, il tempo necessario ai
tedeschi per percorrere il tratto di strada compreso tra il punto a valle usato
per la segnalazione e il carretto. La miccia è accesa, una fiammata e una
nuvoletta bianca avvolgono il ragazzo che chiude il coperchio del bidone e si incammina
con passo veloce verso la parte alta della via. Il passo di marcia del Bozen è
rumoroso, cadenzato, quasi musicale. Il portiere di Palazzo Tittoni esce
proprio in quell’istante per guardare i soldati che si avvicinano, quasi con
ammirazione. Bentivegna gli urla di andarsene. Anche degli operai che stanno
lavorando lì vicino vengono avvisati di lasciare tutto e scappare, ma ormai è
troppo tardi per preoccuparsi dei civili, l’operazione non si può annullare. Gli
altri partigiani in cima alla via, Fernando Vitagliano, Francesco Curreli,
Raoul Falcioni e Guglielmo Blasi, sulle scalette di fronte all'incrocio con via
del Boccaccio, attendono il momento giusto per passare alla seconda fase
dell’attacco: hanno delle bombe da mortaio di tipo Brixia modificate
per essere usate come bombe a mano. “Semmai ci saranno sopravvissuti, queste
daranno il colpo di grazia”, si erano detti. Poi la fuga verso via dei Giardini
coperti dagli altri gappisti dislocati nelle vicinanze. Il battaglione Bozen,
composto da 156 uomini tra ufficiali, sottufficiali e truppa, avanza lungo la
via. Il loro passo si fa sempre più vicino, le loro voci sempre più alte. Bentivegna
raggiunge la Capponi e si infila l’impermeabile per coprire il camiciotto da
spazzino. Il fiocco fumante all’interno del carretto continua a consumare
centimetri di miccia, mentre fuori la strada è piena dì passanti, è l’orario di
apertura dei negozi e il battaglione in marcia attira curiosi di tutte le età.
Una frotta di bambini si è messa in prima fila imitando il passo dei soldati, è
un attimo terribile per tutti, ogni secondo è lungo un eternità. È troppo tardi
per procrastinare anche di un solo secondo l'azione, il segnale è dato e la
miccia è troppo corta per provare a fermarla. Si tenta l’impossibile, i
gappisti cercano di allontanare i curiosi, non è il momento per essere gentili,
ma per una di quelle tragiche fatalità del destino che non perdonano, Piero Zuccheretti,
di 13 anni, si trova dall’altro lato della colonna. Piero abita col nonno
materno che lo ha messo a lavorare in una officina ottica di via degli
Avignonesi, strada parallela alla via Rasella, affinchè imparasse un mestiere. Quel
giorno Piero stava andando al lavoro, salito sull’autobus che avrebbe dovuto
farlo scendere a via Del Tritone era stato costretto a scendere alla fermata di
piazza Barberini, all’angolo con via Quattro fontane, per il sovraccarico del
mezzo. Una volta sceso, invece di girare subito per via degli Avignonesi si era
spinto fino a via Rasella, la strada successiva, attratto dalle note della canzone
che i soldati stavano cantando. Si era seduto sul carretto fermo al lato della
strada e lì era rimasto ad aspettare quella che, ai suoi occhi, sembrava una
simpatica parata militare. A pochi metri da lui, anche un altro passante è
fermo incuriosito a guardare la colonna che ora sta salendo verso di loro. La
curiosità e l’ammirazione per quel rumoroso teatrino durano poco, la miccia si
esaurisce. Sono le ore 15:52. All’interno dello scompartimento del carretto la
fiamma entra nel cilindretto di alluminio del detonatore che si attiva. La
carica primaria di Azoturo di Piombo accende la secondaria di Pentrite. I 12
chilogrammi di Tritolo esplodono con una velocità di 6.800 metri al secondo. È
un boato enorme, il centro della città viene scosso, il reggimento è investito
in pieno da una bolla d’aria di 2.800 gradi centigradi. Il 2° e il 3° plotone
vengono sventrati, i vetri dei palazzi vanno in frantumi, finestre e porte sono
squassate dalla forza d’urto mentre le tegole piovono dall’alto. La rosata
di schegge di metallo contenute nel sacco di canapa si apre in una raggiera spinta
dall’onda di sovrappressione. La forza dell’esplosione, non riuscendo a
sfogarsi in una via così stretta, si concentra nei pochi metri della strada. Corpi
e cose sono investite in pieno con una violenza inaudita, i proiettili oltrepassano
la carne terminando la corsa sulle facciate dei palazzi. Tutto diventa scuro
per la sabbia sollevata. C’è fumo, molto fumo. A terra ci sono i corpi di 26
soldati morti sul colpo. I loro corpi dilaniati sono volati per metri,
smembrati ulteriormente dalle susseguenti indotte esplosioni di alcune delle
granate che i soldati avevano alla cintura. L’intera compagnia è stata
praticamente spazzata via, c’è sangue dappertutto, a terra, sul marciapiede,
anche sulla facciata di Palazzo Tittoni ci sono sangue e pezzi di carne. Il
fumo grigio copre un centinaio di soldati che si contorcono al suolo
agonizzanti. Anche il mezzo blindato in coda alla colonna è andato distrutto.
Le fiamme che divampavano dai fianchi lambiscono i muri dei palazzi. Mentre i
militari ancora devono comprendere cosa sia accaduto, una pioggia di bombe
Brixia e proiettili arrivano sulla strada. I soldati sopravvissuti, in testa
alla colonna, in un istintivo tentativo di sopravvivenza sparano raffiche di
mitra in tutte le direzioni ma i partigiani si sono già allontanati. II fumo si
dissolve e la polvere si deposita, un macabro scenario si apre a chi ce l’ha
fatta: sul Punto Zero non resta più nulla, tutto in un raggio di 40 metri è
stato fatto a pezzi, il carretto dell’immondizia si è dissolto e intorno c’è solo
devastazione, morti e feriti, in 18 sono sanguinanti. Altri 6 stanno morendo e poco
lontano 6 civili sono a terra senza vita, dilaniati, e questo non era previsto.
Piero Zucchetti è stato smembrato in 7 pezzi scaraventati a diverse decine di
metri di distanza. Il tronco è a metà della salita, 30 metri più in alto di
Palazzo Tittoni, dei piedi non c’è traccia, non verranno mai trovati. L’altro
passante è stato sparato a 60 metri, il suo corpo è diviso in due parti e la
pelle è fusa con gli indumenti. Al posto del carretto ora c’è un cratere di
poco più di due metri di diametro, dal muro del palazzo accanto si è aperto un
rigagnolo d’acqua che mescolandosi col sangue corre verso il fondo della strada.
La potenza dell'onda d'urto è stata tale da scardinare le porte e le finestre
del collegio scozzese nei pressi della via, ridurre i vetri in
frantumi così come quelli dei piani superiori della Manica Lunga
del Palazzo del Quirinale, devastare le abitazioni, danneggiare gli
interni di Palazzo Tittoni e scagliare un autobus contro i cancelli
di Palazzo Barberini. La notizia giungerà alle alte gerarchie fasciste e
tedesche in città. Il questore Caruso e il generale Mälzer accorreranno sul
luogo dell’attentato. L’ufficiale tedesco ordinerà ai suoi uomini di
rastrellare tutti gli abitanti di Via Rasella, e furente, vorrà far
saltare in aria ogni palazzina del quartiere. Residenti e passanti verranno
fatti allineare davanti all’entrata di palazzo Barberini, tutti con le
mani dietro la nuca, gli uomini da una parte, le donne e i bambini dall’altra,
mentre i soldati passeranno al setaccio casa per casa. Le 200 persone allineate
lungo i cancelli di palazzo Barberini verranno condotte presso gli uffici
di polizia e la maggior parte rilasciata dopo poche ore. Hitler, dal suo
quartier generale della Tana del lupo, informato dell’accaduto e fuori di sé darà
l’ordine di uccidere cinquanta italiani per ogni soldato tedesco morto. La
cifra scenderà a dieci ma nel frattempo un altro soldato morirà precipitando le
cose. Dal carcere di Regina Coeli e dal quartier generale dei nazista di Via
Tasso verranno prelevati 335 prigionieri politici, individui sulla carta “degni
di morte”, in realtà arrestati per piccole infrazioni o semplici sospettati. Verranno
portati alle vecchie cave di pozzolana sulla via Ardeatina, fra le antiche
catacombe cristiane di Domitilla e di San Callisto, suddivisi in gruppi di
cinque, condotti nelle gallerie, fatti inginocchiare e giustiziati con un colpo
di pistola dall'alto in basso all'altezza del collo.
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