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01 gennaio, 2022

Bombay, Victoria Dock, 14 aprile 1944

 

TIPOLOGIA: incidente
CAUSE: errore umano
DATA:
14 aprile 1944
STATO: India
LUOGO:
Bombay, Victoria Dock
MORTI: 1.238
FERITI:
2.583

Analisi e ricostruzione a cura di Luigi Sistu

È venerdì 14 aprile, sono le ore 13:30, è un mite pomeriggio di primavera a Bombay e qui, nella Capitale dello stato del Maharashtra, prima città per densità di popolazione, il porto è gremito di navi da guerra. Trovandosi sulla costa occidentale e possedendo un profondo porto naturale che movimenta quasi la metà del traffico merci marittimo dell’India, Bombay è anche un’importantissima base navale e un centro logistico fondamentale per il progetto di invasione del Giappone. Le navi in porto battono tutte le bandiere degli alleati, soldati europei, asiatici, americani, affollano la città comprando ricordi come i variopinti sari di seta, elefanti d'Avorio e bastoncini di incenso cinese. Come ogni giorno lungo i moli si lavora a pieno regime, i turni sono duri e molti materiali da movimentare sulla banchina presentano un grado di pericolosità elevano tanto da mantenere il livello di attenzione degli operatori addetti al carico e scarico costantemente alto. Alcuni di questi, appena rientrati dalla pausa pranzo iniziata alle ore 12:30, stanno risalendo a bordo del mercantile norvegese per carichi pesanti M/S Belray. Uno dei primi, nello scendere in una delle due stive ha appena notato con la coda dell’occhio un filo di fumo fuoriuscire da una delle prese d’aria della stiva di una nave ormeggiata nel Victoria Dock, la banchina contigua. Si tratta della SS Fort Stikine, una nave da carico di 7.142 tonnellate di stazza costruita nel 1942 a Prince Rupert, una città portuale nella Columbia Britannica. Il mercantile, dal nome di un ex avamposto della Compagnia della Baia di Hudson situato nell’attuale Wrangell, in Alaska, e di proprietà della War Shipping Administration, l’agenzia di guerra di emergenza del governo degli Stati Uniti d’America incaricata di acquistare e gestire il tonnellaggio di navi civili necessario per combattere la guerra, fa parte di una classe di 198 navi da carico per l’utilizzo dal parte del Regno Unito nell’ambito dello schema Lend-Lease. Questo è un programma promulgato l’11 marzo 1941 in base al quale gli Usa forniscono al Regno Unito, alla Francia libera, alla Repubblica di Cina, all’Unione Sovietica e alle altre nazione alleate, cibo, petrolio e approvvigionamenti militari incluse navi e aerei da guerra, per i quali gli Stati Uniti ricevono in cambio basi militari e navali in territorio alleato durante tutta la durata del conflitto. Il Fort Stikine, arrivato in porto il 12 aprile via Gibilterra, Port Said e Karachi e con le operazioni di scarico iniziate già da una notte con parte di fertilizzante e di olio combustibile già portati a terra, è reduce di una traversata di una cinquantina di giorni dopo avere lasciato l’Inghilterra da Birkenhead carico di munizionamento, bombe aeronautiche, esplosivo sfuso, aeroplani Supermanire Spitfire, approvvigionamenti, e 31 casse di lingotti d'oro del valore di 890 mila sterline destinati a stabilizzare la Rupìa indiana. Dopo una sosta in Pakistan e scaricati a Karachi gli aerei da caccia Spitfire, parte degli approvvigionamenti, delle munizioni e degli esplosivi, ha stivato al loro posto 1.000 barili di olio combustibile, sacchi di riso, legname, rottami di ferro, zolfo, resina, fertilizzanti a base di pesce, e con protesta del Capitano Alexander James Naismith anche 8.700 balle di cotone grezzo, una merce vietata nel trasporto su rotaia da Punjab a Bombay. Chiamati gli altri nella stiva numero 2 per osservare il fumo biancastro venire da babordo, il lato della nave più vicino alla banchina, gli uomini del Belray si precipitano sul ponte per dare l'allarme. Non c’è tempo da perdere, gli operatori di un mezzo antincendio in stazionamento sul molo, allertati dalle grida di quegli uomini che si sbracciano in maniera nervosa, si precipitano sotto la nave con gli idranti ma senza aver dato “l’allarme 2”, ovvero quello per gli incendi su navi con carichi pericolosi, errore al quale il vice-caposquadra, accortosi di tale ingenuità, si affretta a rimediare andando a digitare il numero “290” sul telefono della banchina. Ma il telefono, con grande stupore dell’uomo, è privo di disco combinatore. La situazione precipita. Il vice-caposquadra, percorrendo di corsa la banchina per 170 metri fino alla cabina dell’avvisatore antincendio, rompe il vetro per suonare il campanello, un campanello di un allarme moderato che allerta il centro di controllo ma per l’invio di sole due autopompe. Le lancette dell'orologio della torre del porto stanno segnando le ore 14:16 e dentro il Fort Strike trasformato in una gigantesca bomba galleggiante lunga 135 metri, 180 metri cubi di legname pericolosamente posizionato sopra le balle di cotone accanto ai barili d’olio stanno per innescare una massa di esplosivo gigantesca, mostruosa: 1.395 tonnellate. Nella parte sud-ovest della stiva, contenute in 50.000 casse di legno del peso di 52 chilogrammi ciascuna ci sono i pezzi del calibro 7,7 millimetri, il munizionamento delle 8 mitragliatrici Browning .303 Mark II che armano le tre torrette difensive dei bombardieri quadrimotori pesanti inglesi Avro 683 Lancaster. Ciascun colpo è caricato con Polvere Infume, una invenzione del chimico francese Paul Marie Eugène Vieille che aveva ottenuto un nuovo tipo di polvere da sparo di tipo propellente completamente diverso dalle altre e che sviluppava un’energia tre volte superiore producendo nel contempo fumi di combustione molto ridotti. Questo tipo di esplosivo era stato realizzato unendo una miscela di etere ed alcool al prodotto della gelatinizzazione della Nitrocellulosa, l’esplosivo scoperto nel 1838 dal chimico francese Théophile-Jules Pelouze da carta, lino e cotone, ricetta perfezionata e stabilizzata dal chimico tedesco Christian Friedrich Schönbein nel 1846 contemporaneamente al chimico tedesco Johann Friedrich Böttger. Nella porzione nord-ovest della stiva invece, confezionate in panetti del peso di 200 grammi l’uno e contenute in 7.000 casse di legno del peso netto di materiale equivalente a 34 chilogrammi ciascuna ci sono 238 tonnellate di esplosivo sfuso di tipo "A" ad alta sensibilità. Questo è il Trinitrotoluene, un esplosivo preparato la prima volta nel 1863 dal chimico tedesco Julius Wilbrand, perfezionato dal chimico tedesco Hermann Frantz Moritz Kopp nel 1888 e prodotto industrialmente in Germania un anno dopo col nome di Tritolo o Tnt. Immediatamente accanto, impilate ordinatamente le une sulle altre nella parte nord-est della stiva ci sono le bombe aeronautiche e sono del tipo a caduta libera con carica di esplosivo ad alta velocità, un tipo di bombe che seguono una traiettoria balistica dopo il lancio in funzione della velocità del mezzo aereo e della sua quota in relazione alla quota del bersaglio a terra. Queste, “per operazioni speciali, ad alta capacità”, sono completamente diverse dalle classiche “per uso generico, a media capacità” utilizzate per le operazioni di bombardamento strategico e tattico con l’impiego di bombardieri a lungo raggio per sganciare grandi quantità di ordigni su parti di territorio nemico dietro la linea del fronte per minarne il morale, il sistema produttivo o le infrastrutture, o per supporto attaccando mezzi e truppe sul campo. Destinate ad un utilizzo chirurgico, preciso e altamente distruttivo, qui dentro ci sono 150 Blockbuster, dei cilindri in acciaio di completa distruzione progettati per scopi di bombardamento in cui è richiesto il massimo danno da esplosione. Sono bombe gigantesche che hanno una configurazione particolare, modulare, poiché le versioni maggiori sono studiate per essere costituite da sezioni affiancate della più piccola imbullonate tra loro. Stoccata nella stiva del Fort Stikine c’è la versione più pesante, misura 741 centimetri di lunghezza per 97 centimetri di diametro ed è costituita da quattro sezioni affiancate della versione più piccola da 782 chilogrammi di peso lunga 224 centimetri con un diametro di 76 e una carica esplosiva di 556 chilogrammi. La grande, pesante invece 5.443 chilogrammi contiene una carica esplosiva di 4.355 chilogrammi, in alcuni casi costituita da Torpex, in altri casi da Amatex. Sono entrambi esplosivi ad alta velocità, il primo è potentissimo, sviluppato nel 1942 presso la Fabbrica Reale Gunpowder, nel Waltham Abbey, nel Regno Unito, è 50% più potente del Trinitrotoluene ed è composto da 40% in peso di questo, 42% in peso di RDX e 18% in peso di polvere di alluminio. Il nome è l'abbreviazione di TORPedo EXplosiv, essendo stato originariamente sviluppato per la testata dei siluri. L’Amatex invece è una miscela esplosiva sviluppata dall’ammiragliato britannico nei primi anni della guerra ed è costituita da 51% in peso di Nitrato d’Ammonio, il fertilizzante preparato dal chimico e farmacista tedesco Rudolph Glauber nel 1659 che lo aveva chiamato “nitrum flammans” per via del colore giallo della sua fiamma e scoperto come prodotto esplodente dal chimico e ingegnere svedese Alfred Nobel nel 1870, 40% in peso di Trinitrotoluene e 9% in peso di RDX. Formalmente chiamato ciclotrimetilenetrinitramina, l’RDX ha caratteristiche eccezionali, è stato scoperto e brevettato dal chimico e farmacista tedesco Georg Friedrich Henning nel 1898 e codificato con questo nome prima dall’esercito inglese come Royal Demolition eXplosive e poi prodotto in larga scala dagli Stati Uniti nel 1920. “RD” sta per Research and Development, ricerca e sviluppo, sigla comune a tutti i nuovi prodotti per la ricerca militare, mentre la "X", la classificazione, è nata come lettera provvisoria poi rimasta definitiva. Separati da tutti, a sud-est dello scompartimento dedicato agli armamenti, chiusi in 500 casse ci sono i meccanismi più delicati, i detonatori e le spolette. I detonatori, del tipo a fuoco ed elettrico, sono gli artifizi esplosivi primari in grado di innescare l’esplosivo sfuso. Quelli elettrici, eredi del cilindretto di alluminio inventato nel 1876 da Julius Smith attivati da una scarica elettrica che arroventava un ponticello imbevuto in una soluzione infiammabile e innescava una carica di Fulminato di Mercurio, esplosivo primario sensibilissimo agli urti e al calore, sintetizzato già nel XVII secolo e perfezionato nel 1799 dal chimico inglese Edward Howard, nella versione “moderna” hanno il medesimo accenditore ma contengono due micro cariche, una secondaria di Pentrite, uno degli esplosivi più potenti preparato per la prima volta nel 1891 dal chimico tedesco Bernhard Tollens, che innesca una primaria di Azoturo di Piombo, il preparato dalla Curtis's and Harvey Ltd Explosives Factory nel 1890. I detonatori a fuoco invece, eredi di quello inventato da Alfred Nobel nel 1867 consistente in un tubetto di stagno riempito anch’esso di Fulminato di Mercurio, sono attivati da una classica miccia a lenta combustione, un cordone di cotone reso impermeabile con un’anima di Polvere Nera, esplosivo formato da 74,65% di nitrato di potassio, 13,50% di carbone e 11,85% di zolfo, ricetta arrivata ai giorni nostri grazie al monaco e scienziato Ruggero Bacone nel 1249 modificando quella comparsa per la prima volta in un'opera di Wu Ching Toung Yao nel 1044 che suggeriva il dosaggio di un 74% in peso di nitrato di potassio, 15% in peso di carbone e 11% in peso di zolfo. Erede del cordone di canapa catramata con l’anima di polvere nera brevettata il 6 settembre 1836 da William Bickford, consente alla fiamma un percorso di un metro ogni 120 secondi. Le spolette invece, chiuse in altre casse di legno separate dai detonatori da un pannello di legno, consentono l’innesco dell’esplosivo contenuto nelle ogive delle bombe. Da montare sul naso delle ogive, questo tipo studiato appositamente per le Blockbuster sono di tipo meccanico, con una molla che rilascia un percussore all’impatto della bomba col terreno che arma il detonatore interno con innesco ad urto. Questo carico, minacciato dalle fiamme che metro dopo metro stanno avvolgendo la stiva, deve essere messo in sicurezza nel più breve tempo possibile. Sono passati 8 minuti dopo il primo squillo di sirena che l'ufficiale del più vicino distaccamento dei vigili del fuoco arriva sul posto con le due autopompe. Dopo aver osservato dall’interno l’incendio ormai già propagato si rende conto che è il cotone ad avere preso fuoco per primo. La causa? Una lanterna creduta spenta e ancora calda poggiata su una delle balle. I minuti passano e le fiamme, che si stanno espandendo con una velocità impressionante, hanno già acceso il legname che sta facendo aumentare esponenzialmente la temperatura nella stiva. Il metallo dei barili di olio combustibile si deforma e alcuni di questi, danneggiati nella movimentazione e nel trasporto ma stivati ugualmente nonostante perdessero olio, stanno per prendere fuoco. L’ufficiale, che sbianca alla vista del carico invia immediatamente “l’allarme numero 2” in modo da allertare altre 8 autopompe che arrivano in pochi minuti, sono le ore 14:35. Gli ultimi ad arrivare sono Norman Coombs, capo dei vigili del fuoco di Bombay, precipitatosi sulla banchina ancora in pantaloncini e giacca sportiva, e il Capitano Oberst, ufficiale dell’Indian Army Ordnance Corps, il corpo d’artiglieria dell’esercito, responsabile degli esplosivi in porto. Hanno in mano una planimetria del mercantile con la disposizione del carico nella stiva. In un velocissimo briefing assieme al Capitano Naismith e al Comandante Longmore della Royal Indian Navy, la forza navale dell’India Britannica, prendono coscienza che se la SS Fort Stikine dovesse saltare in aria sprofonderebbe con tutto il porto e parte della città. Il calore è immenso e tutto intorno l’acqua sta ribollendo, la nave deve essere immediatamente affondata. Ma il Colonnello Carl Liam Sadler, direttore generale del porto, non è d'accordo, il metro e mezzo d’acqua tra la chiglia della nave e il fondale del porto del punto in cui è ormeggiato il mercantile è troppo poco profondo e non coprirebbe neppure la parte inferiore della stiva numero 2. Mentre il Comandante Naismith, confuso da questi consigli contrastanti e titubante sul da farsi, l’olio prende fuoco con le cataste di legname e le balle di cotone diventate un’unica, immensa palla di fuoco. Sono le ore 14:50, mentre si decide se allontanare o no il mercantile dai moli trascinandolo al largo con dei rimorchiatori, 2 motoscafi antincendio arrivati nel frattempo sul posto, il Doris e Panwell, aprono altre 9 manichette sulla nave in fiamme, ma è troppo tardi, la situazione interna precipita vertiginosamente nella stiva diventata un immenso rogo coi pompieri che continuano a rovesciarvi da quasi un’ora 900 tonnellate d’acqua portando il numero delle manichette a terra da 11 a 32. Gli ultimi membri d’equipaggio lasciano il mercantile di corsa ma all’esterno la maggior parte dei portuali, non dando importanza agli eventi che si susseguono davanti alla Fort Stikine, continuano a lavorare come se nulla fosse, complice l’assenza di esposizione della bandiera rossa per indicare un carico pericoloso a bordo, una pratica interrotta in quanto avrebbe identificato tali navi in ​​caso di raid aereo nemico rendendole un bersaglio primario. Inoltre, essendo stata interrotta per lo stesso motivo anche l’obbligatorietà dello scaricamento in chiatte offshore delle merci a rischio come gli esplosivi di tipo “A”, i più pericolosi, praticamente nessuno a parte gli equipaggi e gli ufficiali del porto sapevano il reale contenuto di ogni bastimento. Ciò che i portuali stanno guardando con curiosità è solo un’anonima nave con del fuoco a bordo e delle operazioni di spegnimento, una cosa abbastanza frequente in un porto trafficato come quello, talmente frequente che un marinaio del Jalapadma, una nave da carico ormeggiata a poppa del Fort Stikine, finisce con l'annoiarsi a tal punto nello stare a guardare tutti quegli uomini con le pompe in mano da andarsene sottocoperta a leggere un libro. Solo uno spettatore si è accorto del reale pericolo, un marinaio del Belray, uno che conosce bene gli incendi perché li ha combattuti durante gli incessanti bombardamenti di Londra da parte dei tedeschi. Alla vista delle fiamme che stanno cambiando colore diventando giallo scuro gli riappare davanti agli occhi una frase del suo vecchio manuale d'istruzione antincendio: "fiamme giallo scure, pericolo esplosivi", sono le ore 16:06. L’uomo ha appena il tempo percorrere tutto il ponte del Belray urlando ai compagni di mettersi al riparo prima di gettarsi faccia a terra nel pozzetto del cannone che una fiammata si fa strada lungo i condotti e le aperture del mercantile di fronte levandosi in aria ben oltre l’albero maestro. La Fort Skitine salta in aria, l’esplosione scuote l’aria con tale violenza da mandare in tilt i sismografi dell'Osservatorio dell’Istituto Indiando di Geomagnetismo dell’isola di Colaba. Il mercantile viene spezzato in due scardinando la caldaia dai sostegni e sparandola attraverso le lamiere ad una distanza di 800 metri. La terra trema, a Bombay le strutture si aprono, fino a 1.600 metri i muri crollano, le finestre vanno in frantumi per 12 chilometri. Dal molo un gigantesco fungo di fuoco spazza via qualsiasi cosa lanciando in aria una pioggia di rottami e cotone in fiamme. Sulla banchina un ufficiale viene tagliato in due da un pezzo di lamiera, il Comandante Naismith e il Secondo Ufficiale sono trascinati via davanti all’ispettore marittimo che viene completamente spogliato, i pompieri sono falciati come spighe. In basso il mare si solleva di 10 metri, i bacini vengono devastati da un anello di fuoco che con la potenza di 1.000 uragani attraversa la superficie raggiungendo una dopo l’altra le navi ormeggiate. Il Doris e il Panwell spariscono; il Belray, della Armstrong Whitworth & Co. Ltd e del peso di 4.094 tonnellate viene sbattuto violentemente sul molo; il Jalapadma, la nave da carico inglese da 3.857 tonnellate della Scindia Steam Navigation Company viene divisa in due con la parte anteriore sollevata per 20 metri e scaraventata sul tetto di un capannone e la poppa lanciata per 180 metri; il Baroda, una nave da carico inglese da 3.172 tonnellate di proprietà della British India Steam Navigation Company viene incenerita; la HMIS El Hind, una nave passeggeri da 5.319 tonnellate utilizzata dalla Scindia Steam Navigation Company Ltd e requisita dalla Royal Indian Navy come nave da sbarco, viene scoperchiata assieme alla Fort Crevier e alla Kingyuan, due navi da carico inglesi, la prima di 7.142 tonnellate e la seconda, di proprietà della China Navigation Company, di 2.653 tonnellate; due navi da carico, la General van Sweiten, da 1.300 tonnellate, la General van der Heyden, da 1.213 tonnellate, e il Tinombo, un mercantile costiero da 872 tonnellate, tutte olandesi e di proprietà della Koninklijke Peketvaart-Maatschappij, sono sollevate e rovesciate su un lato dilaniando tra le lamiere 2, 15 e 8 membri dell’equipaggio; le chiglie della nave da carico norvegese Graciosa, da 1.173 tonnellate di proprietà di Skibs A/S Fjeld, e dei due mercantili panamensi Iran e Norse Trader, la prima da 5.677 tonnellate della Iran Steamship Company, la seconda da 3.507 tonnellate di proprietà di Wallen & Co. Sank, si squarciano per tutta la lunghezza piegandosi verso l’interno; alla nave da carico egiziana Rod El Farag, da 6.292 tonnellate, della Sociète Mirs de Navigation Maritime, il ponte viene completamente fatto a pezzi, la poppa è piegata verso l’alto e il lato destro rientra per metà; all’HMS LCP 323 e all’HMS LCP 866, due piccoli mezzi da sbarco inglesi del peso di 3.674 chilogrammi non va meglio, le lamiere accartocciate come fogli di carta sono strappate dalle chiglie sollevate dall’acqua e lanciate in direzione della vicina Empire Indus, una nave da carico inglese da 5.155 tonnellate e della vicina HMHS Chantilly, una nave passeggeri inglese da 10.017 tonnellate trasformata in nave ospedale, mentre vengono avvolte dalle fiamme e strappate dagli ormeggi. L’onda di sovrappressione, devastati i bacini raggiunge la terraferma. 55 mila tonnellate di cereali, le riserve di emergenza destinate alla carestia del Bengala sono cancellati, i sili che li contengono scoperchiati, rovesciati su un lato e aperti per tutta la lunghezza. Le balle di cotone in fiamme, cadendo dal cielo sulle navi attraccate, sul cantiere navale e sulle aree dei bassifondi fuori dal porto, incendiano due chilometri quadrati di superficie edificata. In un raggio di 800 metri dalla nave alcune delle porzioni più sviluppate ed economicamente importanti di Bombay vengono cancellate. In città frammenti di metallo rovente, mattoni e porzioni di cemento ricadono sulle case e sulle strade falciando i passanti e uccidendo chi non si trova al riparo. Un lingotto d’oro sfonda il tetto di una casa atterrando ai piedi di un vecchio che legge nel balcone al terzo piano. Nella stanza accanto, la moglie non ha il tempo di accorgersi di nulla, un frammento di banchina squarcia il muro della camera da letto trapassandole il petto. Sul Belrav, il marinaio che si è buttato nel pozzetto risale in coperta, ormai trasformata in un cumulo di ferro inclinato di 40 gradi, corpi senza vita e moribondi. Solleva di peso un compagno, gli scivola dalle mani per il troppo sangue, la gamba gli è stata strappata di netto, fatica a portarlo giù per la passerella ma cerca prendere anche gli altri. Va avanti e indietro più volte, dispone i feriti a terra tra due muri rimasti intatti, al riparo dai continui scoppi di munizioni. L'ultimo è un marinaio indiano che ha perso entrambe le gambe, lo raccoglie per caricarlo su una piccola automobile ferma sulla banchina, l'ha quasi raggiunta quando dal bagliore rossastro della nuvola di fumo che nasconde il Fort Skitine un boato scuote l’aria per la seconda volta. Sono le ore 16:46, la restante parte di esplosivo si è accesa. La detonazione è impressionante, molto più potente della precedente. Il marinaio spinge il compagno sotto l'automobile seguendolo nel fango prima di essere raggiunto dall’onda di sovrappressione che solleva l’auto da terra scaraventandola contro un muro. Il boato, sentendosi per 80 chilometri fa vibrare il terreno fino alla città di Shimla, a 1.750 chilometri. La prima esplosione, avvenendo lateralmente ha sfogato parte della sua forza contro l'acqua e contro i capannoni delle banchine, questa, con un effetto spaventoso si sviluppa invece verticalmente. Il fungo nero che si apre coprendo il precedente risucchia verso l’alto frammenti di metallo, legno e cotone infuocato per un'altezza di 1.500 metri, una seconda pioggia di detriti bersaglia terra e acqua in un raggio di 900 metri appiccando fuochi oltre i confini del porto, nei quartieri residenziali. Intorno lo scenario è infernale. 1.238 persone tra cui 410 militari, 531 civili, 231 operatori portuali e 66 pompieri, sono state dilaniate. I loro corpi smembrati, accartocciati come fogli di carta non hanno più una forma. Altre 2.583, civili, soldati inglesi, indiani, aviatori della RAF e uomini delle forze armate americane sono invece feriti in modo grave. Il porto non esiste più, sotto una colonna nera che si estende su tutta la baia le strutture sono state appiattite e un milione di tonnellate di macerie, parti umane e di animali ricoprono il terreno per chilometri. Anche dei due bacini resta ben poco: il Jalapadma, il Baroda, il Fort Crevier, la Graciosa, l’Iran e il Rod El Farag sono distrutte; il Belray, la HMIS El Hind, il Kingyuan, il General van Sweiten, il General van der Heyden, il Tinombo, la Norse Trader, l’HMS LCP 323 e l’HMS LCP 866 sono affondate, tre ponti girevoli d’ingresso sono fuori dai loro sostegni, l’ingresso del bacino Victoria è bloccato da una nave affondata all’interno e da una affondata all’esterno, l’imbocco invece è ostruito da un groviglio di alberi e sartiame. La Empire Indus e la HMHS Chantilly, miracolosamente sopravvissute ma ancora in fiamme, vagano lentamente verso la costa trasportate dalla corrente. La macchina dei soccorsi sarà imponente, mentre i funzionari portuali stanno allontanando in tutta fretta dirigendole in mare aperto altre 7 navi trasporto esplosivi dal bacino Alexandra, 6.000 indiani e 2.000 soldati inglesi si mobilitano allestendo postazioni di primo soccorso della Croce Rossa in tutta l’area con l’ospedale St. George che verrà intasato dai feriti mentre 80.000 persone resteranno senza una casa, anche loro vittime di una guerra che non sembra ancora vedere la fine.

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01 ottobre, 2021

Milano, Banca Nazionale dell'Agricoltura, 12 dicembre 1969


TIPOLOGIA: attentato
CAUSE: carica occultata
DATA:
12 dicembre 1969
STATO: Italia
LUOGO: Milano, Banca Nazionale dell’Agricoltura
MORTI:
17
FERITI:
88

Analisi e ricostruzione a cura di Luigi Sistu

Sono le ore 16:15 del 12 dicembre 1969, è venerdì pomeriggio, Natale è ormai prossimo, spuntano i primi addobbi e a Milano i negozi sono già affollati. La sede della Banca Nazionale dell'Agricoltura di piazza Fontana è ancora piena di gente. Normalmente l’orario di chiusura dell’istituto di credito sarebbe alle ore 16:30, tuttavia oggi è il giorno del mercato e con un po’ di elasticità la chiusura dei cancelli è stata posticipata per consentire ai clienti il completamento le proprie incombenze. Fuori piove, un motivo in più per consentire ai coltivatori diretti, imprenditori agricoli, allevatori, mediatori, commercianti di mangimi e piccoli risparmiatori di campagna arrivati da tutta la provincia, di restare all’interno della struttura. La Banca Nazionale dell'Agricoltura è l’unica a Milano a permettere ai propri clienti di prolungare le mediazioni oltre l’orario di chiusura, contrattazioni effettuate nella grande sala, “la rotonda”, dove al centro, in corrispondenza del tetto a cupola, trova posto un massiccio tavolo ottagonale di mogano con sopra una spessa lastra di cristallo e un ripiano sottostante in cui i clienti possono sistemare le proprie borse. In alto, due piani di vetrate circolari dominano l’area circostante degli uffici amministrativi che vista l’ora tarda si stanno pian piano svuotando degli impiegati. Tutt’intorno, dietro il bancone circolare vi stazionano ancora gli sportellisti e i funzionari della banca, in tutto sono una settantina. All’esterno, alla fine di via Santa Tecla, il taxista Cornelio Rolandi ha appena lasciato un individuo in abito scuro a 130 metri dall’ingresso dell’edificio. È salito sul taxi in piazza Cesare Beccaria e scendendo dall’auto ha chiesto all’autista di attenderlo mentre si dirige camminando normalmente, senza fretta, verso la banca. Ha con sè una grossa borsa in vinilpelle, una Mosbach-Gruber fabbricata in Germania, nera con fibbia di metallo e un gallo inciso sopra. Si chiama Delfo Zorzi, ha 27 anni, è nativo di Mestre, è laureato in Lingue Orientali all’Istituto Universitario Orientale di Napoli ed è un esponente di Ordine Nuovo. Questa falange extraparlamentare di estrema destra è appena nata, è guidata dal politico Clemente Graziani e vi fanno parte alcuni militanti dell’associazione politico-culturale di estrema destra Centro Studi Ordine Nuovo fondata nel 1956 dal politico esponente del Movimento Sociale Italiano Pino Rauti. Assieme a Carlo Maria Maggi, referente per il Triveneto, 35enne laureato in medicina che esercita la professione presso l'ospedale geriatrico Giustinian di Venezia e come medico di base nell'isola della Giudecca, Zorzi guida la cellula veneziana-mestrina del neonato movimento. Questa organizzazione, una vera e propria struttura armata articolata in cellule, da quella di Venezia-Mestre a quella di Padova, forma una rete eversiva protetta dagli apparati statali e utilizzata in chiave anticomunista. Ogni qualvolta che una cellula si muove agisce in maniera del tutto indisturbata attivando con lei armeria e polveriera. Zorzi, in silenzio, apre la porta a vetri, entra nel grande atrio della banca, si confonde nel via vai disordinato, si sbottona il cappotto, si toglie il cappello, si siede in uno dei posti liberi attorno all’enorme tavolo ottagonale che domina il centro del salone, si guarda intono, appoggia la borsa per terra, un po’ riparata dagli sguardi di chi è seduto vicino a lui. Non servirebbe nemmeno, nessuno farà mai caso a quella borsa, una delle tante nella stanza piena di gente, ci saranno almeno un centinaio di persone. Capannelli di clienti che discutono qua e là, impiegati dell’istituto di credito che vanno e vengono dal bancone, gente che fa la fila davanti a uno sportello per pagare una cambiale, riscuotere un assegno, prelevare del denaro mentre i telefoni squillano e le voci si rincorrono con gli accenti più diversi. L’uomo, mentre compila un modulo spinge la borsa con i piedi verso il centro del tavolo, poi si chiude il cappotto, si rimette il cappello, si alza e si allontana senza voltarsi indietro, con passo deciso diretto al portone d’ingresso. Attraversa di nuovo il salone e dopo essere passato davanti a quelle facce, a quegli uomini venuti dalla periferia dove probabilmente non faranno ritorno, esce dalla banca dove, ad attenderlo, il tassista è ancora lì. L’uomo risale nell’auto che riparte proseguendo per la via Santa Tecla in direzione di via Albricci. Nella sede della Banca Nazionale dell'Agricoltura, al centro del salone è rimasta la valigia, sola, è un modello senza il doppio scomparto, alla signora Loretta Galeazzo, commessa della Valigeria Al Duomo di Padova, era stato chiesto proprio quello, grande, molto capiente, abbastanza da contenere un volume equivalente a 7 chilogrammi di esplosivo. La bomba, ad alto potenziale, è costituita da due unità distinte, una di esplosivo per uso civile, 4 chilogrammi, e una per uso militare, 3 chilogrammi. Il primo, in candelotti, è il Vitezit 30, un prodotto per un uso prettamente estrattivo fabbricato dalla Chemical Industry Slobodan Princip-Seljo di Vitez, in Jugoslavia. È sostanzialmente una Gelignite, il primo esplosivo plastico della storia, ed è a base di Nitrocellulosa, un composto chimico con proprietà infiammabili-esplosive scoperto dal chimico tedesco Christian Friedrich Schönbein nel 1846, dissolta nella Nitroglicerina, la sostanza scoperta dal chimico e medico italiano Ascanio Sobrero nel 1847 sintetizzando proprio la Nitrocellulosa seguendo gli esperimenti falliti nel 1845 del chimico tedesco Christian Friendrich Schönbein. Miscelata con polpa di legno e Nitrato di Potassio, la Gelignite era stata inventata nel 1875 dal chimico e ingegnere svedese Alfred Nobel, già inventore della Dinamite, ed essendo molto più stabile della prima, poteva essere maneggiata con maggiore sicurezza tanto da diventare il miglior prodotto in uso per le attività estrattive, essere fabbricata in enormi quantità e, grazie al suo potere distruttivo, il primo esplosivo preferito dell’IRA irlandese che aveva fatto scuola ai “lealisti” di tutto il mondo. La cellula dell’organizzazione è ben fornita, 200 candelotti, avvolti in carta paraffina color mattone e comprati da un certo Roberto Rotelli, un simpatizzante di destra della zona di Venezia-Lido esperto sommozzatore facente parte del Gruppo Subacquei San Marco e titolare di una società che dispone di questo esplosivo per le attività di recupero dalle navi affondate. Vengono tenuti in un bunker nei pressi del Canale Alberoni-Petroli, un canale artificiale che collega il Mare Adriatico dalla bocca del porto di Malamocco al porto commerciale di Marghera attraversando la laguna di Venezia. Essendo un esplosivo delicato e molto potente ogni cartuccia è avvolta in carta di giornale e riposta dentro sacchi di juta imbottiti di segatura al fine di assorbire l’umidità ed evitare il trasudamento che renderebbe instabile il principio attivo moltiplicandone la sensibilità e quindi la pericolosità del maneggio. La seconda unità della bomba invece, l’esplosivo di tipo militare, è costituita da Trinitrotoluene puro. Confezionato in panetti e preparato per la prima volta nel 1863 dal chimico tedesco Julius Wilbrand, perfezionato dal chimico tedesco Hermann Frantz Moritz Kopp nel 1888 e prodotto industrialmente in Germania un anno dopo col nome di Tritolo o Tnt, occultato tra le merci trasportate da vari autoarticolati è arrivato dalla Cecoslovacchia entrando in Italia dalla Svizzera transitando per la Germania. Ordine Nuovo lo ha recuperato dall’unico luogo che al nord ha accesso e possiede in grandi quantità questo tipo di materiale, uno dei depositi segreti italiani di un’organizzazione paramilitare dormiente creata per intervenire in caso di un’ipotetica invasione dell’Europa occidentale da parte del blocco comunista guidato dall’Unione Sovietica: Gladio. Dipendente dalla NATO, Gladio non è l’unica struttura di sicurezza parallela presente in Europa, fa parte di un insieme molto più ampio di operazioni segrete, le “covert operations”, una sorta di rete di strutture in vari paesi del blocco occidentale chiamata “Stay-Behind” con diramazioni anche in Grecia, Belgio, Francia, Germania e Paesi Bassi. Con la sua nascita, ufficialmente il 26 novembre 1956 con un accordo tra la CIA, la Central Intelligence Agency, e il SIFAR, il Servizio Informazione Forze Armate poi sostituito dal SID, il Servizio Informazioni Difesa, per il suo smantellamento nel 1965 a causa della scoperta di attività illegali di dossieraggio su tutta la classe dirigente italiana in cui raccoglievano informazioni riservate e delicate che rendevano i politici ricattabili, Gladio era in movimento già dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Con le prime divergenze tra Stati Uniti e Unione Sovietica, dove agli americani era chiaro che nei paesi all’interno della loro sfera di influenza bisognava contenere a tutti i costi il comunismo, la priorità e le attenzioni maggiori erano state focalizzate sull’Italia per almeno due motivi: per la sua posizione geografica, al “confine” tra blocco occidentale e blocco sovietico, e per il fatto di avere uno dei partiti comunisti più forti e strutturati d’Europa, il PCI, il Partito Comunista Italiano. La Gelignite, che costituisce la parte innescante della bomba, è armata da un detonatore a fuoco annegato longitudinalmente in uno dei candelotti che la compongono. Il detonatore, un cilindro di alluminio versione moderna del tubetto di stagno progettato da Alfred Nobel nel 1867, contiene all’estremità una piccola quantità di esplosivo secondario, la Pentrite, uno degli esplosivi più potenti, preparata per la prima volta nel 1891 dal chimico tedesco Bernhard Tollens, innescata a sua volta da uno primario, l’Azoturo di Piombo, il preparato della Curtis's and Harvey Ltd Explosives Factory del 1890. All’interno del detonatore è fissato uno spezzone di pochi centimetri di miccia del tipo a lenta combustione calibrata per un percorso della fiamma di 1 metro ogni 120 secondi. Questa è la diretta discendente della corda di canapa catramata brevettata il 6 settembre 1836 da William Bickford, costituita da un cordone di cotone impermeabile con un’anima di Polvere Nera, esplosivo costituito da 74,65% di nitrato di potassio, 13,50% di carbone e 11,85% di zolfo, ricetta arrivata ai giorni nostri grazie al monaco e scienziato Ruggero Bacone nel 1249 modificando quella comparsa per la prima volta in un'opera di Wu Ching Toung Yao nel 1044. Alla miccia è nastrato un fiammifero controvento avvolto da un filo di nichel-cromo collegato ad un congegno meccanico a tempo con arco massimo di 60 minuti del tipo Diehl 60/m/n/d a deviazione, stesso modello usato nelle lavastoviglie e venduto dalla ditta Gavotti di Milano. Franco Freda di questi ne aveva acquistati 50, li aveva fatti arrivare alla Gavotti a settembre ordinandoli dalla Elettrocontrolli di Bologna dove Tullio Fabris, il suo elettricista, li aveva ritirati per poi consegnarli alla segretaria del suo studio assieme a 5 metri di filo di nichel-cromo. Fabris era estraneo al gruppo e a qualsiasi militanza politica, era semplicemente l’elettricista a cui Freda, dopo averlo impiegato in alcuni comuni lavori da artigiano nella fase del rinnovo dell’arredamento del suo studio di Padova, aveva chiesto, in confidenza e approfittando di ingenuità e buona fede, alcune delucidazioni sul funzionamento del Diehl a deviazione. In modo da silenziare il ticchettio del timer, chiusa ermeticamente in una cassetta metallica in lamiera d’acciaio con verniciatura martellata di marca Juwel, delle dimensioni di 30 centimetri per 24 per 9, con serratura a cilindro, maniglia e apertura a cerniera e fabbricata a Lainate, alla parte innescante dell’ordigno alimentata e completata da due pile da 4,5 Volt è unità la seconda chiusa in un involucro nastrato e perfettamente aderente alla prima. 28enne militante neofascista “nazimaoista” per le sue teorie a metà strada tra nazismo e maoismo, Freda è laureato in giurisprudenza all’Università di Padova. Conosciuto come “l’editore” per il suo lavoro, ha alle spalle 29 feriti per tre bombe esplose a Milano il 25 aprile, una alla Fiera Campionaria e due alla Stazione Centrale, e altre 8 esplose il 9 agosto all’interno di treni in sosta alle stazioni di Chiari, Grasignano di Zocco, Caserta, Alviano, Pescara, Pescina e Mira. È membro della cellula padovana di Ordine Nuovo che gestisce con Giovanni Ventura, 25enne laureando in filosofia, proprietario della rivista “Ezzelino” ed editore che rende conto ad un attivista di estrema destra, Guido Giannettini, giornalista ed agente del SID, il Servizio di Informazioni e Difesa italiano, con cui ha in comune l’esplosivista e l’artificiere della cellula, Carlo Digilio. Col nome in codice “Erodoto”, il 32enne romano, militare di carriera, Digilio si era occupato della costruzione della bomba e dei tre test effettuati nel periodo tra ottobre e novembre serviti a sperimentare il sistema di armamento. Sono le ore 16:36 e nell’atrio della banca i clienti si accingono a concludere le contrattazioni, qualcuno sta ancora firmando delle cambiali, altri si scambiano dati e informazioni. All’interno della borsa il congegno meccanico a tempo ha iniziato a scandire l’ultimo minuto. C’è ancora qualcuno seduto al tavolo, scrive, chiacchiera, ma il disco-orario arriva a zero, il circuito elettrico si chiude, la corrente dalla batteria arriva al filo di nichel-cromo che in pochi secondi si arroventa accendendo la pasta di clorato di potassio e solfuro di antimonio della capocchia del fiammifero controvento. Lo spezzone di miccia si scalda e il calore, arrivando in una frazione di secondo all’anima di Polvere Nera, la infiamma. Pochi secondi e qualcuno seduto al tavolo inizia a sentire l’odore di bruciato, la fiamma sta percorrendo i centimetri del cordone impermeabile, i clienti al tavolo si guardano, l’odore si fa più forte mentre la fiamma entra nell’estremità cava della capsula del detonatore. La carica primaria si innesca, in una reazione a catena di poche frazioni di secondo l’Azoturo di Piombo accende la Pentrite che attiva il plastico. Sono le ore 16:37, la Gelignite della prima carica detona innescando la seconda. Una luce, un boato, l’esplosione fa tremare il tetto a cupola del grande salone. I corpi si accartocciano, si bruciano, si straziano, volano gambe e braccia, pezzi di metallo e legno fendono l’aria come proiettili squarciando le carni e ferendo a morte. L’onda d’urto polverizza il tavolo, frantuma le vetrate interne e scardina quelle perimetrali, raggiunge il primo piano sorprendendo l’impiegato dello sportello numero 15, Fortunato Zinni, che sta chiudendo la vetrata con la schiena appoggiata al vetro. L’uomo viene scagliato tre metri più avanti contro lo schedario di metallo mentre alle sue spalle la vetrata frana nel salone circolare. Gli uffici vengono devastati, 17 persone smembrate. Schegge di legno, pietra e metallo sparate a 360 gradi hanno trapassato tutto. In 13 muoiono sul colpo, altri 4 poco dopo. Il fragore dell’assordante boato è sostituito da un momentaneo silenzio. Lo spettacolo è spettrale: fumo e detriti sono ovunque, i resti umani anche sulla superficie della cupola. I corpi bruciano, nella penombra del salone, tra il pulviscolo e il fumo soffocanti, una ragazzina sporca di sangue e polvere ha il viso dilaniato da pezzi di cristallo, cammina per la sala, sta cercando il suo braccio che le è strappato di netto, pochi metri e crolla a terra priva di sensi. L’atrio è una macelleria fumante e tra gli arredi rivoltati degli uffici i telefoni iniziano a squillare ininterrottamente. A chiamare è la questura, dove è scattato l’allarme. A sollevare la cornetta è un impiegato che vivo e sotto shock si muove nel buio circondato dal fumo acre e dai lamenti dei feriti: è Fortunato Zinni. “Che cosa vede?”, gli domanda il poliziotto all’altro capo del filo, in via Fatebenefratelli. “Un braccio, vedo un braccio”. Con una mano tesa in avanti e una a sorreggersi alla parete, l’uomo cerca di mettere timidamente un piede davanti all’altro. Vede una mano, poi un altro braccio, ora una gamba, in basso due uomini strisciano, non hanno più le gambe, dietro di loro il sangue si mischia alla polvere, c’è ancora tanto fumo e chi può cerca di raggiungere l’esterno camminando alla cieca. L’odore è acre, pungente, come di carne bruciata misto a disinfettante che rendono l’aria irrespirabile. 88 persone sono coperte di sangue, cercano soccorso, gridano, supplicano l’aiuto di una città che minuto dopo minuto viene avvolta da un silenzioso terrore rotto dalle sirene laceranti delle ambulanze che percorrono le strade di Milano a tutta velocità. All’interno della banca il pavimento del salone è stato squarciato, al centro c’è una voragine di un metro di diametro. Ha contorni nettissimi, l’onda d’urto ha rotto la pia­llatura di copertura, la soletta di cemento e parte dell’armatura della struttura in calcestruzzo armato tanto da rendere comunicante il piano in cui è esplosa la bomba con quello sottostante. La resistenza opposta in basso dalla soletta di cemento del pavimento e in alto dal pesante massello in mogano del tavolo ha fatto sfogare la potenza dell’onda esplosiva in orizzontale, verso la parte sinistra della rotonda. È qui il maggior numero di morti. Sono le ore 16:40, al Palazzo di Giustizia, a due passi da piazza Fontana, la notizia viene comunicata per telefono. Il Procuratore Capo Enrico De Peppo e il sostituto di turno, Ugo Paolillo, escono dai loro uffici e raggiungono quasi di corsa il luogo della strage dove ad attenderli ci sono già il questore Marcello Guida, il cardinale Giovanni Colombo e il Direttore Generale della banca, Pietro Macchiarella. I presenti atterriti sono da questo macabro spettacolo, un braccio è attaccato al muro, una testa è sul pavimento accanto ad una sedia, il sangue colora il vetro polverizzato, brandelli di cadavere spuntano da ogni parte, è una macelleria dell’orrore. Gocce di sangue scendono cadenzate sul pavimento da pezzi di carne compressi sull’intonaco dei muri e sulla cupola. Nel grande emiciclo della banca i cadaveri sono a terra sopra vetri rotti, pezzi di mobili e di cemento. I corpi dilaniati, frantumati, sono in mezzo a pozze di sangue nero. Un terribile odore di morte e un pesante silenzio rotto è rotto solo da un pianto isolato. Ci sono teste, braccia, gambe staccate dal corpo, due uomini scaraventati fuori dalle vetrate sono ancora sull’asfalto mentre negli uffici c’è chi sventrato grida tenendosi la pancia con le mani. La palla di fuoco e la successiva onda d’urto rimbalzando sulla parete hanno provocato il crollo del rivestimento in mattoni forati che delimitava l’angolo posteriore sinistro del locale. L’onda d’urto, dilagandosi nella rotonda ha frantumato prima i divisori di vetro degli sportelli del bancone circolare, poi le vetrate del primo e del secondo piano, poi quelle della cupola sovrastante trasformando i vetri in una pioggia che ha martoriato ulteriormente i corpi dei clienti inermi stesi sul pavimento, e infine è andata ad incanalarsi da una parte nel corridoio che immette nei sotterranei facendolo collassare, dall’altra verso esterno sfogando dalle vetrate sul piazzale antistante dove le macchine parcheggiate sono state sbalzate in avanti e i passanti travolti prima dall’onda di sovrappressione, poi da porzioni di struttura staccatisi della facciata. È un disastro, un evento che nessuno si aspettava sarebbe mai successo, una carneficina acuto di una giornata convulsa perché c’è una seconda bomba e si trova nella sede della Banca Commerciale Italiana, in piazza della Scala, a neppure un chilometro in linea d’aria da piazza Fontana. È lì, immobile, sarebbe dovuta esplodere a banca chiusa ma qualcosa non ha funzionato perché il meccanismo si è inceppato. Altre tre invece hanno funzionato, sono esplose a Roma, nella Capitale: la prima ha ferito 14 persone, si è innescata alle ore 16:55 nel passaggio sotterraneo che collega l'entrata della Banca Nazionale del Lavoro di via Veneto con quella di via di San Basilio; la seconda si è innescata alle ore 17:20 davanti all'Altare della Patria, sotto il pennone della bandiera; la terza ha ferito 4 persone innescandosi dieci minuti dopo, alle ore 17:30, davanti all'ingresso del Museo Centrale del Risorgimento, nella centralissima piazza Venezia. All’interno della banca il dottor Paolillo è nel salone a guardarsi intorno, quasi incredulo, a trovare la forza e le parole per dare le prime disposizioni, ordinare i primi accertamenti, coordinare gli interventi. Fuori intanto si è radunata una folla, la città è divisa tra lo stupore e lo sdegno, l’orrore e l’indignazione. Queste bombe, questi segnali, hanno appena inaugurato uno dei periodi più bui della nostra epoca, sarà l’inizio di una serie preordinata e ben congegnata di eventi atti alla destabilizzazione del paese, complici la forte ondata di lotte sociali del 1968-69 e l’avanzata anche elettorale del Partito comunista italiano, questi eventi saranno volti a creare in Italia uno stato di tensione e una paura diffusa nella popolazione tali da far giustificare o addirittura auspicare svolte di tipo autoritario, trasformando l’Italia in una sorta di dittatura “morbida”. Una strategia eversiva questa gestita da una pluralità di soggetti: la componente neofascista e rivoluzionaria, mera manovalanza, che spinta da elementi infiltrati all’interno la spingeranno a compiere azioni terroristiche, la componente dei servizi segreti del SID, che non privi di complicità e legami internazionali forniranno gli elementi infiltranti e garantiranno la copertura degli eventi attribuendone la paternità ad altri o sfruttando mediaticamente a proprio favore perfino episodi esterni alla strategia, e la componente massonica, che fungerà da direttivo. Lo stragismo degli anni Settanta è cominciato.

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