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01 marzo, 2023

Volgograd, Autobus linea 29, 21 ottobre 2013


TIPOLOGIA: attentato
CAUSE: attacco suicida
DATA:
21 ottobre 2013
STATO: Russia
LUOGO: Volgograd, Autobus linea 29
MORTI:
7
FERITI:
37

Analisi e ricostruzione a cura di Luigi Sistu

È il 21 ottobre 2013, è una mattinata gelida questo lunedì e a Volgograd, la ex Stalingrado, a 650 chilometri a nord-est del Caucaso settentrionale con oltre un milione di abitanti e capoluogo dell'Oblast' omonima nella Russia europea lungo le rive del fiume Volga, gli studenti stanno facendo rientro a casa. L’autobus della linea 29 ne ha appena raccolto alcuni, lo attendevano alla fermata ormai da decine di minuti. Il freddo è pungente, i passeggeri hanno solo voglia di tornare a casa al caldo e il loro sguardo si perde oltre i finestrini appannati. Seduta sul retro del mezzo, accanto al bigliettaio, c’è una donna, indossa un velo scuro, è calma, riservata e anche lei ha lo sguardo verso l’esterno. Si chiama Naida Sirazhudinovna Asiyalova, è salita da poco, qualcuno dei 56 passeggeri l’ha notata, attirato dalla lunga sciarpa verde che indossa in forte contrasto col velo scuro avvolto attorno al capo. Conosciuta col nome di "Amaturahman" Naida Asiyalova ha 30 anni, è cresciuta nell'insediamento montuoso di Gunib, nella repubblica del Daghestan, una parte della Russia che si trova sul Mar Caspio. È una Vedova Nera, un elemento caratteristico della campagna di terrore islamico ceceno. Spesso segnate dalla tragedia di aver perso mariti, figli e parenti nella Prima Guerra Russo-Cecena del ’94-’96, queste donne disposte a diventare martiri delle loro convinzioni e dei loro cari perduti hanno raggiunto la triste fama internazionale dopo aver preso parte all’incursione nel teatro Dubrovka di Mosca nel 2002 durante il secondo atto dello spettacolo teatrale Nord-Ost in corso la sera del 23 ottobre. Quella sera 42 membri di un commando di militanti armati ceceni composto principalmente da donne aveva fatto irruzione prendendo in ostaggio 850 persone rivendicando fedeltà al movimento separatista ceceno e chiedendo il ritiro immediato delle forze russe dalla Cecenia e di conseguenza la fine della Seconda Guerra iniziata nel 1999. Destando meno sospetti e consce che il martirio al femminile ottenga maggiore risonanza mediatica ed effetto psicologico, dal 2000 decine di donne si sono fatte esplodere in Russia mietendo centinaia di vittime, per lo più civili, facendosi saltare in aria all’interno di  aeroporti, nei concerti, assaltando edifici scolastici fino a lanciarsi a tutta velocità con camion pieni di esplosivo contro le caserme della polizia. Secondo la retorica ufficiale fanno parte di una rete terroristica internazionale legata ad al-Qaida, il movimento fondamentalista islamista sunnita paramilitare terroristico nato nel 1988 durante la Guerra in Afghanistan e guidato dal milionario saudita Osāma bin Lāden, 17esimo dei 57 figli dell’immobiliarista yemenita Mohammed bin Awad bin Lāden, che avvalso della guida ideologica di Ayman al-Zawāhirī, scrittore, poeta e medico de Il Cairo appartenente ad una famiglia di dotti religiosi e di magistrati, aveva deciso di utilizzare soldi e macchinari della propria impresa di costruzioni per aiutare la resistenza dei mujaheddin durante l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Questa rete ha come obiettivo la destabilizzazione della Russia, un Paese che, proprio come gli Stati Uniti d’America, si trova in prima linea nella lotta alla jihad globale. La realtà è molto più complessa, è vero che il Caucaso sia meta di fondi e militanti dal mondo arabo, come è altresì vero che gli jihadisti stranieri abbiano influenzato i terroristi musulmani russi, ma Naida Asiyalova, come le tante altre “vedove nere” e i loro comandanti, non sono parte della rete globale di al-Qaida di cui parla tanto. Non sono mosse né dall’odio verso l’Occidente né da quello per Israele, si preoccupano poco di quello che succede in Iraq, in Pakistan, in Afghanistan o in Palestina, i loro bersagli non sono mai occidentali ma sempre e solo russi con rivendicazioni di ispirazione locale. Selezionate con cura, vulnerabili, facilmente influenzabili e, ovviamente, profondamente religiose, sono donne portate a diventare “Shahīd”, martiri, spinte ad agire, usate con cinismo e viltà dagli estremisti di sesso maschile che le indottrinano e lavano loro il cervello col potere manipolatorio della religione. Ma la fede fanatica nel martirio spiega solo in parte il fenomeno delle Vedove Nere, che trova radici e alimento in una brutalità di un conflitto cominciato in Cecenia e diffusosi nel frattempo anche alle repubbliche dell’Inguscezia e del Daghestan, dove le normali regole di ingaggio non valgono nulla. Rapimenti, torture, mutilazioni, decapitazioni ed esecuzioni sommarie, è questa violenza indicibile che trasforma le parenti femmine degli estremisti uccisi in radicali religiose. Ed è proprio questa violenza a generare una sete insaziabile di vendetta poiché i metodi brutali usati dai russi per reprimere i ribelli islamici hanno, oltre a decimare il loro esercito, radicalizzato ulteriormente gli estremisti fino a trasformare queste donne in fredde macchine vendicative senza emozioni. Naida Asiyalova si era recata nel cuore della foresta del Daghestan da giovane e solitaria naufraga. Nata da una famiglia di Dagetsani musulmani sunniti e allevata in una famiglia dignitosa che disapprovava indossare l’hijab, il velo tradizionale islamico allacciato sotto la gola utilizzato dalle donne per coprire il capo e le spalle, era stata cresciuta per lo più da sua nonna. Dopo aver lasciato presto il suo villaggio per trasferirsi a Makhchkala, la Capitale, nel 2010 aveva iniziato a convivere con un uomo di nazionalità russa, Dmitri Sokolov, di 8 anni più giovane e incontrato quello stesso anno all’Università, sposandolo e indottrinandolo con l’islam radicale in cui aveva iniziato a credere poco prima di incontrarlo. Interrompendo i contatti con la sua famiglia nel luglio 2012 non aver più fatto ritorno a casa dai corsi di lingua araba che stava frequentando in una moschea di Mosca, si era unito assieme alla moglie ai gruppi ribelli della repubblica russa meridionale del Daghestan convertendosi all’islam con il nome di Abduldzhabbar, punto di partenza per la carriera di esperto costruttore di bombe e futura guida della guerriglia caucasica. È proprio lui ad aver costruito a Naida Asiyalova la “bomberpilot Jacket” che indossa sotto gli abiti questa mattina del 21 ottobre, un giubbotto caricato con 600 grammi di esplosivo ad alto potenziale, il Semtex-H. Di tipo plastico, di colore tra l’arancio e il giallo e solitamente confezionato in pani color mattone del peso di 2,5 chilogrammi è una delle varianti dell’esplosivo Semtex. Il suo nome sta per SEMTìn, un sobborgo di Pardubice nella attuale Repubblica Ceca, dove il composto era stato prodotto per la prima volta in grandi quantità dalla East Bohemian Chemical Works Synthesia nel 1964, ed EXplosive. Progetto del chimico cecoslovacco Stanislav Brebera, era stato sintetizzato negli anni ’50. Questa variante H, prodotta su larga scala dal 1967, destinata all’esportazione, soprattutto per la bonifica di mine terrestri in Vietnam, era stata studiata per impieghi civili e per l’attività estrattiva. Il Semtex, molto simile al plastico militare C-4 ma con un diverso colore, è impermeabile e utilizzabile in un campo di temperature più vasto. Esportato in tutto il mondo in grandi quantità fino al 1981 e in quantità ridotte solo nei paesi membri del Patto di Varsavia fino al 1989 con la sospensione delle esportazioni legali, attualmente le grosse organizzazioni terroristiche e criminali ne controllano il traffico e la detenzione. Il Semtex-H è il prodotto dell’unione di due elementi esplosivi primari: 40.9% in peso di Pentrite, uno degli esplosivi più sensibili potenti, un “super-esplosivo” preparato per la prima volta nel 1891 dal chimico tedesco Bernhard Tollens; 41,2% in peso di RDX, formalmente Ciclotrimetilenetrinitramina, di caratteristiche eccezionali scoperto e brevettato dal chimico e farmacista tedesco Georg Friedrich Henning nel 1898 e codificato con questo nome prima dall’esercito inglese come Royal Demolition eXplosive e poi prodotto in larga scala dagli Stati Uniti nel 1920 come “RD” Research and Development, ricerca e sviluppo, sigla comune a tutti i nuovi prodotti per la ricerca militare, e "X", la classificazione, nata come lettera provvisoria ma rimasta definitiva; il legante gomma Stirene-Butadiene per il 9% in peso, il plastificante n-ottilftalato al 7,9% in peso, lo 0,5% di antiossidante N-fenil-2-naftilammina e lo 0,5% di colorante ne assicurano il riconoscimento e la malleabilità. Dopo averle fatto indossare il giubbotto e averglielo stretto ai fianchi, Sokolov ha armato i panetti di esplosivo con un circuito di 4 detonatori elettrici collegati in serie, ciascuno contenente una piccola quantità di esplosivo secondario, la Pentrite, innescato a sua volta da uno primario, l’Azoturo di Piombo, sensibilissimo ad urti e calore, preparato dalla Curtis's and Harvey Ltd Explosives Factory nel 1890, attivato da una sostanza infiammabile accesa da un ponticello arroventato dal passaggio della corrente elettrica. I detonatori, versioni moderne di quelli inventati nel 1876 da Julius Smith, sono attivati da un interruttore a pressione collegato a delle batterie. Il quantitativo di esplosivo ad alto potenziale contenuta nel giubbotto è stata studiata, oltre che per avere un effetto immediatamente distruttivo, per uno secondario propellente in grado di sparare a gran velocità una grossa quantità di chiodi, viti e bulloni nastrati ai panetti al fine di massimizzarne la capacità distruttiva anche sulla lunga distanza. Questo tipo di dispositivo ha origini “antiche”, inventato dalle Tigri Tamil, un gruppo paramilitare di stampo terroristico di ideologia comunista e nazionalista Tamil presente nella zona nordorientale dello Sri Lanka, è stato utilizzato per la prima volta nel 1991, ironia della sorte, proprio da una donna, Thenmuli Rajaratnam, immolatasi in pubblicamente assassinando il Primo Ministro indiano Rajiv Gandhi. Naida Asiyalova è sempre lì, silenziosa, indebolita dalla malattia alle ossa che la perseguita e la rende schiava di tranquillanti e antidolorifici, passeggera di un mezzo che sta percorrendo le vie periferiche della città e con addosso il giubbotto armato pronto a scatenare il suo carico di morte. Ma la linea 29 non è altro che un ripiego, il piano B di uno originario con destinazione Mosca rivelatosi all’ultimo troppo rischioso. Sono giorni che le agenzie di sicurezza russe monitorano gli spostamenti dei daghestani, perquisizioni e posti di blocco ovunque hanno reso la tratta per la Capitale impossibile da percorrere. Ha ancora in borsa il biglietto comprato a Makhachkala ma il piano B è appena diventato il piano A e non si torna più indietro. Sono le ore 14:04, l’autobus è pieno, sta costeggiando una fila di alberi procedendo a velocità costante sulla Azure Street a tre corsie. Sono passate tre fermate da quando la Asiyalova è salita e distogliendo lo sguardo dal finestrino infila la mano nella tasca della giacca. Il pulsante viene premuto, il circuito elettrico si chiude, la scarica di corrente percorre i cavi elettrici dalle batterie ai detonatori. I ponticelli si arroventano, la miscela incendiaria si accende dando il via alla reazione a catena. In una frazione di secondo l’Azoturo di Piombo di ogni detonatore attiva la Pentrite che innesca il Semtex-H. Il mezzo si illumina con un boato. Con una velocità di 8.100 metri al secondo la donna-bomba-suicida esplode dilaniando l’interno dell’autobus. Il suo corpo viene disintegrato, le vetrate si frantumano, le lamiere si deformano, sedili e passeggeri sono catapultati in avanti mentre i pezzi di metallo a contatto con le cariche sono trasformati in lame affilate sparate ovunque che investono e trafiggono. Una nuvola di fumo riempie l’autobus che si arresta qualche decina di metri più avanti con le fiancate crivellate e lo scheletro messo a nudo. Qualcuno si lancia fuori dal vuoto lasciato dai finestrini lasciandosi dietro un tappeto di distruzione e il sangue di 37 persone che urlano, imprecano, piangono, supplicano aiuto immersi in una soffocante nuvola grigia che odora di carne bruciata, così fitta da ricoprire i corpi maciullati dai chiodi e dai bulloni, resi irriconoscibili da abiti anneriti fusi con la pelle. Di chi era seduto nelle file posteriori non resta che qualche pezzo di carne dilaniato da schegge volanti, smembrato dall’onda d’urto, carbonizzato dalla fiammata di 3.500 gradi centigradi che dopo averlo investito ha sfogato verso l’esterno. In 7 non torneranno mai a casa. Dmitry Sokolov, quello che è stato il marito di una martire, l’amore di una donna, il punto di riferimento di un’anima persa, ora è in fuga mentre i resti di chi pendeva dalle sue labbra sono spalmati gocciolanti sul tetto in lamiera della linea 29. Questo di Amaturahman, assieme a quello del 29 marzo del 2010 nella metropolitana di Mosca dove una doppia esplosione provocata da due donne aveva ucciso 40 persone, segna l’ennesimo episodio che si inserisce in una serie di attacchi sferrati da attentatrici suicide provenienti dal Daghestan. Nel suo caso però, manca la componente biografica che di solito le persone sulle missioni suicide condividono: il motivo della vendetta. La sua assenza indica una tendenza emergente a questo tipo di terrorismo, che non può più essere definito come un atto di rimborso per una perdita o una forma radicale di patriottismo, ma il modo più conveniente di condurre una guerra col terrore, una donna trasformata in arma, scelta per la sua debolezza e per la facilità con cui è stata manipolata. L’esatto contrario di ciò che aveva spinto un’altra donna, Malizha Mutaeva, 30 anni, che aveva perso la casa di famiglia a causa dei raid aerei russi nella regione della Cecenia, a farsi saltare in aria nel 2004 durante il micidiale assedio al Teatro Dubrovka di Mosca. Le bombe russe avevano fatto esplodere tutto ciò che possedeva: la casa, i suoi averi, le foto di famiglia, ogni cosa, ogni ricordo. Aveva un rancore da sopportare, così grande da trasformarsi in odio e col tempo in furia omicida. Ma Naida Asiyalova non aveva un motivo apparente, non era in lutto per la perdita di una persona cara, la Russia non l'aveva privata della sua casa o della sua possibilità di vivere in modo dignitoso, lei era solo indebolita, fisicamente e moralmente, quella debolezza che mese dopo mese era riuscita a renderla un'arma utile e sacrificabile nella guerra di qualcun altro.

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01 aprile, 2022

Aden, Cacciatorpediniere USS Cole, 12 ottobre 2000

 

TIPOLOGIA: attentato                   
CAUSE: barchino suicida      
DATA:
12 ottobre 2000
STATO: Yemen
LUOGO: Aden, Porto
MORTI:
17
FERITI:
39

Analisi e ricostruzione a cura di Luigi Sistu

Nella Marina degli Stati Uniti d’America i cacciatorpediniere sono navi da guerra che operano in supporto di gruppi di battaglia di portaerei, gruppi di azione di superficie, gruppi anfibi e gruppi rifornimento. La relativamente recente aggiunta della capacità di lancio di missili da crociera a lungo raggio, in grado di volare come un aeroplano, e la rimozione di combattenti di superficie più pesanti come le corazzate, ormai obsolete, ha fatto crescere il tonnellaggio dei cacciatorpediniere ed espanso grandemente il loro ruolo. Nel 2000 una sola classe di cacciatorpediniere è in uso nella marina USA: la Arleigh Burke. Con lo stesso tonnellaggio di un incrociatore leggero della Seconda Guerra mondiale e 303 uomini di equipaggio la USS Cole fa parte di questa flotta. È chiamato così in onore del sergente di marina Darrell S. Cole, un mitragliere ucciso in azione il 19 febbraio 1945 sull’isola di Iwo Jima durante la Guerra nel Pacifico tra le forze statunitensi, le truppe dell’esercito imperiale e della marina giapponese che si affrontavano nelle ultime fasi della Seconda Guerra Mondiale. Costruita dalla Ingalls Shipbuilding di Norfolk, consegnata alla Marina Militare l'11 marzo 1996 e in servizio dall’8 giugno dello stesso anno con numero identificativo DDG-67 è uno dei 62 cacciatorpediniere missilistici guidati in dotazione. È pesante 8.900 tonnellate, lungo 154 metri, largo 21, corazzato con 70 tonnellate di Kevlar e paratie d'acciaio nei punti sensibili e con in dotazione rampe lanciamissili, tubi lanciasiluri, mitragliatrici e un cannone del calibro di 127 millimetri in grado di attaccare navi, aerei e bersagli terrestri con una cadenza di 20 colpi al minuto e una portata fino a 32 chilometri, la Cole in grado di svolgere il ruolo strategico di attacco terrestre, antiaereo, antisommergibile e anti-superficie, con un design che incorpora anche tecniche stealth come le superfici verticali angolate che rendono la nave più difficile da rilevare, in particolare dai missili antinave, oltre che dota una suite di guerra elettronica che fornisce rilevamento passivo e contromisure esca ed un sistema di filtraggio dell'aria negli ambienti nell’eventualità di attacchi nucleari, biologici e chimici. È il 12 ottobre e sotto la guida Comandante Kirk Lippold, al comando dal 25 giugno dell’anno scorso, salpata dalla Naval Station Nortfolk in Virginia ora la USS Cole si trova ormeggiata nel porto neutrale di Aden, nello Yemen meridionale, in rifornimento dopo una navigazione nel Golfo Persico. Questo giovedì si trova qui, all'estremità della penisola arabica, per unirsi alle navi da guerra statunitensi che stanno attuando un blocco navale all’Iraq. La nave da guerra, che ha completato l'ormeggio alle ore 9:30 e iniziato il rifornimento alle ore 10:30, in orario come da piano, non è una semplice nave, è un simbolo, il simbolo di una nazione odiata, detestata, un bersaglio che Abd al-Rahim al-Nashiri, capo di Al-Qaida nel Golfo Persico, ha scelto di eliminare. Al-Qaida, il movimento fondamentalista islamista sunnita paramilitare terroristico nato nel 1988 durante la Guerra in Afghanistan, è guidato dal miliardario saudita Osāma bin Lāden, 17esimo dei 57 figli dell’immobiliarista yemenita Mohammed bin Awad bin Lāden, che avvalso della guida ideologica di Ayman al-Zawāhirī, scrittore, poeta e medico de Il Cairo appartenente ad una famiglia di dotti religiosi e di magistrati, aveva deciso di utilizzare soldi e macchinari della propria impresa di costruzioni per aiutare la resistenza dei mujaheddin durante l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Nato in Arabia Saudita il 5 gennaio 1965 al-Nashiri è un saudita cittadino arabo. Dopo aver passato del tempo in Afghanistan dall'inizio degli anni '90 per partecipare agli attacchi contro i russi nella regione, si era spostato nel 1996 prima in Tagikistan poi in Afghanistan, a Jalalabad, dove aveva incontrato per la prima volta bin Lāden che aveva cercato di convincerlo ma senza successo ad unirsi ad Al-Qaida. L’idea di attaccare gli Stati Uniti d’America e di riconsiderare l’offerta era arrivata unendosi ai talebani, i membri dell’organizzazione politica e militare afghana a ideologia fondamentalista islamica, assistendoli nel contrabbando di missili anticarro in Arabia Saudita e riportando direttamente a bin Lāden che lo aveva preso sotto la sua ala protettrice fino ad approvare e finanziare la sua strategia: attaccare le navi americane con dei barchini esplosivi, un piano realizzabile solo grazie all’appoggio logistico del Governo della Repubblica del Sudan dal quale sarebbe arrivato l’esplosivo via terra transitando poi per le sue acque territoriali. Per preparare l’attacco utilizzando con questa particolare tecnica inventata nel 1935 dalla Regia Marina Italiana e perfezionata dall’Esercito Imperiale Giapponese durante le fasi finali della Seconda Guerra Mondiale, al-Nashiri non si era mosso da solo. Accanto a lui, la mente, il Comandante sul Campo come lo aveva definito bin Lāden, ci sono Jamal Ahmad Mohammad Ali Al Badawi, 40 anni, yemenita, e Fahd Mohammed Ahmed al-Quso, 26 anni, anche lui yemenita, il primo esperto nella costruzione di ordigni esplosivi, il secondo soldato addestrato negli anni ’90 nei campi di Al-Qaeda in Afghanistan. I due, i coordinatori locali di Al-Qaida, si erano occupati delle attrezzature nonché dell’affitto di un capannone abbastanza grande da contenere una barca e un camion con rimorchio acquistati per l’occasione. Assieme ad al-Nashiri compongono la cuspide dell’Aden-Abyan Islamic Army, un gruppo militante islamista con sede in Yemen. Implicata in diversi atti di terrorismo dalla fine degli anni '90 l’associazione si era formata a metà di quegli anni come una libera rete di guerriglia di poche dozzine di uomini, un mix di veterani della guerra sovietico-afghana e islamisti di vari paesi guidata da un certo Zayn al-Abidin al-Mihdhar. Senza un leader dopo che era stato giustiziato nel dicembre del 1999 per aver organizzato l’anno prima il rapimento di 16 turisti occidentali nello Yemen meridionale, Rahim al-Nashiri aveva trovato campo fertile per dare una nuova guida a questo gruppo di soldati con un denominatore comune: l’odio per l’occidente. E quest’odio, che non aveva atteso molto prima di essere scatenato in tutta la sua furia, lo avevano pianificato e indirizzato con la collaborazione di Al-Qaida, sinergia formatasi a seguito di un raid aereo americano al campo di addestramento di bin Lāden in Afghanistan, proprio contro gli Stati Uniti d’America nell’attacco combinato del 7 agosto 1998 alle ambasciate in Tanzania e in Kenya dove con due camion bomba avevano colpito Dar es Salaam e Nairobi spezzando 224 vite. I tecnici della Aden-Abyan per l’attacco con la barca esplosiva avevano studiato sia la tecnica italiana che quella giapponese. In quella italiana, dove il pilota era seduto all'estrema poppa su un piccolo sedile a sbalzo, il mezzo veniva abbandonato col timone bloccato e lanciato a tutta velocità da una distanza di 500 metri dal bersaglio con armata la carica esplosiva del peso di 300 chilogrammi. Questa, sistemata in un compartimento a prua veniva poi attivata urtando lo scafo dell’obiettivo per esplodere ad una certa profondità al fine di ottenere il maggior numero di danni possibile. La tecnica giapponese, molto simile, non prevedeva motoscafi “modificati” per l’occasione come la versione italiana, bensì veicoli progettati appositamente per un attacco suicida dato che nessun pilota avrebbe avuto mai il tempo di allontanarsi. Nei barchini di Classe Shinyo in dotazione sia alla Marina che all’Esercito la carica esplosiva consisteva in due bombe di profondità impostate con un timer di 6 secondi, o in una carica di esplosivo in prua del peso di 270 chilogrammi attivata elettricamente all’impatto oppure manualmente. Le informazioni in possesso dell’organizzazione dicevano che la Cole sarebbe rimasta in porto soltanto quattro ore pertanto i margini d’errore sarebbero dovuti essere minimi per non attirare l’attenzione dell’equipaggio se non nella fase di avvicinamento finale, quando sarebbe stato tardi. Una volta scelta la modalità d’attacco lo studio si era spostato sul tipo di carica e di esplosivo. Gli italiani erano soliti utilizzare sui barchini il Tritolital, un tipo di esplosivo progettato a metà della guerra e costituito dalla Tritolite unita alla polvere di alluminio. La Tritolite, realizzato all’inizio della Seconda Guerra Mondiale dai laboratori di ricerca americani è una miscela di due esplodenti primari: il Trinitrotoluene, preparato la prima volta nel 1863 dal chimico tedesco Julius Wilbrand, perfezionato dal chimico tedesco Hermann Frantz Moritz Kopp nel 1888 e prodotto industrialmente in Germania un anno dopo col nome di Tritolo o Tnt, e l’RDX. Formalmente chiamato ciclotrimetilenetrinitramina, l’RDX ha caratteristiche eccezionali, era stato scoperto e brevettato dal chimico e farmacista tedesco Georg Friedrich Henning nel 1898, codificato con questo nome prima dall’esercito inglese come Royal Demolition eXplosive e poi prodotto in larga scala dagli Stati Uniti nel 1920 come “RD” Research and Development, ricerca e sviluppo, sigla comune a tutti i nuovi prodotti per la ricerca militare, e "X", la classificazione, nata come lettera provvisoria ma rimasta definitiva. I giapponesi invece utilizzavano un esplosivo leggermente diverso, il Tipo 98, di loro invenzione, creato nei primi anni ’30 e costituito da 70% di Trinitroanisolo e 30% di HND, l’Esanitrodifenilammina, il primo preparato per la prima volta nel 1849 dal chimico francese Auguste Cahours, il secondo scoperto dal chimico francese Charles-Émile Kopp nel 1873 e raffinato dagli scienziati giapponesi all’inizio della Seconda Guerra Mondiale. Come in questi due casi, per demolire la fiancata di una nave della robustezza di un cacciatorpediniere al-Nashiri avrebbe avuto necessità di un esplosivo molto potente, possibilmente per utilizzo militare. La scelta era andata sul C-4, ad alta velocità di detonazione, incredibilmente stabile e modellabile su qualsiasi superficie, caratteristica questa fondamentale. Esplosivo speciale creato durante la Seconda Guerra Mondiale, evoluzione del C-3 con brevetto americano degli anni ’70, solitamente confezionato in cartucce il “plastico” C-4 è composto da una percentuale del 91% in peso di RDX, 5,3% di plastificante dietilesile, 2,1% di poliisobutilene e 1,6% di olio lubrificante del tipo SAE 10. Per quanto riguarda il tipo di carica, in una guerra asimmetrica di questo tipo per poter colpire efficacemente una nave particolarmente corazzata come un cacciatorpediniere i tecnici avrebbero avuto bisogno di una tipologia particolare, non convenzionale, con una forma ben precisa dell’esplosivo. Avevano studiato di avvicinare la nave lateralmente affiancandola e per questo avevano trasformato il lato di dritta della barca in una testata di tipo perforante con carica sagomata. Costituita da un vuoto rivolto verso l’esterno su cui si apre un cuneo rovesciato di rame e alluminio con angolo interno di 100 gradi, avevano modellato sulla superficie di quello esterno un quantitativo in peso di 250 chilogrammi di C-4 fino a riempire il vano sotto le sedute sul lato dell’imbarcazione. Il funzionamento di questa particolare carica si basa sull’effetto Munroe, un metodo utilizzato soprattutto nelle armi anticarro e nell’industria delle demolizioni: la parziale concentrazione dell'energia esplosiva causata da un vuoto incavato in una parte di esplosivo, la particolare reazione di cui si era accorto appunto Charles Edward Munroe mentre lavorava nel 1888 alla U.S. Naval Torpedo Station a Newport, negli Stati Uniti. Il principio era stato ripreso e messo in pratica 22 anni più tardi dal tedesco Egon Neumann scoprendo che una carica di Trinitrotoluene, esplosivo preparato la prima volta nel 1863 dal chimico tedesco Julius Wilbrand, perfezionato dal chimico tedesco Hermann Frantz Moritz Kopp nel 1888 e prodotto industrialmente in Germania un anno dopo col nome di Tritolo o Tnt, contenente un incavo di forma conica era in grado di lacerare una lastra di metallo che in condizioni normali sarebbe stata solo intaccata dalla stessa quantità di esplosivo. In pratica, una carica di esplosivo sagomata, anziché disperdere la propria potenza esplosiva in maniera omnidirezionale, a seconda della sua forma la concentra nella cavità praticata in precedenza sulla carica stessa. Praticando quindi una cavità conica o iperbolica in un cilindro di esplosivo fatto detonare all'opportuna distanza dal bersaglio, si concentra la forza dell'esplosione contro un punto di esso e causa quindi una temperatura e una sovrappressione tale da disintegrare tutto nella direzione scelta. Secondo questo principio, l’effetto del barchino esplosivo studiato dalla Aden-Abyan Islamic Army sulla nave da guerra sarebbe stato devastante: innalzamento della temperatura, investimento degli occupanti da parte di frammenti di metallo fuso ed esplosione di eventuali munizioni e carburanti. L’attivazione, manuale con funzionamento a rilascio di un pulsante di sicurezza integrato nel pannello di controllo del posto di guida in modo che se il martire fosse stato colpito da un proiettile sparato dalla nave americana l’allentamento della presa avrebbe fatto scattare gli inneschi, è collegato e alimentato dalla batteria della barca, sufficiente questa a generare corrente oltre che al veicolo, tramite un cablaggio nascosto sotto il piano di calpestio anche ad una coppia di detonatori elettrici collegati in serie. Sono le versioni moderne di quelli inventati nel 1876 da Julius Smith, due involucri cilindrici in alluminio contenenti ciascuno una piccola quantità di esplosivo secondario, la Pentrite, uno degli esplosivi più sensibili potenti, un “super-esplosivo” preparato per la prima volta nel 1891 dal chimico tedesco Bernhard Tollens, innescato a sua volta da uno primario, il sensibilissimo Azoturo di Piombo preparato dalla Curtis's and Harvey Ltd Explosives Factory nel 1890. Per una maggiore distribuzione dell’onda detonante di innesco all’interno della carica sagomata i detonatori erano stati fissati con nastro adesivo ad una treccia della stessa lunghezza della carica e annegata all’interno costituita da tre spezzoni di miccia detonante, un cordone messo a punto negli stabilimenti David Bickford nel 1914 con anima in Pentrite ed esternamente rivestito con resina termoplastica. Ripiego del primo tentativo fallito al cacciatorpediniere con numero di scafo DDG-68 USS The Sullivans del 3 gennaio 2000 dove la barca era affondata prima di ingaggiarlo a causa dell’eccessivo peso e cattiva distribuzione del carico, l’attacco alla Cole non è un elemento isolato bensì parte di un piano ben più ampio: Chiamato “2000 millennium attack plots” era nato come attacco terroristico multiplo pianificato nel contesto delle celebrazioni del millennio in cui quattro siti turistici in Giordania, l’Aeroporto Internazionale di Los Angels, il dirottamente del Volo 814 della Indian Airlines con tratta dal Nepal all’India erano stati scelti come obiettivi per ricordare al mondo quanto non fosse al sicuro. Fallito il tentativo di affondare il Sullivans la pianificazione di questo secondo tentativo era stata discussa, prima di essere approvata personalmente da bin Lāden durante un incontro con al-Nashiri in Afghanistan, il 5 gennaio durante un vertice di al Al-Qaida a Kuala Lumpur. In Malesia, nella camera d'albergo di Yazid Sufaat, ex capitano e uomo d’affari dell’esercito malese, diversi membri di alto livello avevano parlato per tre giorni pianificando finanziamenti, arruolamenti e futuri attacchi, compreso quello che il prossimo anno diventerà famoso come l’11 settembre. La partecipazione a questo meeting era composta da veterani arabi della guerra sovietico-afghana tra cui: Riduan Isamuddin, 36 anni, indonesiano, capo militare della Jemaah Islamiyah, un gruppo terroristico estremista militante del sud-est asiatico con sedi in Indonesia, Singapore, Malesia e Filippine; Ramzi bin al-Shibh, 28 anni, yemenita, fondatore della famigerata Hamburger Terrorzelle, un gruppo di islamisti radicali con sede ad Amburgo, in Germania; Walid Muhammad Salih bin Mubarak bin Attash, 22enne, yemenita, guardia del corpo di Osāma bin Lāden, selettore e addestratore dei dirottatori dei futuri attacchi dell’11 settembre 2001 agli Stati Uniti; Khalid Muhammad Abdallah al-Mihdhar, 25 anni, saudita e Nawaf Muhammed Salim al-Hazmi, 28 anni, saudita, entrambi combattenti coi mujaheddin bosniaci durante la guerra in Bosnia degli anni ’90, soldati scelti di bin Lāden nonché i dirottatori che uccideranno tutte le 64 persone a bordo insieme a 125 a terra prendendo nell’attacco coordinato dell’11 settembre 2001 il volo 77 dell’American Airlines lanciandolo sul Pentagono, l'edificio sede del quartier generale del Dipartimento della difesa degli Stati Uniti d'America. Una volta deciso che per la successiva operazione al-Mihdhar sarebbe stato fisicamente sul posto per documentare gli eventi relazionandosi con Al-Qaida per tutte le fasi del piano, avevano previsto il suo trasferimento per il 10 giugno da San Diego, in California, nello Yemen fornendogli un alloggio che avrebbe condiviso con la moglie per tutta la durata dell’incarico da utilizzare come hub di comunicazione coi vertici dell’organizzazione. A fare da tramite per il denaro sarebbe stato invece bin Attash, il “direttore operativo”, che lo avrebbe dirottato in base alle esigenze, oltre che all’acquisto dei mezzi e la gestione degli affitti, anche ad altri due membri, Fahd Muhammad Al-Qasaa e Maamoun Ahmad Onswa, entrambi yemeniti ed entrambi ventenni, incaricati della movimentazione dell’esplosivo nel territorio nonché della corruzione di due agenti di polizia, Ali Muhammad Al-Muraqib e Murad Salih Al-Sorwri, per la fornitura di documenti falsi. Sono le ore 11:12 e tutto pare tranquillo sul ponte della Cole. All'interno, giù nella mensa molti dei membri dell'equipaggio stanno facendo la fila per il pranzo. Nessuno ha la minima idea di quello che sta per accadere, qualcuno chiacchiera col vicino, qualcun’altro è seduto al tavolo a consumare il pasto. Fuori, in movimento sull’acqua, a poche centinaia di metri di distanza la piccola imbarcazione a motore riparata e riconfigurata dopo il fallimento precedente si sta avvicinando lentamente. A bordo ci sono Ibrahim Al-Thour e Hassan Al-Khamri, yemeniti, giovanissimi che si guardano intorno sincerandosi di non essere seguiti e che l’imbarcazione non presenti gli stessi problemi avuti contro il Sullivans. Mescolandosi al gruppo di navi portuali che stanno aiutando la Cole per il rifornimento sono riusciti a passare inosservati. Aden è un porto trafficato e col numero di imbarcazioni da pesca e chiatte mercantili in movimento il barchino in fibra di vetro, non tanto diverso dagli altri, senza attirare l’attenzione di nessuno, né dei pescatori, né dei soldati sul ponte della Cole, procede in una virata a sinistra in direzione della nave da guerra puntando la fiancata sinistra. Non rallenta, anzi, il pilota non stacca la mano dalla manetta dell’acceleratore mentre il secondo è accanto a lui con la mano sull’interruttore. Entrambi sono in piedi, si guardano un attimo prima di volgere il loro sguardo verso la Cole. Le regole d’ingaggio del cacciatorpediniere, impedendo alle vedette di sparare sulla piccola imbarcazione durante l’avvicinamento senza prima il permesso di un ufficiale e comunque se non preventivamente attaccati, permette al barchino di arrivare a tutta velocità sotto gli occhi di tutti fin sotto la nave. Alle ore 11:15, quando per i marinai è troppo tardi per reagire, appena prima che il lato di dritta della barca colpisca il fianco della nave l’uomo con la mano sull’interruttore rilascia il pulsante. Il circuito elettrico viene chiuso, la corrente irrorata dalla batteria percorre in una frazione di secondo il cavo fino ai detonatori dove i ponticelli all’interno incendiano la miscela infiammabile. L’Azoturo di Piombo si innesca facendo partire la Pentrite che fa esplodere il trefolo di miccia detonante e quindi il C-4. La carica composta dal cuneo di metallo su cui sono spalmati i 250 chilogrammi di esplosivo detona con una velocità di 8.000 metri al secondo. La sua energia, venendo rilasciata direttamente dalla sua superficie così sagomata, anziché disperdere la propria potenza esplosiva in maniera omnidirezionale la concentra nella cavità. La maggiore efficienza energetica, causando un maggiore scarico di energia sul metallo con una pressione di oltre 1.000 tonnellate per centimetro quadrato trasforma il metallo del cuneo in un getto di plasma ad alta velocità che genera una temperatura e una sovrappressione tale da praticare una penetrazione nella piastra d'acciaio della fiancata della nave pari a 250 volte il diametro dell'ordigno. La Cole viene scossa da un’onda d’urto violentissima, l’esplosione è così potente che infilandosi sotto la cucina spinge il ponte verso l’alto aprendo uno squarcio nella corazzatura alto 12 metri, largo 18 e con una superficie di 150 metri quadrati. La nave sbanda di 4 gradi, la sala macchine e la sala officina dove tre tecnici stanno riposizionando l’attrezzatura dopo un lavoro di manutenzione, e la mensa gremita per il pranzo, sono attraversate da un’onda di sovrappressione devastante che scardina le porte, piega le paratie e trasforma gli oggetti e gli arredi in proiettili che martoriano e infilzano l’equipaggio scaraventato contro le pareti dall'onda d'urto che rimbalzando all’interno dei locali accentua l'effetto distruttivo colpendolo da più direzioni. Le ossa si frantumano, gli organi interni si spappolano. In 17 non sopravvivono, in 39 rimangono feriti, 11 in modo grave, 2 donne e 9 uomini. Dopo qualche secondo di silenzio dove un fumo nero e denso impedisce di vedere e di respirare, ecco che l’acqua inizia ad entrare inclinando la nave, fortunatamente non in modo fatale. La carica, esplodendo poco sotto il livello del mare, ha dissipato molta della sua energia posseduta non andando a compromettere oltremodo la chiglia, cosa che non sarebbe successa se si fosse trattato di una nave di tipo più vecchio poiché sarebbe stata condannata irrimediabilmente. Ci vorranno 96 ore perché l’equipaggio fermi l’allagamento scongiurando l’affondamento, mentre i feriti verranno smistati nei vari ospedali di Aden per poi essere trasportati prima presso il Landstuhl Regional Meridal Center dell'esercito degli Stati Uniti a Ramstein, in Germania, per poi essere trasferiti negli Stati Uniti. Da questo attacco, il più mortale contro una nave della marina statunitense dopo quello alla USS Stark del 17 maggio 1987 durante la guerra Iran-Iraq in cui un caccia Dassault Mirage F1 iracheno l’aveva colpita con due missili anti-nave uccidendo 37 membri di equipaggio, il presidente americano Bill Clinton ordinerà alle navi nel Golfo Persico di lasciare il porto e dirigersi verso il mare aperto. La Cole, ormai compromessa, verrà caricata sulla nave pontone norvegese Blue Marlin per essere riportata negli Stati Uniti.

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01 novembre, 2021

Nāṣiriya, Base MSU Maestrale, 12 novembre 2003


TIPOLOGIA: attentato
CAUSE: camion-bomba suicida
DATA:
12 novembre 2003
STATO: Iraq
LUOGO: Nāṣiriya, Base MSU Maestrale
MORTI:
28
FERITI:
119

Analisi e ricostruzione a cura di Luigi Sistu

È il 12 novembre 2003 e nella città di Nāṣiriya sono le ore 10:00. Siamo nella provincia di Dhi-Qar che si estende su un'area di circa 13 mila chilometri quadrati con una popolazione di quasi un milione di persone. Nāṣiriya, a maggioranza sciita, ne è il capoluogo di provincia, situata a circa 375 chilometri a sud della capitale Baghdad e centro di grande rilevanza dal punto di vista militare. I militari italiani si trovano qui dal 19 luglio, da quando hanno dato il cambio ai Marines americani del 2° Battaglione del 25° Reggimento. L’”Operazione Antica Babilonia”, la missione italiana iniziata il 15 luglio e classificata come missione di “peacekeeping” autorizzata dalle Nazioni Unite conseguentemente alla guerra avviata dagli Stati Uniti d’America per deporre il dittatore Saddam Hussein, è nel pieno del suo svolgimento. Tra le attività politiche e militari svolte al “mantenimento della pace internazionale” i militari italiani hanno diversi compiti e la bonifica, la ricostruzione del "comparto sicurezza" iracheno attraverso l'assistenza per l'addestramento e l'equipaggiamento, il concorso al ripristino di infrastrutture pubbliche, alla riattivazione dei servizi essenziali e all’ordine pubblico, sono alcuni di questi. Il comando dell’operazione, l'Italian Joint Task Force, il IJTF, si trova fuori città, nella base “White Horse”, a 7 chilometri in linea d’aria dal centro abitato. In città i Carabinieri e l’Esercito occupano altre due basi distanti 350 metri l’una dall’altra, gli uomini dell’Esercito si trovavano in quella denominata “Libeccio”, dove hanno sede sia il Battaglione, il Multinational Specialized Unit, sia il Comando del Reggimento MSU/IRAQ, i Carabinieri invece si trovavano nella “Maestrale”, soprannominata “Animal House”, anch’essa base MSU e che occupa l’ormai vecchio edificio che durante il regime di Saddam Hussein era la sede della Camera di Commercio. Perché il peacekeeping abbia un maggiore impatto e i soldati abbiano un contatto diretto con la popolazione locale, i contingenti si trovano proprio nel centro abitato, ma quello che in termini logistici può essere sicuramente un vantaggio, in termini strategici è un disastro: le basi sono scoperte e mal difese. A differenza delle altre, nel deserto, queste sono facili da colpire, soprattutto la Base Maestrale, priva di difese passive “a zig zag”, di blocchi stradali e di solide mura statiche perimetrali di protezione. Nāṣiriya si trova nel sud dell’Iraq, una zona dove gli scontri con la minoranza sunnita e con le forze internazionali sono molto meno gravi e frequenti che in altre zone del paese, come intorno alle città di Baghdad e Tikrit, presidiate dall’esercito americano. I primi mesi dell’operazione sono passati senza incidenti, ma mentre si ha l’illusione che i rapporti con la popolazione siano buoni e di reciproca collaborazione, in città è pronto già da qualche mese un piano d’attacco proprio contro una delle basi. Il leader Aḥmad Fāḍil al-Nazāl al-Khalāʾil, noto con lo pseudonimo di Abū Musʿab al-Zarqāwī, appoggiato dagli estremisti sunniti aveva dato l’assenso a Said Mahmoud Abdelaziz Haraz per l’organizzazione un raid suicida contro la Base Maestrale, la più adatta allo scopo in quanto sita lungo un’arteria principale che non sarebbe mai potuta essere chiusa. Abū Musʿab al-Zarqāwī è uno dei comandanti operativi di al-Qaida, e grazie alla sua maggiore visibilità come leader dell'insurrezione contro i militari americani e il governo provvisorio dell'Iraq, ha un potere e un’influenza maggiore dello stesso Osāma bin Lāden, il leader del movimento fondamentalista islamista sunnita paramilitare terroristico nato nel 1988 durante la Guerra in Afghanistan e guidato dal miliardario saudita 17esimo dei 57 figli dell’immobiliarista yemenita Mohammed bin Awad bin Lāden, che avvalso della guida ideologica di al-Zawāhirī, scrittore, poeta e medico de Il Cairo appartenente ad una famiglia di dotti religiosi e di magistrati, aveva deciso di utilizzare soldi e macchinari della propria impresa di costruzioni per aiutare la resistenza dei mujaheddin durante l’invasione. La benedizione per la strage era stata data durante un incontro del "Consiglio della shura", l'organo ideologico-religioso dell'organizzazione terroristica “Al Tawhid wal Jihad'' rinominata “Tainzim qaidtu al jihad fi bilad al rafidain”, “Base del jihad nella terra dei due fiumi”, con l’annessione ad al-Qaida. Il colloquio si era tenuto dalle parti di Falluja e a cui avevano partecipato, oltre il leader di al-Qaida in Iraq, anche Abu Anas al Shami, 38 anni giordano, Capo del Consiglio, Abu Adnan, portavoce e addetto stampa, Haji Thamer, iracheno, responsabile della "sezione operazioni suicide", e i membri più influenti: Abu Salman al Shami, Abab Turki, Nidal al Arabiya, e Abu Omar Al Masri, egiziano e braccio destro ed erede di al-Zarqāwī. Said Mahmoud Abdelaziz Haraz aveva iniziato a lavorare al progetto assieme ad Haji Thamer dopo che questo era nato quasi per caso, quando Thamer si era trovato di passaggio a Nāṣiriya durante un viaggio nella città di Bassora. Aveva notato la bandiera italiana sventolare su un edificio e aggredire una preda che non immaginava alcun tipo di agguato era stato un pensiero che aveva acceso l'ex ufficiale disertore dell’esercito di Saddam Hussein. Essendo in zona sciita ed essendo un quadrante scoperto dagli uomini di al-Zarqāwī, nessuno si sarebbe mai immaginato che avrebbe potuto arrivare fino a lì. Il progetto era stato quindi proposto al leader e di conseguenza passato al vaglio del consiglio. L'obiettivo sarebbe stato quello di colpire il Governo Berlusconi mandando così un messaggio chiaro all'Italia e agli altri Stati della Coalizione: il ritiro immediato dalla città. Said Mahmoud Abdelaziz Haraz, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Abū ‘Omar al-Kurdī, è un 35enne iracheno veterano dei campi di addestramento in Afghanistan e uno dei massimi specialisti di esplosivi, ai primi di ottobre, assieme a Haji Thamer si era trovato in città per il primo di tre sopralluoghi. I due erano arrivati via Baghdad su un autobus di linea partito da Ramadi, lo studio era durato poco più di due ore, con una serie di passaggi davanti all’obiettivo per studiarne le debolezze e individuare nelle vicinanze un luogo in cui parcheggiare il veicolo imbottito di esplosivo. Inizialmente avevano pensato ad un’autoambulanza dopo essere balzato ai loro occhi l’ospedale a pochi chilometri dalla base. Dopo due settimane il piano era pronto, colpire due obiettivi, per uno dei quali era stata scelta la base Maestrale. Questa è organizzata su di un comprensorio di dimensioni massime 80 metri per 70 sul terreno pianeggiante privo di asfalto ubicato in prossimità della riva sinistra del fiume Eufrate, all'altezza del ponte Al Zaitun. La palazzina sede del Comando e della parte logistica è una massiccio parallelepipedo di 15 metri per 22 e alto 10 con struttura in calcestruzzo armato, pilastri di sezione quadrata di 40 centimetri di lato e pannelli prefabbricati. Accanto c’è un container adibito a deposito munizioni in corrispondenza del lato sul fiume, il tutto è davanti ad un ampio spiazzo all’interno del perimetro allestito a parcheggio e alla movimentazione degli automezzi. L'entrata, una parte carraia e una pedonale che conduce alla palazzina, è protetta da sbarramenti con sacchi di sabbia e barriere hesco bastion, dei gabbioni metallici riempiti di ghiaia e terra utilizzati per creare un riparo provvisorio, molto efficace contro eventuali truppe a piedi ma decisamente meno contro veicoli pesanti. Inoltre, la zona è un cantiere a cielo aperto, i lavori per asfaltare la strada in piena attività avrebbe fornito una copertura per l’avvicinamento del veicolo-bomba. L’autoambulanza, confermata per essere utilizzata come mezzo d’attacco, sarebbe stata preparata assieme ad una autocisterna che avrebbe invece colpito un palazzo ministeriale. Da quella stessa notte erano iniziati i preparativi, l’autoarticolato era stato allestito per primo mentre l’esplosivo per riempire l’ambulanza sarebbe arrivato nei giorni a seguire con una seconda spedizione. L’organizzazione terroristica aveva avuto accesso ad una quantità inimmaginabile di esplosivo, completamente militare, ad alta velocità di detonazione e ciò era stato reso possibile grazie allo smantellamento di razzi e pezzi di artiglieria che Ammar az-Zubaidi, uno degli elementi della cellula addetto al procacciamento della materia prima, aveva trafugato assieme a decine di casse dai magazzini iracheni all'inizio dell'occupazione di inizio anno da parte della coalizione di paesi, guidata dagli Stati Uniti d’America assieme a Regno Unito, Australia e Polonia. La prima carica era stata assemblata all’interno del grosso camion cisterna di fabbricazione russa, un Kamaz, un residuato bellico dell’esercito iracheno con cabina di colore verde e serbatoio bianco, dove all’interno, a 160 centimetri dal suolo, avevano sistemato con cura certosina il risultato di un progetto figlio di anni di test e attentati dinamitardi contro obiettivi militari: una mostruosa carica concentrata con un rapporto fra la dimensione maggiore e quella minore non superiore di 4 e del peso di 3.500 chilogrammi finalizzata alla totale distruzione dell’obiettivo. Di questi, 2.000 chilogrammi erano costituiti da una parte di Trinitrotoluene sfuso, esplosivo preparato la prima volta nel 1863 dal chimico tedesco Julius Wilbrand, perfezionato dal chimico tedesco Hermann Frantz Moritz Kopp nel 1888 e prodotto industrialmente in Germania un anno dopo col nome di Tritolo o Tnt. Lo avevano ricavato estraendolo dalle testate da 25 chilogrammi dei razzi sovietici aria-terra da 122 millimetri BM-21 Grad, ognuno lungo 3,04 metri per 70 chilogrammi di peso, e dalle testate da 75 chilogrammi dei missili statunitensi Raytheon MIM-23B HAWK, missili terra-aria lunghi 5,03 metri, 638 chilogrammi di peso, un diametro di 37 centimetri e un’apertura alare di 1,21 metri. L’esplosivo, una volta aperti gli involucri, dopo essere stato liquefatto col vapore per essere prelevato più facilmente, era stato risolidificato in forme regolari e stipato in barili di plastica sigillati ermeticamente e accorpato ad una seconda tranche di esplosivo completamente diverso, il plastico C-4. Creato durante la Seconda Guerra Mondiale, evoluzione del C-3 con brevetto americano degli anni ’70, solitamente confezionato in cartucce è composto da 91% di RDX, 5,3% di plastificante dietilesile, 2,1% di poliisobutilene e 1,6% di olio lubrificante del tipo SAE 10. L’RDX, formalmente ciclotrimetilentrinitroammina, di caratteristiche eccezionali e scoperto e brevettato dal chimico e farmacista tedesco Georg Friedrich Henning nel 1898, era stato codificato con questo nome prima dall’esercito inglese come Royal Demolition eXplosive e poi prodotto in larga scala dagli Stati Uniti nel 1920 come “RD” Research and Development, ricerca e sviluppo, sigla comune a tutti i nuovi prodotti per la ricerca militare, e "X", la classificazione, nata come lettera provvisoria ma rimasta definitiva. Il resto della carica era costituita invece da proiettili di artiglieria: i BK-14M russi, proiettili perforanti in acciaio del calibro di 125 millimetri lunghi 677 millimetri contenenti una testata da 5,9 chilogrammi di Pentolite, gli HE432M iracheni, proiettili in acciaio altamente esplosivi del calibro di 130 millimetri lunghi 502 millimetri contenenti una testata da 5,3 chilogrammi di PBXN-5, gli M107 HE americani, proiettili in acciaio ad alto potenziale esplosivo del calibro di 155 millimetri lunghi 800 millimetri contenenti una testata da 6,6 chilogrammi di Composizione B, e gli americani M549 HERA, proiettili perforanti in acciaio del calibro di 155 millimetri lunghi 607 millimetri contenenti anch’essi la Composizione B nella testata ma in un peso di 7,3 chilogrammi. La Pentolite, il primo dei tre esplosivi ad altissimo potenziale, è una miscela formata da parti uguali di Trintrotoluene e Pentrite, questo uno degli esplosivi più potenti preparato per la prima volta nel 1891 dal chimico tedesco Bernhard Tollens. Il secondo, il PBXN-5, è un prodotto sviluppato per la prima volta nel 1952 presso il Los Alamos National Laboratory, il laboratorio nazionale del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti inizialmente organizzato durante la Seconda Guerra Mondiale per la progettazione di armi nucleari come parte del Progetto Manhattan. Questo è composto per il 5% da tecnopolimeri sintetici e per il 95% da HMX, formalmente ciclotetrametilentetranitroammina, esplosivo ad alta velocità di caratteristiche eccezionali scoperto e brevettato nel 1930 e codificato col nome “HM” per High Molecular weight, ad alto peso molecolare, e "X", la classificazione, anche in questo caso nata come lettera provvisoria ma rimasta definitiva. Il terzo, la Composizione B, è un esplosivo sviluppato agli inizi della Seconda Guerra Mondiale dai laboratori di ricerca americani e composto da una percentuale del 39,5% di Trinitrotoluene, 1% di cera di paraffina e 59,5% di RDX. Le varie sezioni della gigantesca carica erano state collegate tra loro da un circuito ridondante di miccia detonante, un cordone esplosivo con l’anima interna in Pentrite diretto discendente di quello messo a punto negli stabilimenti David Bickford nel 1914. La miccia esplosiva era stata quindi affogata nelle miscele, un accorgimento utilizzato anche in altri attentati, adottato per assicurare una detonazione uniforme degli involucri in modo da non avere interruzioni nel passaggio dell’onda esplosiva da una sezione all’altra. Alla miccia detonante era stata poi nastrata una rete di detonatori elettrici, artifizi esplosivi primari, versioni moderne di quello inventato nel 1876 da Julius Smith, e costituiti da un cilindro di alluminio riempito con una piccola quantità di esplosivo secondario, la Pentrite, innescato a sua volta da pochissimo esplosivo primario, l’Azoturo di Piombo, il preparato della Curtis's and Harvey Ltd Explosives Factory nel 1890, sensibile ad urti e calore. Infine dai detonatori, collegati in serie anch’essi in modo ridondante, gli esplosivisti avevano fatto partire un cavo elettrico fissato ad un trefolo d’acciaio e che era stato fatto arrivare fino alla cabina, quindi ad un set di batterie e ad un doppio meccanismo di accensione: il primo, un interruttore a pressione nastrato sulla leva del cambio; il secondo, un doppio contatto a rilascio di pressione installato sotto il sedile dell’autista che sarebbe scattato nel caso lui fosse stato abbattuto durante l’avvicinamento all’obbiettivo. La bomba era completata, infinitamente terribile, tecnicamente perfetta. A fine ottobre l’autocisterna e l’ambulanza avevano lasciato Ramadi subito dopo la preghiera, la prima guidata da Haji Thamer, la seconda da Abū ‘Omar al-Kurdī. Accanto a lui, i due shahid, i martiri che si sarebbero immolati: Abu Zubeir Al Saudi, di 23 anni, saudita e Abu Abdallah Orduni, 33 anni, giordano. Erano arrivati dalla fabbrica dei martiri di Falluja, due dei tanti giovani stranieri che, all'inizio della guerra, erano arrivati in Iraq per combattere con al-Zarqāwī e immolarsi contro gli invasori stranieri. Avevano vissuto in una casa messa a disposizione dall’organizzazione dove nella “stanza dei martiri” avevano scritto il proprio nome su una lista affissa sulla parete mettendosi in fila per morire: uno si sarebbe fatto saltare sull’ambulanza, uno sulla cisterna. Ma mentre la prima era arrivata a Nāṣiriya per le ore 13:00, la seconda era stata fermata ad un posto di blocco della polizia di Kut, a 170 chilometri a sud-est di Baghdad, sulle rive del Tigri, in mezzo alle piantagioni di datteri che rompono le paludi. Haji Thamer era stato arrestato e il camion era finito assieme a lui nella caserma dove la “nuova polizia irachena”, sotto il controllo del contingente ucraino, aveva rilasciato l’autista ma concesso la restituzione del mezzo sotto compenso di 10 mila dollari americani. La trattativa si era conclusa all’alba del 12 novembre col pagamento di soli 300 dollari. Alle ore 09:00 uno degli agenti aveva consegnato di persona l'autocisterna ad Haji Thamer al confine della provincia di Wasit dove aveva poi proseguito per Nāṣiriya. Gli italiani erano stati appena condannati a morte. Nel frattempo, l’ambulanza era stata impiegata in un altro mattatoio, la Croce Rossa di Baghdad il 27 ottobre e a sostituire Abu Abdallah Orduni, morto nell’esplosione, era arrivato un altro giovane, un algerino di 33 anni, Bellil Belgacem. Proveniente da Jaén in Andalusia dove faceva il bracciante, aveva vissuto per un paio di mesi a Vilanova i la Geltru, un comune situato nella comunità autonoma della Catalogna dove era stato reclutato nella moschea locale di Al Forkan. Uno degli imam, Mohammed Samadi, aveva fatto durante la preghiera un riferimento diretto alla jihad violenta, Bellil si era mostrato interessato e la cosa non era sfuggita all’occhio Mohamed Mrabet Fhasi, originario di Tangeri e capo della cellula di reclutamento di terroristi per al-Zarqāwī. Era stato scelto come candidato al martirio, accolto nell’appartamento che condivideva con suo fratello Khalid e messo a lavorare nella macelleria Boughaz del quartiere. In quell'appartamento aveva cominciato il suo indottrinamento, era stato sottoposto ad un processo teso a dominare il suo tempo e il suo pensiero obbligandolo a dedicarsi anima e corpo al pensiero della jihad, alla morte rituale, al fine di annullare la sua volontà. Di questo se ne era occupato l’imam Mustafà Serroukh, personaggio di primo piano del radicalismo islamico in Spagna, braccio destro dell’imam Hicham Temsamani, collegamento tra la cellula spagnola e le altre realtà islamiche radicali in Francia, Belgio, Paesi Bassi, Algeria, Marocco, Siria, Turchia e Iraq. Una volta ripulito da ogni pensiero esterno, era stato affiancato ad Abu Zubeir Al Saudi e preparato per la missione. Sono le ore 10:34 di quel 12 novembre e alla Base Maestrale una troupe cinematografica si trova all’interno del perimetro per una sosta veloce. Il regista, Stefano Rolla e il suo aiuto regista, Aureliano Amadei, sono in piedi nel piazzale antistante l’ingresso della palazzina in compagnia del cooperatore internazionale Marco Beci. Stanno discutendo del programma della giornata riguardo le riprese dello sceneggiato in lavorazione sulla ricostruzione a Nāṣiriya da parte del contingente italiano. La troupe è accompagnata nel corso dei suoi spostamenti da una squadra del 151° Reggimento Fanteria “Sassari” e tre soldati del 6º Reggimento Trasporti della Brigata Logistica di Proiezione. Il camion-cisterna si avvicina a bassa velocità al ponte sull’Eufrate, solo poche centinaia di metri lo separano dalla base. Al volante c’è Abu Zubeir Al Saudi, accanto a lui Bellil Belgacem stringe tra le mani un fucile automatico Ak-47. Le strade sono un fiume di persone ma nessuno fa caso a quel mezzo pesante che sta via via aumentando l’andatura. Haji Thamer è poco distante e sta osservando con attenzione le manovre del camion, vuole assistere all’esplosione, vuole essere sicuro che il carico di distruzione all’interno del rimorchio faccia il suo dovere. Sono le ore 10:38 e il camion attraversa il ponte, all’altezza della base gira a sinistra puntando verso il posto di guardia dell’entrata del vecchio edificio della Camera di Commercio. Gli italiani dall’ultimo sopralluogo hanno alzato delle protezioni ulteriori ma il camion non si ferma, Abu Zubeir Al Saudi preme sull’acceleratore facendo sobbalzare il pesante mezzo mentre Bellil Belgacem ha già fuori dal finestrino la canna del fucile col colpo inserito e la modalità a raffica. Il mezzo passa accanto al chiosco di Hassan Saad, un ragazzo di 17 che sta vendendo bombole di gas da cucina che, visto il fucile scorgere dalla cabina, lascia tutto arrampicandosi su una recinzione per allontanarsi di corsa. Il rombo del motore sovrasta le auto di passaggio, il mezzo viene visto dal corpo di guardia, accelera, i militari non fanno in tempo a dare l’allarme che il passeggero inizia a sparare nella loro direzione. Il camion prosegue a tutta velocità sfondando la sbarra di metallo, l’autista ha la mano destra sul pulsante e il piede sull’acceleratore, non si ferma, è sotto il fuoco del carabiniere Andrea Filippa che sta scaricando l’intero caricatore sul parabrezza. Sbanda, travolge gli hesco bastion fermandosi a 26 metri dalla facciata. L’urto del muso del camion contro le barriere sbalza in avanti Abu Zubeir Al Saudi che fracassandosi sul volante annulla la pressione sul sedile attivando la molla del secondo contatto. La corrente elettrica dal pacco batterie arriva ai detonatori, la miscela incendiaria all’interno prende fuoco innescando l’Azoturo di Piombo e facendo detonare la Pentrite che attiva la miccia detonante. In un decimo di secondo il cordone esplosivo arma le sezioni della carica all’interno del rimorchio che esplodono contemporaneamente. Il Kamaz si trasforma in una sfera di fuoco del raggio di 25 metri, è un’esplosione fortissima, terribile, l’aria e la terra vengono scosse con un ruggito. I 3.500 chilogrammi del super-esplosivo detonano alla velocità di oltre 8.000 metri al secondo. La forza dell’esplosione scaglia in aria la ghiaia degli hesco bastion, schiaccia e ribalta gli 11 automezzi pesanti parcheggiati prima di impattare contro l’angolo dell’edificio che viene sventrato, passato da parte a parte, strappando il primo pilastro dal suo vincolo superiore e abbattendolo verso l’interno. L’onda d’urto, una volta spogliata la facciata e demolite le strutture verticali di irrobustimento del lato sinistro e parte del destro, si incanala nei locali della palazzina devastandoli. Porte e finestre vanno in pezzi, le pareti si aprono, i solai si sollevano. L’onda di pressione, dopo una corsa di 350 metri, raggiunge la Base Libeccio, quasi di fronte alla Base Maestrale ma sulla riva destra del fiume Eufrate, frantumando le finestre, scardinando i telai degli infissi, crepando i muri e finendo la sua furia sull’edificio della International Medical Corps, una Organizzazione Non Governativa americana attiva nella zona da sei mesi. A 800 metri le finestre del tribunale vanno in pezzi riversandosi sui presenti intenti ad assistere a un’udienza. Il calore è immenso, le lamiere si arroventano, i corpi si sciolgono, la terra fuma. La riservetta salta in aria, una tempesta di proiettili bersaglia ogni cosa in ogni direzione. È un Inferno, ci vuole qualche minuto perché la polvere si depositi e renda visibile l’ecatombe. In 28 sono stati falciati come fili d'erba, i loro corpi sono a terra senza vita. L’interno del perimetro è stato ridotto in polvere e con esso 12 carabinieri, 5 soldati, il regista e il cooperatore internazionale. Sul terreno, tra la ghiaia e le fiamme ci sono altri 19 carabinieri, miracolosamente vivi ma feriti, c’è anche Stefano Rolla, l’aiuto regista, tra le urla, la confusione e un centinaio di iracheni feriti cerca di capire cosa sia successo. Non si vede niente, ci sono solo polvere, sangue e macerie. La furia della bomba ha devastato il quartiere, a terra c’è solo sangue, morte, i resti straziati di quelli che fino a pochi secondi prima stavano svolgendo le loro mansioni. Carcasse di mezzi in fiamme, brandelli di corpi, un pezzo di gamba sono sparsi per decine di metri. Un’anca è sull'altra sponda dell'Eufrate, a 150 metri di distanza, e una testa, e poi ci sono i cani, che morsi dalla fame e vinto lo spavento del boato, portano timidamente via pezzi di carne andando a sparire tra la polvere. Poi c’è un auto, è ferma in mezzo alla strada arata dal passaggio del fronte d’onda, all’interno ci sono cinque figure, cinque donne irachene che rientravano da un college per insegnanti: sono state incenerite all’istante. Il calore e la pressione sono stati di una intensità tale da abbattersi anche sulle auto parcheggiate e sulle abitazioni dove in una delle quali una madre si trovava alla finestra con in braccio suo figlio di 10 giorni. Entrambi sono morti, la donna è a terra, scagliata contro il muro della camera da letto, il bambino invece è a 3 metri da lei in un lago di sangue e con ancora attaccato un braccio della madre. Sopra il quartiere una nuvola nera e densa continua a sollevarsi in cielo, mentre frammenti di pietra, calcestruzzo e metallo piovono senza sosta sulla città. Il traffico nella zona è impazzito, in alcuni tratti paralizzato, gli abitanti del quartiere sono scesi in strada in preda al panico. L’area è chiusa, la strada che conduce al complesso è bloccata e presidiata dai carabinieri, dai militari della Brigata Sassari e dagli uomini del Genio Guastatori che hanno attivato la macchina del soccorso. Ricomporre i corpi delle vittime sarà un’impresa titanica, per i feriti viene invece allertato il vicino ospedale dove stanno già confluendo i medici e le infermiere volontarie della Croce Rossa dell’ospedale militare italiano di Tallil. Nel Punto Zero, l’Animal House non c’è più, dove prima c’era uno dei punti nevralgici delle operazioni per il mantenimento della pace internazionale, ora c’è un rudere di cemento, scheletri di metallo e un cratere di 7,7 metri di diametro e 2,5 di profondità.

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