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01 agosto, 2022

Saltpan Reach, Porto, 27 maggio 1915

 

TIPOLOGIA: incidente
CAUSE: errore umano
DATA:
27 maggio 1915
STATO:
Inghilterra
LUOGO: Saltpan Reach
MORTI:
352
FERITI:
84

Analisi e ricostruzione a cura di Luigi Sistu

È il 27 maggio 1915, è mattino e alla boa numero 28 del porto di Saltpan Reach, sull'estuario del fiume Medway tra Port Victoria e l’antica città fortificata di Sheerness adiacente al cantiere navale della Royal Navy di Chatham, è ormeggiata la HMS Princess Irene. Con le sue 5.394 tonnellate, la HMS, “Her Majesty's Ship, la Nave di Sua Maestà, è stata varata l’anno scorso. Nata per essere un vettore oceanico di lusso per 1.500 passeggeri, progettata e costruita dalla William Denny e Brothers Ltd di Dumbarton, in Scozia, per la Canadian Pacific Railway, è stata inaugurata il 20 ottobre per servire, assieme alla sua gemella Princess Margaret, il percorso Vancouver-Victoria-Seattle. Prima di salpare per il viaggio inaugurale è stata requisita dalla Marina Reale Britannica che ha rimosso il ponte principale e ne ha modificato la configurazione per convertirla in nave posamine. L’Europa è in guerra, una situazione che mese dopo mese si prospetta più difficile del previsto, il predominio anglo-francese sui mari preclude alla Germania ogni fonte di approvvigionamento esterno e il blocco navale imposto dalla Gran Bretagna nella Manica tiene in una stretta mortale il commercio tedesco. La ritorsione della Germania, affidata alla micidiale azione dei sottomarini, è la decisione di spezzare questo blocco attraverso una guerra sottomarina che contempla la possibilità di colpire anche i paesi neutrali. Dopo l’affondamento del transatlantico RSM Lusitania con la morte di 1.201 passeggeri lo scorso 7 maggio, l’Inghilterra, iniziando a temere che questa guerra potrebbe non finire poi così presto, sta mobilitando il suo impero. Disponendo della più importante flotta commerciale del mondo importa quasi tutto il petrolio, e cosa più importante per un’isola densamente popolata, la metà delle derrate alimentari. Dove gli obiettivi delle operazioni navali sono la protezione dei convogli destinati al fronte francese in cui navi cariche di materiali e soldati attraversano le acque costantemente pattugliate da cacciatorpediniere e sommergibili, la posa degli sbarramenti minati difensivi è fondamentale per il blocco navale, sia allo scopo di precludere alla flotta tedesca l'uscita nell'aperto Oceano Atlantico, sia il suo commercio marittimo con le potenze neutrali, sia per proteggere il flusso di uomini e mezzi verso la Francia attraverso la manica con una rete di mine che copre una vasta superficie del Mare del Nord, tra la foce del Tamigi e l'Olanda. Per la costruzione di questa rete, programmata nella posa 128 mila mine in tre anni, in ausilio alle unità navali militari sono impiegate anche le mercantili appositamente modificate scelte per l’elevata capacità di carico e la precisione nella navigazione, caratteristiche di cui solo queste imbarcazioni sono provviste. Con imbarcati 225 membri di equipaggio, la Princess Irene è un colosso di 120 metri di lunghezza e largo 16 che, alimentata da quattro turbine a vapore in grado di spingerla fino alla velocità di 41,7 chilometri orari, imbarca un carico di 500 “Navy Spherical Mine” Type H Mark V, molto diverse dai primi seicenteschi prototipi inglesi che avevano messo a dura prova le navi di Luigi XIII. I barili di legno pieni di esplosivo con un acciarino da moschetto come dispositivo di accensione e ancorati a grosse pietre sul fondo, avevano funzionato così bene che gli ufficiali della Marina Pontificia ne avevano copiato il design per riadattarlo alla difesa dei porti dalle scorrerie dei pirati barbareschi. Di 102 centimetri di diametro e pesanti 399 chilogrammi, le mine Mark V, loro straordinaria evoluzione sotto il profilo tecnologico e offensivo, sono in preparazione sui carrelli per le messa in servizio per un totale di 113.500 chilogrammi di esplosivo ad alto potenziale armati e pronti all’uso. Partite dalle località fluviali di Woolwich e Upnor e arrivate a Saltpan Reach su delle chiatte lungo i fiumi Tamigi e Medway, sono un modello sferico “a contatto” Hertz, cioè ad attivazione ad urtante con fiala di acido solforico. Gli urtanti, sei spilli in piombo montati sulla superficie della sfera, quattro sulla parte superiore e due su quella inferiore, quando entrano a contatto con un corpo esterno si piegano rompendo la fiala di vetro all’interno che rilascia l’acido. Colando per gravità attraverso un condotto, questo è convogliato forzatamente fino a una batteria al piombo sotto lo spillo che viene attivata generando una corrente sufficiente ad alimentare il sistema di innesco. Questo è costituito da un detonatore elettrico all’Azoturo di Piombo, un tubicino d’innesco in alluminio erede di quello inventato da Julius Smith nel 1876, riempito col preparato della Curtis's and Harvey Ltd Explosives Factory del 1890 che innesca una carica esplosiva cilindrica primaria di Trinitrotoluene, un esplosivo preparato la prima volta nel 1863 dal chimico tedesco Julius Wilbrand, perfezionato dal chimico tedesco Hermann Frantz Moritz Kopp nel 1888 e prodotto industrialmente in Germania un anno dopo col nome di Tritolo. Il booster, infilato per tutta la lunghezza all’interno dell’alloggiamento della carica principale, più grossa, funge da spinta per 227 chilogrammi di Amatolo 60/40 chiusi in una camera metallica stagna, una potente miscela creata dalle forze armate britanniche all’inizio della guerra e costituita da una percentuale del 40% di Trinitrotoluene e 60% di Nitrato d'ammonio. Concepito principalmente come fertilizzante e chiamato col nome di “nitrum flammans” per via del colore giallo della sua fiamma, il Nitrato d’Ammonio è stato preparato e descritto nel 1659 da Johann Rudolph Glauber, un chimico e farmacista tedesco considerato uno dei fondatori della chimica industriale moderna e precursore dell’ingegneria chimica, per poi essere scoperto come prodotto esplodente dal chimico e ingegnere svedese Alfred Nobel nel 1870. Grazie al sistema di fissaggio della mina sul carrello, la posa in mare diventa semplice e veloce tanto che la Princess Irene è in grado di posare uno sbarramento di 12 chilometri in 20 minuti procedendo con una velocità costante di 20 nodi, circa 40 chilometri orari. Il carrello, un cassone in ferro di grande peso che funge da zavorra, durante il trasporto regge su di sé la mina semplificando la movimentazione rendendola in tal modo più sicura. Al suo interno contiene l’avvolgimento di un trefolo d’acciaio in grado di sostenere la mina e tenerla ancorata al carrello che, una volta rilasciato, si posa sul fondale facendola fluttuare alla profondità stabilita calcolata grazie ad un sistema a pressostato. Chiamato così per via di quattro ruote di derivazione ferroviaria che scorrono su rotaie imbullonate sul ponte della nave, il carrello viene sganciato in mare e, dopo qualche secondo di galleggiamento, affonda srotolando il cavo fino a raggiungere la profondità programmata dove il pressostato attiva, sotto la pressione dell’acqua, un meccanismo che fa scattare un freno di blocco del rocchetto facendo affondare la zavorra, trattenendo la mina ad una profondità compresa tra 5 e 10 metri dalla superficie e sganciando una molla che infila meccanicamente il detonatore all’interno del booster armando la carica principale. La Princess Irene è dotata di tre serie di binari sui due lati del ponte principale e altre due serie su quello posteriore, per poter imbarcare il maggior numero di mine le file di binari sono imbullonate il più vicino possibile le une alle altre, così vicine che nella posa dei carrelli gli operatori devono prestare la massima attenzione che gli urtanti di ogni mina non collidano tra loro. Si è sempre discusso in merito al personale addetto al carico e allo scarico delle merci, e ancora di più per la manipolazione degli armamenti e oggi, a bordo con l’equipaggio ci sono anche 78 operai della Sheerness Dockyard divisi in due squadre. Mentre una si sta occupando di verificare i rinforzi delle intelaiature in ferro che sostengono il peso delle mine sul ponte non progettato per un carico simile, l’altra sta registrando le rotaie in vista della partenza programmata per il 29. George Kilpatrick, che avrebbe dovuto far parte della seconda squadra, ottenendo un cambio turno dell’ultimo minuto è appena andato via. Anche il 21enne John Jeffrey Sutton non è a bordo, ha chiesto al Capitano il permesso di scendere a terra per un appuntamento dal dentista. Si è arruolato a Portsmouth nel giugno di tre anni fa e ottenuta la certificazione di sottufficiale in solo un anno è stato imbarcato a marzo sul posamine come segnalatore della Royal Navy. A bordo invece operai e membri dell’equipaggio si stanno occupando del delicato montaggio dei carrelli e in pesante ritardo sulla tabella di marcia stanno cercando di recuperarlo accelerando le operazioni. L’ispezione di ogni mina prima di essere trascinata nella sua corsia dopo il trasbordo dalla chiatta al ponte del posamine, operazione fino a pochi minuti fa meticolosa e particolarmente lunga, viene ridotta ad una verifica superficiale, veloce, troppo, talmente veloce da non vedere che un violento scossone durante la fase di rilascio delle cinghie nel poggiare una mina sul ponte ha fatto saltare il fermo di sicurezza della molla spingendo il detonatore nell’alloggiamento del booster. La mina, armata, è spostata sui binari e incolonnata alle altre. Sono le ore 11:08, le operazioni stanno volgendo al termine, i carrelli sono ordinatamente poggiati gli uni agli altri in un incastro perfetto con gli urtanti di ogni sfera che quasi si sfiorano. La mina innescata, silente in mezzo alle altre 499, ha accusato per ore gli effetti dell’atterraggio fuori controllo. Le vibrazioni, troppo intense per un marchingegno di tale complessità, hanno danneggiato anche la fiala di un urtante, filatura nel vetro che ha consentito all’acido di colare per il condotto, goccia dopo goccia, depositandosi sulla superficie della batteria che improvvisamente si attiva. La corrente elettrica, schizzando fino al detonatore lo accende. La miscela incendiaria al suo interno avvia l’Azoturo di Piombo sensibile al calore che innesca il Tritolo del booster facendo detonare la carica principale. L’Amatolo scatena la sua potenza, con una velocità di detonazione di 5.000 metri al secondo i 227 chilogrammi esplodono facendo saltare le mine di poppa innescando una velocissima reazione a catena. Una colonna di fuoco si alza nel cielo seguita da una seconda che sovrasta la precedente sollevandosi per 90 metri e lanciando in acqua chi si trova sul ponte. Nessuno ha il tempo di fare quasi nulla, in una frazione di secondo una terza fiammata avvolge la nave, la Her Majesty's Ship Princess Irene salta in aria. La furia delle 113.500 tonnellate di Amatolo solleva le 5.394 del posamine staccandolo letteralmente dall’acqua spezzandolo in due. L’equipaggio è fatto a pezzi, parti di corpi in fiamme sono lanciati in mare e sulla terraferma sparpagliati assieme a lamiere e detriti. Sotto una palla di fuoco che continua a salire verso il cielo, a pelo d’acqua l’onda d’urto generata viaggia ad una velocità mostruosa. Investe immediatamente le chiatte, le spoglia, scoperchia le cabine e prosegue raggiungendo una nave da trasporto carbone ad 800 metri dove strappa i bulloni della gru dalle piastre scaraventandoci addosso una caldaia, sradicando la struttura dai sostegni e sventrando un marinaio con una scheggia di metallo del peso di 46 chilogrammi. Dopo avere portato distruzione in mare, l’onda di sovrappressione impatta a tutta velocità sulla costa. Il muro d’aria, accompagnato da una tempesta di frammenti colpisce il deposito di combustibili dell'Admiralty di Port Victoria perforando le cisterne della stazione di pompaggio che esplodono radendo al suolo parte dell’area industriale. Ad Isle of Grain, il punto più orientale della penisola di Hoo nel distretto di Medway nel Kent, non va di certo meglio, una pioggia di fuoco e ferro si riversa sulle case, sulle campagne, sulle persone. Nel giardino di casa, una mamma si vede decapitare davanti agli occhi la figlia di nove anni da un frammento di ferro di 35 chilogrammi mentre una sezione di 10.160 chilogrammi del posamine compare dal nulla conficcandosi in un terreno poco distante. In un raggio di 32 chilometri dal cielo piove metallo, parti delle caldaie e della chiglia bombardano la costa, a Sittingbourne un fumaiolo atterra in un parcheggio, a Bredhurst un pezzo della prua scoperchia un negozio, ad Hartlip alcune paratie sfregiano una palazzina e ad Rainham una porzione del ponte infilza una delle vie più trafficate. 84 persone vengono colpite, fortunatamente molte saranno in grado di raccontarlo. Nel Punto Zero invece è calato il silenzio. La Princess Irene si è disintegrata. Da un fungo nero alto 400 metri, come fogli di carta giù da un palazzo planano lamiere sull’acqua intrisa d’olio che brucia su una distesa di corpi straziati. In città John Jeffrey Sutton è ancora dal dentista quando la finestra si spalanca con un ruggito. Si alza dal lettino, si affaccia, la gente si è riversata in strada e indica qualcosa verso il mare. Sutton si precipita in strada, guarda la costa, un’immensa colonna di fumo copre il cielo proprio dove c’era la sua nave, disintegrata, sparita portando con sé 352 anime vittime di una disattenzione che probabilmente, anzi, quasi sicuramente si sarebbe potuta evitare.

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01 giugno, 2022

Bath Township, Bath Consolidated School, 18 maggio 1927


TIPOLOGIA: attentato
CAUSE: cariche occultate, auto-bomba suicida
DATA:
18 maggio 1927
STATO:
Michigan
LUOGO:
Bath Township, Bath Consolidated School
MORTI:
46
FERITI:
58

Analisi e ricostruzione a cura di Luigi Sistu

È il 18 maggio 1927 e nella cittadina di Bath Township è una soleggiata giornata di primavera. Nel Michigan è l'ultima settimana dell'anno scolastico e le lezioni sono iniziate, come di consueto, alle ore 7:30. Andrew P. Kehoe è seduto sulla sua sedia preferita sotto il portico di casa. Ha lo sguardo concentrato, si prepara. È un ingegnere elettrico, vive con sua moglie Ellen “Nellie” Price, sono sposati dal 1912 e il loro è un matrimonio normale, tra alti e bassi, come ogni coppia. Vivono fuori città in una fattoria con 75 ettari di terra, un bel lotto comprato nel 1919 e pagato 12 mila dollari, metà dell’importo versato in contanti e il restanti coperto da un’ipoteca. Dopo anni di spostamenti e traslochi quel posto li aveva stregati a tal punto che avevano deciso di fermarcisi. I vicini di casa considerano Kehoe un uomo intelligente, brillante, ma impaziente e collerico con chi non la pensa come lui. Sempre pulito e meticolosamente vestito, è famoso per avere l'abitudine di cambiarsi la camicia non appena quella che indossa si sporchi, anche in maniera leggera. Non tollera la superficialità e non perdona gli errori, tanto da picchiare a morte un cavallo esausto dal lavoro, uccidere il cane del vicino poiché seccato delle continue intrusioni nel suo terreno e del costante abbaiare, o addirittura arrivare a mettere in discussione le proprie capacità meccaniche e gestionali. La propensione per l’ingegneria Kehoe l’aveva mostrata fin da bambino, amava armeggiare con gli attrezzi e creare proprie invenzioni. Cresciuto nella città canadese di Tecumseh con i suoi 12 fratelli, all’età di 18 anni dopo la morte della madre il padre aveva sposato una donna addirittura più giovane del figlio che aveva provocato un crollo emotivo nel ragazzo costretto poi ad andare via di casa. Dopo aver studiato ingegneria elettrica prima al Michigan State College e poi nel Missouri, nel 1905 era tornato a casa per ereditare la proprietà del padre ormai malato e vista questa in pericolo dalla nuova moglie che si era presa cura di lui e della sua artrite che lo aveva mese dopo mese paralizzato, si era sbarazzato di lei manomettendo una stufa a petrolio che le era esplosa addosso mentre la donna cercava di accendere la fiamma pilota, morendo avvolta dalle fiamme incrementate inconsapevolmente da chi aveva cercato di spegnerle gettandole addosso dell’acqua. Essendogli stata riconosciuta la qualità di persona parsimoniosa nel 1924 era stato nominato tesoriere della scuola di Bath, battendosi per la riduzione delle tasse e contestando una cattiva amministrazione al precedente responsabile, il sovrintendente Emory Huyck, reo di aver imposto una tassa alla collettività per sovvenzionare la costruzione della scuola, imposta che aveva pesato sulle già precarie condizioni finanziarie della sua famiglia. Appena arrivato Kehoe si era reso subito conto che Bath fosse comunità agricola rurale strettamente conservatrice, le prime linee elettriche erano arrivate da poco e i membri della comunità avevano accettato con un po’ di titubanza anche il raggruppamento delle scuole in un’unica struttura in modo da creare, per la prima volta, aule separate per ogni corso per consentire ai bambini di continuare la loro formazione attraverso la scuola superiore. Contro ogni aspettativa, l’istituto era cresciuto da subito passando dai 236 studenti del 1922 ai 314 del 1927, piano di consolidamento che si era purtroppo ripercosso sulle tasse facendo lievitare significativamente quelle sulle proprietà. Come se non bastasse, sua moglie Nellie si era ammalata di tubercolosi e dovendo, di conseguenza, subire ripetuti ricoveri ospedalieri, la malattia aveva giocato un ruolo importante nel peggioramento della situazione finanziaria della famiglia che aveva iniziato ad indebitarsi pesantemente smettendo perfino di saldare il debito sulla proprietà e costringendo la banca creditrice, che aveva diritto di riscatto, di avviare un procedimento legale che gli permetteva di acquisire una delle più belle fattorie della comunità, con una casa a tre piani, un ampio portico e 185 acri di terra ricca, ideale per qualsiasi tipo di coltivazione. Kehoe non avrebbe mai permesso che la sua vita, anni di sacrifici e di investimenti, gli venisse portata via, non ora e non così. In pochi mesi la rabbia lo aveva logorato dall’interno, aveva innestato in Kehoe il seme della follia permettendogli di pianificare, nel corso di un anno, la punizione perfetta. Aveva messo qualche soldo da parte, aveva cambiato i pneumatici al furgone per renderlo sicuro, aveva comprato una serie di bobine in rame e degli orologi, tutti acquisti in posti diversi in città diverse. Essendo in grado di maneggiare con familiarità l’attrezzatura elettrica ed essendo persona di fiducia dell’Istituto impegnato nella manutenzione degli impianti, l’uomo aveva avuto libero accesso alla struttura e la sua presenza nell'edificio non aveva mai destato alcun sospetto. Nel suo piano, organizzato in mesi di lavoro, ogni operazione era stata eseguita sotto gli occhi di tutti. “Il contadino della Dinamite”, ecco come lo aveva ribattezzato il vicino, poiché la sua professione gli aveva consentito l’acquisto di oltre una tonnellata di Pirotolo, un esplosivo originario della Prima Guerra Mondiale, costituito da una percentuale del 60% di Polvere Infume, l’invenzione del chimico francese Paul Marie Eugène Vieille attraverso la gelatinizzazione con una miscela di etere ed alcool della Nitrocellulosa scoperta da Christian Friedrich Schönbein nel 1846, 34% di salnitro e 6% di Nitroglicerina, sostanza sintetizzata dal chimico e medico italiano Ascanio Sobrero nel 1847 proprio dalla Nitrocellulosa. Nato dallo scopo di riutilizzare l’enorme eccedenza del dopoguerra delle Polvere Infume, la polvere da sparo di tipo propellente completamente diverso dalle altre e in grado di sviluppare un’energia tre volte superiore ma producendo fumi di combustione molto ridotti, il Pirotolo è prodotto dall’azienda chimica ottocentesca del chimico francese Eleuthère Irénée du Pont, allievo del chimico, biologo, filosofo ed economista Antoine Lavoisier. La DuPont Company lo produce negli stabilimenti di Gibbstown, nel New Jersey, di Barksdale, nel Wisconsin e di Washington. Oltre a questo, Kehoe era riuscito ad acquistare nella cittadina di Lansing anche due casse di Dinamite a base attiva, brevettata dal chimico e ingegnere svedese Alfred Nobel nel 1867 e composta per il 75% dalla Nitroglicerina sintetizzata dal chimico e medico italiano Ascanio Sobrero nel 1847 dalla Nitrocellulosa, prodotto esplosivo scoperto da Christian Friedrich Schönbein nel 1846, e da un 25% di segatura e nitrato di sodio, Dinamite evoluzione di quella a base inerte andando a sostituire con questo 25% quello originario di farina di roccia silicea sedimentaria di origine organica. Kehoe non è l’unico ad essere solito utilizzare l’esplosivo per scavi, rimozione di tronchi d’albero o l’eliminazione delle pietre nei terreni da arare, anche altri proprietari terrieri ne fanno uso, ma a differenza dei suoi vicini Kehoe ne avrebbe fatto un uso “diverso”. Per un intero anno ha lavorato al suo piano, un piano macabro quanto geniale e ora seduto sulla sua sedia a dondolo ci pensa e ci ripensa, guardando il portico per l’ultima volta. Prima di lasciare la proprietà ripassa mentalmente ogni preparativo, controlla in maniera metodica che non gli sia sfuggito nulla, che niente venga lasciato irrisolto. Durante le riparazioni all’impianto di illuminazione scolastica si è occupato della sistemazione dei cablaggi che collegano le due ali dell’edificio. Mentre tutti, dal corpo insegnanti agli alunni, dagli impiegati di segreteria alle forze di polizia, sono convinti che chi si spostava da un’ala all’altra della struttura con la scala sotto il braccio per fissare i fili elettrici al soffitto fosse un manutentore, un uomo di fiducia, l’Andrew P. Kehoe un po’ burbero ma affidabile che tutti conoscevano, in realtà ne ha minato il piano seminterrato con 420 chilogrammi di esplosivo ciascuno. Secondo i suoi calcoli, la Dinamite, in minore quantità ma di maggior potenza, avrebbe fatto da carica primaria trasformando il Pirotolo in una gigantesca bomba incendiaria attivata da un circuito di detonatori elettrici collegati in serie alimentati da un pacco batterie attivato da una rastrelliera di congegni meccanici ad tempo. Al momento stabilito, il circuito si sarebbe chiuso accendendo i detonatori elettrici, i cilindretti in alluminio inventati nel 1876 da Julius Smith riempiti con una miscela incendiaria che arma del Fulminato di Mercurio, un esplosivo primario sensibilissimo agli urti e al calore, sintetizzato già nel XVII secolo e perfezionato nel 1799 dal chimico inglese Edward Howard. Questi avrebbero innescato i candelotti di Dinamite e di conseguenza il Pirotolo in una devastante esplosione in sequenza. Sono le ore 08:00, Kehoe lascia il porticato per entrare in casa. Ne esce dopo pochi minuti per dirigersi al fienile, qui prende del filo spinato, lega i cavalli e avvia una sveglia. Subito dopo prende una borsa piena di candelotti di Dinamite, la chiude sul Pickup all’interno di una cassa riempita in precedenza con oggetti di metallo e guarda un’ultima volta la sua terra, il suo fienile, la sua proprietà, una proprietà costruita con sudore e sangue in anni di sacrifici. È solo, sua moglie non c’è, Ellen è legata con la gola tagliata nella sua camera da letto. Andrew ormai è determinato ad andare avanti, mette in moto e si allontana, il suo Pickup è perfetto, sa che non lo tradirà, gli pneumatici nuovi garantiranno un trasporto senza intoppi verso il centro cittadino. Dietro di lui lascia un cartello appeso alla recinzione di uno dei confini della proprietà con scritto “Criminali si diventa, non si nasce". I vicini lo vedono, lo chiamano ma non hanno risposta se non un cenno con ghigno arrogante. Sono le ore 08:45, mentre Ellen esala l’ultimo respiro, due sveglie accanto a lei chiudono un circuito elettrico. La casa salta in aria seguita dal fienile. Quattro bombe temporizzate si portano via “Nellie”, gli animali, il lavoro e gli affetti di una vita passata assieme. Lo spostamento d’aria e la fiammata di 4.200 gradi centigradi li dilaniano. Il corpo della donna viene fracassato da una trave e il resto del corpo dilaniato. Una tempesta di fuoco consuma in pochi istanti la fattoria lasciando in piedi solo il camino. Kehoe, che sente il boato alle sue spalle, non ha un fremito, non una lacrima, si preoccupa solo di guidare piano per non creare sussulti al cassone, il delicato carico che porta dietro deve arrivare intatto a destinazione. In città per strada non c’è quasi nessuno, è ancora presto, i bambini sono a scuola ed è proprio lì che alle ore 09:45 una delle sveglie si ferma. Il martelletto che batte sulla campanella chiude il circuito che consente alle batterie di rilasciare la corrente sulla linea. Il ponticello all’interno dei detonatori diventa incandescente, la miscela incendiaria brucia, il Fulminato di Mercurio detona innescando la Dinamite che accende il Pirotolo. L'edificio scolastico trema, una sfera di fuoco investe l’ala nord che crolla sulla scuola elementare. Il boato è terrificante, investe perfino Kehoe che si dirige verso la scuola col suo Ford, è talmente forte da raggiungere la sua proprietà lasciando atterrito chi si è precipitato sul posto attirato dal fumo. L’uomo arriva davanti all’edificio, il quartiere è avvolto nella polvere, è stato come un terremoto. Il pavimento si è alzato di diversi metri, scrivanie, librerie, banchi, sono stati lanciati per aria coi bambini, alcuni catapultati fin fuori dell’edificio. L’ala nord è collassata su sé stessa, parte del muro si è sbriciolato e una sezione del tetto si è riversato sul pavimento piantandosi sui resti delle aule del primo piano. Le pareti esterne si sono sgretolate ai lati mentre le posteriori sono rimaste in piedi in un equilibrio precario. I piccoli corpi spuntano dalle macerie, irriconoscibili, coperti di intonaco e sangue. Le grida dei bambini si mischiano a quelle frenetiche dei genitori che si precipitano a scaglioni sul posto. La scena è terribile, caotica. Bernice Sterling, una delle maestre, barcolla tra i detriti con lo sguardo perso nel vuoto, passa accanto ai corpi nel prato, non si accorge di niente. Uni centinaio di uomini cercano di spostare le pietre e le travi di legno alla disperata ricerca di qualcuno ancora vivo. 275 bambini erano a lezione, quasi ogni famiglia della comunità ha in questa scuola  almeno un figlio. Kehoe osserva il risultato del suo lavoro, quella montagna di macerie, quelle madri in lacrime che corrono verso il fumo chiedendo notizie dei loro bambini. Le pareti sono colorate di rosso, attorno ci sono 38 piccoli corpi che non hanno più una forma, non hanno più un viso, alcuni arti sono appesi a ciò che prima era un muro. I resti di due insegnanti sono sotto tonnellate di pietra, mattoni, legno, i pilastri ne hanno devastato le figure rovesciandocisi sopra. Un bambino cammina verso i vigili del fuoco, è bianco in volto e gli manca un braccio, riesce a malapena ad emettere un suono prima di crollare a terra. Mentre lo Sparrow Hospital e il St. Lawrence Hospital di Lansing vengono allertati e aspettano i primi feriti, Andrew osserva tutto con aria soddisfatta. Si guarda attorno, cerca una persona in particolare, eccola, è il sovrintendente alla gestione dei fondi scolastici Emory Huyck. Kehoe lo chiama, vuole che lo raggiunga alla macchina, è lui il principale responsabile dell’aumento delle tasse per i proprietari terrieri, è lui che Kehoe ritiene responsabile per la sua vita andata a rotoli. Huyck, un po’ distratto e un po’ incuriosito si avvicina al Pickup, non vede cosa Kehoe ha in mano, non fino a quando è a pochi centimetri dal finestrino. Il fucile Winchester calibro 30 acquistato nel dicembre 1926 e puntato in direzione del sedile posteriore fa fuoco: la Dinamite nella cassa, sensibilissima al calore quanto agli urti, esplode trasformando il Ford Model T Pickup Truck in un’autobomba. Kehoe, Huyck e due soccorritori vengono fatti a pezzi, gli arti vengono strappati, i crani esplodono e mentre ciò che rimane è proiettato a 18 metri di distanza, il motore viene scagliato come un proiettile nella direzione opposta, verso la scuola. Il piccolo motore da quattro cilindri in linea da 2,9 litri che si avvicina a gran velocità è l’ultima cosa che il piccolo Cleo Claton vede prima di essere schiacciato. Ha 8 anni. Di lui resterà ben poco, mentre una nube di schegge di metallo si allarga a raggiera crivellando, ferendo, squartando. È un massacro, un altro. Una madre tiene in braccio il figlio senza vita mentre a terra un vigile del fuoco cerca la sua gamba. Ma immediatamente qualcuno grida, tutto si ferma, dei fili intrecciati spuntano dai detriti: è il resto dell’esplosivo, ancora collegato ai timer, occultato nelle fondazioni dell’ala sud dell'edificio. I cablaggi sono stati danneggiati dalla prima esplosione che ha interrotto il flusso di corrente dalle batterie ai detonatori. Se le travi non avessero trascinato, collassando, parte dei collegamenti elettrici, i morti non si sarebbero fermati a 45 e i feriti a 58. Ma una pagina nera nella storia americana è stata comunque scritta. Andrew P. Kehoe, nella sua lucida follia, ha voluto vendicarsi con una strage di innocenti. Vedendo il suo mondo sgretolarsi attorno ha voluto lasciarlo con un gesto senza precedenti, quello che sarebbe stato ricordato negli anni a venire come il primo massacro scolastico della storia.

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01 maggio, 2022

Isola delle Femmine, Autostrada A29, 23 maggio 1992


TIPOLOGIA: attentato
CAUSE: mina sotterranea
DATA:
23 maggio 1992
STATO: Italia
LUOGO: Isola delle Femmine, Autostrada A29
MORTI:
5
FERITI:
23

Analisi e ricostruzione a cura di Luigi Sistu

È il 1992, è il 23 maggio, Antonino Gioè è appostato con Giovanni Brusca sulle colline sopra Capaci, a 400 metri di distanza dall’autostrada. Dietro di loro, a qualche decina di metri ci sono Giovanni Battaglia, Antonino Troia e Salvatore Biondino, in silenzio. Da questo punto di osservazione sopraelevato aspettano il passaggio di un convoglio di auto blindate, aspettano il Giudice Giovanni Falcone, il loro obiettivo numero uno. Procuratore della Repubblica di Marsala, in città dal 1978 inizialmente impiegato all'Ufficio Istruzione sotto la guida del Giudice Rocco Chinnici, ucciso sotto casa assieme a parte della scorta con un’autobomba il 29 luglio 1983, ha lavorato assieme ai Giudici Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello, Leonardo Guarnotta, Ignazio De Francisci, Gioacchino Natoli e Giacomo Conte, costituenti un pool antimafia sviluppato e reso operativo dal Sostituto Procuratore Generale di Firenze Antonino Caponnetto che confermava la linea inaugurata da Chinnici di centralizzare le indagini sul fenomeno mafioso al fine di favorire la circolazione e la condivisione delle informazioni emerse e, quindi, di avere un quadro globale sul fenomeno e le sue dinamiche criminali. Questo stabile gruppo di giudici istruttori destinati esclusivamente a occuparsi di processi di mafia, concentrandosi sui membri dell’organizzazione di Cosa Nostra, dai meno potenti ai più influenti, ha creato e sta continuando a crearle non pochi problemi tanto da mobilitare le “Commissioni” e farle riunire per decidere se e come affrontare il problema. Reggente del mandamento di San Giuseppe Jato, con alle spalle la bomba di via Federico Giuseppe Pipitone, a Palermo, dove aveva fatto saltare in aria proprio il Giudice Rocco Chinnici e parte della sua scorta, Brusca è stato scelto dalla Commissione Regionale, il massimo organo decisionale dell’organizzazione mafiosa, come coordinatore di questa operazione. La sua responsabilità è altissima, è teso, fuma una sigaretta dietro l’altra. A terra ci sono cinque pacchetti di Merit e due di Malboro, l’attesa è snervante, guarda in maniera compulsiva la strada e il radiocomando che sta stringendo tra le mani mentre rivolge qualche parola a Gioè che non stacca l’occhio dal cannocchiale. Gioè invece è il capo della Famiglia di Altofonte, nel mandamento di San Giuseppe Jato, anche lui un nome importante in Sicilia. In piedi, sotto un sole caldo in questo spiazzo di Montagna Raffo Rosso, sono concentrati, nervosi, il piano è stato preparato con una perizia maniacale e a questo punto nessuno sbaglio è tollerato. Ricevuto l’ordine direttamente dai vertici di Cosa Nostra di trovare un posto adatto allo scopo, i primi sopralluoghi erano iniziati alla fine di marzo. Salvatore Biondino, Raffaele Ganci e Salvatore Cancemi, rispettivamente capi dei "mandamenti" di San Lorenzo, Della Noce e Porta Nuova, li avevano fatti seguendo una buona parte di Autostrada A29, la via più veloce che collega i 35 chilometri che separano l’aeroporto di Palermo-Punta Raisi alla città, restringendo il campo alla zona di Capaci, una zona aperta, con ampia visuale anche da lunga distanza. Associazione criminale di tipo mafioso Cosa Nostra è nata in Sicilia nel 19° secolo e si è sviluppata esponenzialmente dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Strutturata gerarchicamente, nota in tutto il mondo per gli attentati, gli omicidi esemplari e la violenza diretta contro lo Stato italiano con l’eliminazione di uomini politici, poliziotti e magistrati, mantiene il controllo su numerose attività economiche e politiche regionali ed extraregionali per mezzo di reti di fiancheggiatori e dell’inserimento di propri capitali nel settore dei pubblici appalti, della sanità e del turismo, penetrando perfino nei settori della grande distribuzione alimentare, dei mercati ortofrutticoli, nelle attività edili e in quelle di tipo economico-finanziario. L’Organizzazione è divisa in “Famiglie”, ciascuna con un capo, il “rappresentante”, eletto da tutti gli “uomini d’onore” e assistito da un vice-capo e uno o più consiglieri. Tre Famiglie, ognuna organizzata in "'decine" composte da dieci uomini d'onore, i "soldati", coordinati da un "capodecina", costituiscono un "mandamento", la zona di influenza, gestito dal “capo mandamento” anch'esso eletto e che fa parte della "Commissione Provinciale", il massimo organismo dirigente di Cosa Nostra nella provincia, organismo che prende le decisioni più importanti, risolve i contrasti tra le famiglie, espelle gli uomini inaffidabili, controlla tutti gli omicidi, inferiore in quanto a potere soltanto a quella "Regionale". Corruzione e riciclaggio sono il volano che ha permesso a Cosa Nostra di radicarsi, anno dopo anno, sempre di più nel territorio accrescendo il proprio potere in maniera spropositata. Il lavoro dei tre capi-mandamento aveva richiesto due mesi interi e nell’epoca del “pentitismo” iniziata con le rivelazioni date da Tommaso Buscetta, uno dei primi mafiosi a cominciare a collaborare con la giustizia durante le inchieste coordinate proprio da Giovanni Falcone che avevano permesso, per la prima volta, una dettagliata ricostruzione giudiziaria dell'organizzazione e della struttura della criminalità siciliana dando inizio al declino del potere mafioso, la sentenza di Cassazione che confermava gli ergastoli nel Maxiprocesso per crimini di mafia del 30 gennaio con 360 condanne per complessivi 2.665 anni di carcere e undici miliardi e mezzo di lire di multe da pagare, segnando un grande successo per il lavoro svolto da tutto il pool antimafia, aveva messo in moto una macchina, ormai impossibile da fermare. Progettata dai vertici della Commissione Regionale che aveva riunito i leader delle province di Palermo, Trapani, Agrigento, Caltanissetta ed Enna, incontratisi tra settembre e dicembre dell’anno scorso per diverse settimane in un casolare della provincia di Enna, presieduti da Salvatore Riina, il 72enne capo del mandamento di Corleone e supercapo di Cosa Nostra, avevano discusso una strategia di destabilizzazione politica che si sarebbe snodata con l’omicidio di uomini politici e con attentati dinamitardi, un complesso piano di destabilizzazione politica da attuarsi con eventi cruenti che avrebbero dovuto dare una spallata al vecchio sistema politico che non offriva più protezione. Questa era effettivamente iniziata dopo il definitivo unanime benestare dei membri della Commissione Regionale e Provinciale in due riunione distinte svolte nella villetta palermitana di via Margi Faraci di Girolamo Guddo, uomo di spicco delle famiglie palermitane, mafioso di Altarello di Baida e cugino del boss Salvatore Cancemi. Con la prima che aveva visto partecipare i nomi di spicco dell’organizzazione, Salvatore Riina, Matteo Motisi, Giuseppe Farinella, Giuseppe Graviano, Carlo Greco, Pietro Aglieri, Michelangelo La Barbera, Salvatore Cancemi, Giovanni Brusca, Raffaele Ganci, Antonino Giuffrè, Giuseppe Montalto e Salvatore Madonia, e con la seconda che aveva riunito Riina, Biondino Ganci, Brusca, La Barbera e Cancemi, la mattanza era iniziata la mattina del 12 marzo a Palermo con l’omicidio dell’onorevole Salvo Lima, il più potente politico siciliano leader della Democrazia Cristiana nell’isola, ucciso perché non era riuscito a impedire le tante condanne inflitte ai mafiosi al termine del più grande processo penale mai svolto in Italia. Per il Giudice Falcone il Punto Zero era stato scelto valutando con cura ogni dettaglio e Brusca, Biondino e Pietro Rampulla, capomafia della Famiglia di Mistretta, nel messinese, legato in particolare al boss considerato uno tra i più potenti e sanguinari di Cosa Nostra Benedetto Santapaola, lo avevano ispezionato e proposto in una riunione tre mesi fa nei pressi di Castelvetrano, incontro in cui le Commissioni Regionale e Provinciale presiedute da Salvatore Riina, avevano discusso su come affrontare il problema, una questione d’urgenza dove Riina si era già espresso durante un ulteriore incontro ad inizio febbraio con Raffaele Ganci, Salvatore Cangemi, Salvatore Biondino e Gioacchino La Barbera, capo del mandamento di Passo di Rigano-Boccadifalco. E dopo la frase “Falcone sta facendo più danni a Roma che a Palermo” pronunciata dal capo della Commissione Regionale che Matteo Messina Denaro, ombra di Riina, capo del mandamento di Castelvetrano e rappresentante indiscusso della mafia della provincia di Trapani, Vincenzo Sinacori, il suo braccio destro e uomo di spicco del trapanese, Mariano Agate, capo del mandamento di Mazzara Del Vallo, Bernardo Provenzano, sostituto capo del mandamento di Corleone, Salvatore Biondino e i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, capi del mandamento di Brancaccio-Ciaculli, non avevano avuto più dubbi: il Giudice doveva morire, avrebbe dovuto farlo al più presto, in maniera plateale ma soprattutto, in Sicilia, sul territorio di Cosa Nostra, nonostante questo avrebbe richiesto molte più risorse e un coefficiente di difficoltà maggiore nella realizzazione. Essendo stato nominato a Roma Direttore Generale degli Affari Penali, nonostante il Giudice nella Capitale trascorra la vita di un uomo normale, senza una scorta e coi protocolli di sicurezza ridotti al minimo, ciò non aveva fatto cambiare idea alla Commissione sul da farsi. L’attentato sarebbe dovuto essere fatto in un luogo per cui non ci fossero dubbi che a colpirlo fosse stata la Mafia. Con quella carica al Ministero della Giustizia, Falcone si era fatto promotore dell'istituzione della Procura Nazionale Antimafia, la cosiddetta Superprocura, la direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, che avrebbe consentito di realizzare un potere di contrasto alle organizzazioni mafiose sin lì impensabile. L’omicidio, pianificato sì per vendetta, sì per la conferma degli ergastoli della Cassazione, avrebbe avuto anche un terzo aspetto, fondamentale, quello preventivo. Poiché egli, da magistrato al servizio dello Stato e della Politica, ispirando questa sulla giustizia e sulla lotta alla Mafia, sta ponendo dei paletti che stanno creando dei problemi alla criminalità organizzata legata al mondo della politica e della finanza, danni che sarebbero aumentati esponenzialmente se gli fosse stata data la possibilità di continuare a coltivare i rapporti diventati intimi con la politica in grado di indirizzare quella legislativa verso il contrasto alla criminalità mafiosa e ai suoi grandi interessi con la centralizzazione delle indagini. Con un ulteriore incontro, sempre nella a casa di Girolamo Guddo, alla presenza di Riina, Cancemi, Biondino, Brusca, Rampulla e Raffaele Ganci, erano stati organizzati i due gruppi “di fuoco” responsabili della gestione delle operazioni, sia logistiche che organizzative, dove Salvatore Biondino avrebbe costituito il punto di raccordo: quello di Palermo composto da Raffaele Ganci, i due figli Domenico e Calogero, Cancemi, Giovan Battista Ferrante, uomo d'onore della famiglia di San Lorenzo, il nipote Antonino Galliano, Gioacchino La Barbera; e quello di Capaci costituito da Brusca, Mario Santo Di Matteo, detto Mezzanasca, della famiglia di Altofonte, del mandamento di Porta Nuova-San Giuseppe Jato, Gioè, Rampulla, Antonino Troia e Giovanni Battaglia, della Famiglia di Capaci, Leoluca Bagarella, del mandamento di Corleone, fratello di Ninetta, la moglie di Riina, e Ferrante, Salvatore Biondo e Giuseppe Graviano, del mandamento di Brancaccio-San Lorenzo. La zona dell’autostrada esaminata era risultata perfetta, questo perché il giudice Giovanni Falcone, lavorando negli uffici di Roma era diventato abitudinario e tutti i fine settimana, rientrando in Sicilia nel suo domicilio a Palermo, passa proprio da lì, da quella strada lunga 115 chilometri priva di corsia di emergenza che collega il capoluogo della Regione Siciliana con Mazzara del Vallo. La sua abitudine coi mesi era diventata la sua debolezza, debolezza che qualcuno aveva notato. A controllare i suoi movimenti ci avevano pensato, mese dopo mese, Raffaele Ganci e i suoi tre figli, Stefano, Domenico e Calogero, dalla loro macelleria in via Francesco Lo Jacono, un ottimo punto di osservazione a pochi passi dalla casa del Giudice che aveva consentito di monitorare ogni spostamento. Giorno dopo giorno avevano visionato le partenze e gli arrivi dell’autista giudiziario con la macchina blindata, così come avevano tenuto d’occhio i movimenti degli uomini che lo proteggono, uno per uno, memorizzandone sia i punti di forza che le debolezze. Per il modo in cui è costantemente protetto, per il numero di uomini al seguito, per la robustezza delle auto e il metodo di guida del convoglio, le staffette, la velocità fuori e dentro il centro abitato, su come affrontare il problema non era rimasto che un modo: una bomba, una gigantesca bomba sotto la strada. Una tecnica brevettata, se così si può dire, da una squadra di separatisti dell’organizzazione indipendentista spagnola ETA il 20 dicembre 1973 a Madrid, dove la Dodge 3700 GT nera blindata del 1971, modello di lusso, blindato, con a bordo José Luis Pérez Mojena, l’autista del Ministero, Juan Bueno Fernández, Ispettore di polizia, entrambi seduti nei sedili anteriori, e Luis Carrero Blanco, Primo Ministro spagnolo, era stata fatta saltare letteralmente in aria da un mina scavata sotto la carreggiata della via Claudio Coello che conteneva una carica di 191 chilogrammi di esplosivo per uso civile attivata elettricamente a distanza. L’auto, pesante 1.738 chilogrammi, era stata scaraventata in aria per un’altezza di 35 metri raggiungendo il tetto di un convento, scavalcandolo e rovinandosi nella corte interna sulla terrazza del secondo piano stritolando gli occupanti tra le lamiere. Pietro Rampulla, soprannominato “l’artificiere” per la sua esperienza con gli esplosivi, era stato convocato su esplicita richiesta di Giovanni Brusca, richiesta approvata da Riina che si era preso del tempo per valutare se fosse saggio inserire un “esterno” in un evento di tale importanza, in una delle tante riunioni tenutesi alla villa della contrada Rebuttone di proprietà di Mario Santo Di Matteo, ad Altofonte, luogo di incontro e riunione degli appartenenti alla sua famiglia, dove avevano partecipato anche lo stesso Brusca e Gioè assieme a Gioacchino La Barbera, Di Matteo e Bagarella. Rampulla, che non è nuovo a questo genere di “incarichi”, addestrato dai Servizi deviati italiani nella manipolazione e utilizzo di materiali esplosivi per disposizione del Generale Luigi Ramponi, direttore del servizio segreto Sismi, il Servizio Informazioni e Sicurezza Militare nato nel 1977, è infatti un ex militante di Ordine Nuovo. Associazione segreta neofascista di natura terroristica, Ordine Nero era nata nel 1974 in seguito alla crisi della più vecchia Avanguardia Nazionale, organizzazione neofascista e golpista fondata il 25 aprile 1960 dal politico Stefano Delle Chiaie, e dallo scioglimento a novembre del ‘73 di Ordine Nuovo, un altro movimento neofascista falange extraparlamentare di estrema destra guidato dal politico Clemente Graziani nato nel dicembre del 1969, poco prima della strage alla Banca Nazionale Dell'Agricoltura di Milano del 12 dicembre, da parte di alcuni militanti dell’associazione politico-culturale di estrema destra Centro Studi Ordine Nuovo, creata questa nel 1956 dal politico esponente del Movimento Sociale Italiano Pino Rauti. In quanto alla scelta dell’esplosivo, istruiti da un esperto del suo calibro i “tecnici” di Cosa Nostra avevano deciso di utilizzare ogni aggancio possibile, perfino quello coi gestori della cava di sabbia INCO di Roccamena-Camporeale, nel territorio di Roccamena, nel Belice, di proprietà di Giuseppe Modesto, un imprenditore molto vicino a Brusca. Cava vuol dire ampia disponibilità di esplosivo e Giuseppe Agrigento, persona molto vicina a Brusca nonché capofamiglia di San Cipirello, era stato incaricato di recuperarne una discreta quantità che sarebbe andata a costituire una parte di una carica esplosiva più grossa appositamente progettata per l’”attentatuni”, il grande attentato. Della seconda parte se ne era occupata invece la Famiglia di Brancaccio, con Cosimo Lo Nigro, Giuseppe Barranca e Giuseppe Graviano. Quest’ultimo, il capo della Famiglia, aveva scomodato Cosimo d’Amato, pescatore di Porticello e cugino proprio del boss palermitano Lo Nigro, che per il recupero dell’esplosivo era solito attingere da una vecchia nave colata a picco durante la Seconda Guerra Mondiale e adagiata sul fondale col suo carico intatto nella stiva. Oggetto dei desideri proibiti per numerosissimi appassionati di immersioni e per coloro i quali operano nel settore del turismo subacqueo, questa nave non è solo un’oasi di vita colorata e ricca, spunto per riprese video mozzafiato facilmente raggiungibile dalla costa, ma è anche una gigantesca “Santa Barbara” a disposizione dei clan. Varata il 3 gennaio del 1923 per la Cosulich Società Triestina di Navigazione insieme ai gemelli Ida, Alberta, Clara, Teresa e Lucia, la Laura C. era impiegata assieme a loro sulle linee dell’America Settentrionale. La nave, un piroscafo da carico di 122 metri di lunghezza, 17 di larghezza e 20 mila tonnellate di stazza, era stata confiscata per le sue peculiarità il 29 ottobre 1940 a Trieste dalla Regia Marina per i propri scopi legati al conflitto bellico in corso. Partita da Venezia il 28 giugno 1941 con destinazione Tripoli stivava rifornimenti per le forze dell’Asse operanti in Nordafrica costituenti, oltre un carico di 5.773 tonnellate di materiali tra cui medicinali, scorte alimentari, biciclette, vestiario, macchine da cucire, cavi per linee telefoniche e parti di ricambio per automezzi, anche armi, munizioni e 1.200 tonnellate di esplosivo. Sistemato nella terza stiva poppiera e costituito da casse contenenti panetti del peso di 200 grammi l’uno, si tratta del Trinitrotoluene, un esplosivo preparato la prima volta nel 1863 dal chimico tedesco Julius Wilbrand, perfezionato dal chimico tedesco Hermann Frantz Moritz Kopp nel 1888 e prodotto industrialmente in Germania un anno dopo col nome di Tritolo o Tnt. Mentre navigava in convoglio con altri due piroscafi e scortata da un incrociatore e una torpediniera era stata avvistata da un sommergibile britannico Upholder che presso Capo dell’Armi, in Calabria, le aveva lanciato contro tre siluri che avevano fermato i motori, bloccato il timone e allagato le stive. L’equipaggio, deciso a fare incagliare la nave in costa trascinata da due rimorchiatori alla foce della fiumara di Molaro, sulla spiaggia di Saline Ioniche, per salvare la nave o almeno il suo carico, non aveva fatto caso alla configurazione del fondale, molto scosceso, che aveva fatto sì che la Laura C., nel giro di poco più di sette ore scivolasse all’indietro affondando senza spezzarsi alla profondità di 50 metri e a 100 metri dalla spiaggia. Negli anni, mentre parte delle vettovaglie che facevano parte del carico, finite a riva, erano diventate una insperata risorsa per la popolazione locale affamata dai razionamenti imposti dalla guerra, l’esplosivo è stato abbondantemente prelevato dai sub della ‘Ndrangheta calabrese, della Cosa Nostra siciliana, della Camorra campana e della Sacra Corona Unita pugliese con l’obiettivo di confezionare bombe per la loro personale strategia della tensione. A recuperare la trasmittente c’aveva pensato Rampulla, ne aveva recuperato due, presi in coppia nell’eventualità uno avesse presentato problemi in fase di collaudo. Li aveva portati due giorni dopo la riunione in cui era stato presentato agli altri, nello stesso posto, la casa un po’ fuori dall’abitato di proprietà di Mario Santo Di Matteo, ad Altofonte, in contrada Rebuttone, e consegnati nelle mani degli stessi ma con in più Biondo e Biondino che li avevano presi dal camioncino con cui era arrivato, usato per il trasporto di un cavallo e nascosti sotto la paglia in una scatola di polistirolo. Ognuna non era altro che un radiocomando di quelli generalmente usati per manovrare gli aeromodelli, un GIG NIKKO “r/c systems full function” modello del 1990, quindi facilmente reperibile in un qualsiasi negozio di giocattoli, dotato di antenna telescopica in metallo e munito della doppia leva ognuna con due gradi di libertà, su-giù e sinistra-destra, dove era stata bloccata, sigillandola col nastro isolante, la prima. Tale decisione era frutto di mera precauzione poichè gli operatori volevano essere sicuri che nel momento dell’azione non ci potesse essere occasione di sbagliare leva spingendo quella delle due non collegata con la ricevente inserita nella carica. La stessa diligenza li aveva spinti, sempre al fine di garantirsi con un margine ancora più ampio la sicura realizzazione dell’effetto esplosivo, a sigillare anche in una direzione la leva che avrebbe collegato la trasmittente alla ricevente adoperata per evitare che nel momento topico chi doveva premere la levetta potesse sbagliare la direzione in cui si doveva muovere. Si era avuto cura di fare in modo che chi doveva inviare il segnale non avesse alternativa nello scegliere la direzione e fosse quindi costretto a muoversi solo in quella giusta, verso destra, l’unica idonea ad attivare la carica. Per quanto riguarda la ricevente, era stata interamente fatta a mano riciclando dei ricambi per il modellismo dinamico e quindi anch’essi comprati in vari negozi del settore. Così come il radiocomando, non era altro che la versione moderna di quella utilizzata per l’attentato al Giudice Rocco Chinnici, Direttore dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, ucciso facendo saltare in aria una Fiat 126 verde oliva del 1977 mentre stava per salire a bordo dell’Alfetta 2000 blindata che lo attendeva con lo sportello aperto davanti allo stabile in cui viveva per accompagnarlo al Palazzo di Giustizia. Avvitando assieme dei pannelli molto sottili di legno compensato avevano costruito una scatola delle dimensioni di 20 centimetri di lunghezza, 15 di altezza e 10 di profondità nella quale era stato imbullonato un motorino elettrico, quello classico per la movimentazione dello sterzo delle automobili, attivato a distanza tramite la sua piccola antenna di plastica flessibile fatta fuoriuscire dall’involucro attraverso un foro creato ad hoc. Alimentato da una serie di batterie da 1,5 Volt, al momento dell’attivazione avrebbe mosso un chiodo che ruotato di 45 gradi sarebbe andato ad urtare due lamelle metalliche mettendole in comunicazione e chiudendo un circuito separato dove un’altra serie di batterie, stavolta un modello piatto da 4,5 Volt con strisce metalliche come terminali, avrebbero dato corrente al cavo della linea di tiro a cui all’estremità opposta sarebbe stato fissato il detonatore. Per la predisposizione del congegno, anche se amatoriale e moderatamente complesso, non erano state necessarie particolari capacità tecniche, era stata sufficiente una media cultura elettronica ed elettrotecnica. A testarlo, verificandone empiricamente l’efficienza in veranda nei primi giorni di maggio, ci aveva pensato Brusca. Per constatare se l’impulso radio trasmigrava dalla trasmittente alla ricevente, posto che non era pensabile aspettare di fare la verifica con la carica composta, erano state usate delle lampadine flash monouso acquistate personalmente da La Barbera. La prova era consistita nell’applicare la lampadina al filo che usciva dalla ricevente, lo stesso che poi sarebbe stato collegato alla linea di tiro e quindi al detonatore, pertanto era volta a verificare l’effettività della trasmissione del segnale e a saggiare anche le possibilità che il sistema così costruito andasse incontro ad interferenze di altre onde vaganti nell’etere. Poiché nessun espediente poteva escludere tale evenienza, la soluzione adottata sarebbe stata quella di provvedere all’attivazione del congegno solo nell’imminenza dell’arrivo del corteo delle blindate. Avuta la conferma che trasmittente e ricevente fossero efficienti, i successivi test erano stati con l’esplosivo vero e proprio, due per provare che l’impulso fosse sufficiente ad alimentare l’intero circuito ed accendere il detonatore, uno per provare che questo innescasse una carica con le successive valutazioni degli effetti. Brusca, Gioè e Bagarella, dopo aver constatato che i detonatori si erano armati e che la corrente non trovava intoppo nel circuito, si erano fatti dare da Salvatore Biondino 5 chilogrammi di Tritolo, li avevano intasati in un tubo di plastica, lo avevano adagiato sul fondo di una fossa scavata preventivamente da La Barbera con una terna, l’avevano riempita prima con 4 metri cubi di cemento, poi con la terra, e avevano aspettato che Rampulla, sempre presente quando si doveva maneggiare l’esplosivo, desse corrente dalla collinetta non lontano dall’abitazione. L’esplosione era stata potente, il terreno si era sollevato creando una grossa voragine ma per sventrare una carreggiata la carica da assemblare sarebbe dovuta essere di dimensioni considerevoli e cosa più importante, posizionata in un punto dove l’esplosione avrebbe massimizzato gli effetti. Lo studio della carica era iniziato quasi da subito, da quando la Commissione aveva dato il via libera alle operazioni. La mattina del 12 marzo, alle ore 10:30, Giuseppe Agrigento si era allontanato abusivamente dal suo posto di lavoro, il mattatoio di Altofonte, e aveva portato con la sua Fiat Tipo bianca nella casa di contrada Rebuttone, dove lo aspettava Di Matteo su incarico di Brusca, quattro sacchi di cartone chiusi artigianalmente con dei lacci che contenevano ciascuno 40 chilogrammi di Nitrato d’Ammonio del tipo Prilled, in sfere porose da 1-2 millimetri di diametro. Proveniva da un suo parente, Franco Piedescalzi, che lavora alla INCO di Roccamena-Camporeale da cui la sua famiglia mafiosa si era in passato rifornita per approvvigionarsi per altri attentati. Di produzione francese Atochem ELF Aquitanie e utilizzato, oltre che alla INCO anche nelle cave di Buttitta di Altofonte, Bagherìa, Trabìa e Modesto, è un fertilizzante preparato la prima volta dal chimico e farmacista tedesco Rudolph Glauber nel 1659 che lo aveva chiamato “nitrum flammans” per via del colore giallo della sua fiamma, e scoperto come prodotto esplodente dal chimico e ingegnere svedese Alfred Nobel nel 1870. Immediatamente dopo erano arrivati anche altri quattro sacchi in juta sintetica, ognuno pesante 50 chilogrammi, chiuso con cucitura industriale e contenente EurANFO ’77. Trasportato stavolta da Gioè, per uso estrattivo e prodotto dalla Società SEI di Ghedi, in provincia di Brescia, è un ANFO. Nome che sta per “Ammonium Nitrate Fuel Oil” è una miscela composta per il 94% in peso di Nitrato d’Ammonio, olio pesante per il 6% e additivi. Esplosivo di grande sicurezza scoperto nel 1950, è uno dei preferiti dall’ETA spagnola e dagli estremisti libici e palestinesi, questo grazie alla sua bassissima sensibilità, il bassissimo costo e la sua enorme potenza. Non potendo restare in quei sacchi poiché fortemente igroscopico, ovvero capace di assorbire le molecole d’acqua nell’ambiente circostante che ne avrebbero compromesso l’efficacia, alla presenza di Ganci, Cancemi, Bagarella, La Barbera, Biondino, Troia, Rampulla e Gioè, il Nitrato d’Ammonio era stato travasato da Brusca, Di Matteo e Agrigento in due bidoni, uno della capacità di 100 litri e uno da 50, di plastica, di colore bianco, coi manici e con tappo a vite procurati da La Barbera due giorni prima su incarico di Brusca. Dopo il travaso sia i bidoni che i sacchi erano rimasti lì per due mesi, nel magazzino della casa, dopodiché erano stati caricati da La Barbera sul suo fuoristrada Nissan Patrol assieme a Gioé e Di Matteo per essere portati provvisoriamente in una casa di proprietà di un certo Pietro Romeo, uomo d’onore della famiglia di Altofonte, dove li aspettavano Bagarella, Brusca e Rampulla. Era seguito quindi un nuovo spostamento, nel pomeriggio del 3 maggio, poco dopo le 16,00, con destinazione la casa di proprietà di Antonino Troia, a Capaci, in via Bonomo a soli 300 metri dal punto in cui sarebbe stato colpito l’obiettivo, a bordo di tre automobili, Brusca e Rampulla su una Lancia Y10, Di Matteo e La Barbera coi bidoni a bordo del Patrol e Bagarella e Gioé nella Renault Clio della sorella di quest’ultimo con la ricevente, la trasmittente e i detonatori elettrici. Avvolti in un foglio di giornale e provenienti anch’essi dalla cava INCO, sono degli artifizi esplosivi primari versione moderne di quello elettrico inventato nel 1876 da Julius Smith. All’interno dell’involucro d’alluminio contengono una piccola quantità di esplosivo secondario, la Pentrite, uno degli esplosivi più potenti preparata per la prima volta nel 1891 dal chimico tedesco Bernhard Tollens, innescata a sua volta da pochissimo esplosivo primario, l’Azoturo di Piombo, preparato dalla Curtis's and Harvey Ltd Explosives Factory nel 1890, e da una miscela incendiaria che lo avrebbe acceso tramite un ponticello diventato incandescente dal passaggio di una corrente elettrica generata dalla ricevente. In quella villetta di campagna, accanto al pollaio, al recinto con un cavallo e alla stalla coi due vitelli, il 5 maggio si era compiuto l’assemblaggio finale delle varie tipologie di esplosivo così da poter comporre la carica con cui sarebbe stata riempita la mina sotto l’autostrada. Sul posto, ad aspettare i 140 chilogrammi di Nitrato d’Ammonio e i 200 chilogrammi di ANFO c’erano 100 chilogrammi di Trinitrotoluene prelevati dal piroscafo da carico Laura C. e 20 chilogrammi di Composizione B provenienti da una residuato bellico della Seconda Guerra Mondiale rimasto impigliato nella rete di un peschereccio, evento non proprio isolato considerato che ogni anno il mare e il suolo italiano continuano a farne affiorare decine ogni anno, la maggior parte delle quali armate e potenzialmente letali. Riusciti a portare sul ponte la carcassa semidistrutta dell’ogiva di una bomba aeronautica a caduta libera americana “per uso generico, a media capacità” da 227 chilogrammi, gli uomini a bordo erano riusciti ad aprire il corpo lungo 104,2 centimetri e con un diametro di 32,8 ed asportarne il contenuto rimasto, poco rispetto ai 100,7 chilogrammi in dotazione, ma comunque in buone condizioni e ancora operativo. Conosciuta anche col nome italiano di Tritolite, creata e sviluppata agli inizi della Seconda Guerra Mondiale dai laboratori di ricerca americani, la Composizione B è composta da una percentuale di 59,5% di RDX, 39,5% di Tritolo e un 1% di cera sintetica di paraffina. L’RDX, formalmente chiamato Ciclotrimetilenetrinitramina, ha caratteristiche eccezionali ed è stato scoperto e brevettato dal chimico e farmacista tedesco Georg Friedrich Henning nel 1898. È stato codificato con questo nome prima dall’esercito inglese come Royal Demolition eXplosive e poi prodotto in larga scala dagli Stati Uniti nel 1920 come “RD” Research and Development, ricerca e sviluppo, sigla comune a tutti i nuovi prodotti per la ricerca militare, e "X", la classificazione, nata come lettera provvisoria ma rimasta definitiva. Il Tritolo “giunto dal mare” arrivava da un vecchio casolare di proprietà della zia di Gaspare Spatuzza, un affiliato della famiglia di Brancaccio guidata dai Graviano, proprio accanto alla proprietà della madre e solitamente usato come deposito, in cui era rimasto nascosto per settimane. Recuperato al porto dopo essere arrivato in banchina all’interno di fusti cilindrici delle dimensioni di un metro per 50 centimetri di diametro legati con delle funi alle paratie del peschereccio di Cosimo d’Amato, era stato trasportato, nascosto sotto delle reti da pesca nel cassone dell’Ape Piaggio di Cosimo Lo Nigro da Spatuzza, in un capannone al civico 1419/D di Corso dei Mille, a Palermo, luogo sotto l’influenza della famiglia di Roccella capeggiata da Antonino Mangano, una delle quattro famiglie componenti il mandamento di Brancaccio. Lì i bidoni erano stati in stallo mezza giornata prima di essere trasferiti da Cristofaro Cannella, detto Fifetto, uomo d’onore del trapanese, a bordo della sua Wolkswagen Golf nera scortato da Spatuzza in un altro deposito, questa volta nella zona industriale di Brancaccio e di proprietà della VaL. TRANS., ditta di trasporti dove Spatuzza è attualmente impiegato, per essere svuotati del contenuto pronto ad essere deconfezionato per poi essere portato al casolare di Capaci da Giuseppe Graviano. La Composizione B arrivava invece da un deposito clandestino di Misilmeri gestito da un certo Pieruccio Lo Bianco, che prima di darlo a Biondino affinchè lo consegnasse al casolare lo aveva tenuto in un armadio dopo che un peschereccio trapanese, la “Stella Maris”, lo aveva portato sulla terraferma. Il Tritolo e la Composizione B, chiusi prima in federe di cuscini e poi in sacchi neri della spazzatura, provvisoriamente nascosti in un angolo del piazzale occultato sotto del materiale inerte scarto della lavorazione delle cave, e coperti da teloni, erano stati successivamente prelevati e riportati nel rudere della zia di Spatuzza per essere lavorati e stoccati. Entrambi solidificati per l’azione di acqua e umidità, di varia pezzatura, da pochi centimetri ad alcune decine, di colore giallo chiaro il primo, leggermente più scuro il secondo, Cosimo Lo Nigro, Fifetto Cannella e Giuseppe Barranca si erano occupati della loro lavorazione scaricandoli su di un tavolo poco alla volta, asciugandoli, sbriciolandoli artigianalmente schiacciando le scaglie di uno e i grani dell’altro con un mazzuolo in un contenitore di plastica poi setacciandoli con uno scolapasta, fasi ripetute più volte fino ad ottenere una grana asciutta e finissima pronta ad essere ricompattata che era stata successivamente pressata con forza e riconfezionata in buste di plastica chiuse con nastro isolante. Per l’assemblaggio finale erano stati fatti due gruppi di lavoro: Brusca, La Barbera, Gioè e Di Matteo, diretti da Rampulla in virtù della sua peculiare esperienza, lavorando all’esterno sotto la veranda 5 metri per 4 coperta e chiusa lateralmente da un telone che Battaglia aveva messo per escludere occhi indiscreti da parte del vicinato, si erano occupati dell’ANFO e del Nitrato d’Ammonio; Troia, Battaglia, Ferrante, Biondo e Domenico Ganci, diretti da Biondino, lavorando all’interno, nel salotto-cucina, avevano pensato al Tritolo e alla Composizione B. Durante le operazioni, con l’ausilio di guanti da chirurgo e palette avevano effettuato il travaso del contenuto dai sacchi a dei bidoni preventivamente puliti in modo da non lasciare impronte, facendo attenzione a pressare con maniacale cura il materiale all’interno così da poter utilizzare lo spazio nella sua interezza. Inizialmente l’idea era quella di fabbricare artigianalmente l’Amatolo, una miscela esplosiva creata durante la Prima Guerra Mondiale dalle forze armate britanniche, costituita da Nitrato d’Ammonio e Tritolo, sviluppato e utilizzato largamente nella Seconda Guerra Mondiale come riempimento delle bombe aeronautiche. Essendo un composto variabile e con effetti diversi a seconda delle proporzioni degli ingredienti, 60/40, 50/50, 80/20, sia perché i “tecnici” non erano pratici nella miscelazione, sia perché le operazioni si sarebbero protratte troppo a lungo con la possibilità di attirare curiosi, la sua fabbricazione era stata interrotta dopo mezz’ora optando per l’utilizzo delle basi al naturale. L’attività di travaso, durata quasi due ore, dopo aver quindi visto abbandonare l’originario tentativo di miscelare i diversi tipi di esplosivo di cui avevano disponibilità al fine di ottenerne uno più potente, era proseguita col riempimento dei bidoncini ma ciascuno con un tipo di esplosivo diverso, confidando nell’innesco degli elementi più “lenti” come il Nitrato d’Ammonio disponendoli dopo quelli più “veloci” come il Tritolo. Finite le operazioni la carica era lì, completa e terribile: 480 chilogrammi di miscela detonante ad altissimo potenziale confezionata in 13 fusti in polietilene ad alta densità a bocca larga per l'industria farmaceutica, la chimica specializzata e gli ingredienti alimentari, comunemente utilizzati come serbatoio per acqua distillata nelle officine meccaniche, bianchi, con manici e tappo nero con chiusura a vite, 12 da 30 litri, di 45 centimetri di altezza, diametro totale di 38 centimetri e 30 d’apertura, e uno da 50, di 49 centimetri di altezza, diametro totale di 41 centimetri e 35 d’apertura, dove: in 2 avevano sistemato il Nitrato d’Ammonio, caratterizzato da minore attitudine alla detonazione essendo “sordo” all’innesco con semplici detonatori ma pur sempre in grado, se innescato con altri esplosivi più “nobili”, di sviluppare una velocità di detonazione dai 2.000 ai 3.000 metri al secondo; in 2 l’ANFO, con velocità di detonazione di 4.000 metri al secondo; in 2 l’Amatolo “fabbricato” nella versione 50/50 con la proporzione di 50% Nitrato d’Ammonio e 50% Tritolo, con velocità di detonazione di 5.000 metri al secondo; in 6 avevano pressato il Tritolo, con velocità di detonazione di 6.800 metri al secondo e per concludere, in quello più grande, avevano sistemato nella parte bassa il Tritolo e sopra di esso, separato da uno strato di cartone, la Composizione B, con velocità di detonazione di 8.400 metri al secondo in funzione di booster, di carica di spinta. In essa, Rampulla, una volta sotto l’autostrada, avrebbe annegato due detonatori elettrici collegati ad un unico filo fatto uscire dal contenitore tramite un buco nel tappo, fissato con nastro isolante, srotolato nel cunicolo e collegato solo nel momento finale alla centralina ricevente. Dopo aver bruciato l’occorrente utilizzato nel travaso, dalle scope, ai guanti, fino al telone, Giovanni Battaglia e Antonio Troia erano stati incaricati da Salvatore Biondino di prendere in custodia i bidoni e gli accessori per qualche giorno poiché, essendo del posto, avrebbero potuto agevolmente muoversi nei paraggi e vigilare la zona. Dopo averli inizialmente riposti dietro la casa riparati nella vegetazione, erano stati successivamente interrarti e coperti con del letame all’ingresso del terreno, vicino al cancelletto d’ingresso poco distante dal pollaio. Già prima che si iniziasse la fase preparatoria conclusiva dell’esplosivo, gli uomini di Cosa Nostra avevano cercato di capire, tramite delle prove di velocità su strada, la tempistica con cui gestirne la sequenza di avvio. Le prime, nel pomeriggio del 7 maggio, lungo la strada che porta dall’abitazione di Di Matteo, in contrada Rebottone, alla strada provinciale, avevano costituito il tentativo, riuscito, di fissare, rispetto alla posizione del cunicolo, che doveva ospitare la carica esplosiva, dei parametri fissi, indispensabili per colpire il bersaglio in fase dinamica mentre passava sopra l’esplosivo. Rampulla aveva provveduto ad azionare il telecomando, Gioé a controllare una lampadina collegata alla ricevente, La Barbera sistemato a monte aveva monitorato le prove, e Di Matteo e Brusca si erano alternati nel guidare l’autovettura, una Lancia Delta Integrale di colore bianco appartenente al primo. Capito il meccanismo tramite questa simulazione servita a ricreare quale sarebbe potuta essere la dinamica dell’attentato e conseguentemente ad acquisire, attraverso la pratica sperimentazione, la padronanza della situazione che si sarebbe presentata agli operatori in particolare, a chi avrebbe dovuto azionare la levetta della trasmittente per lanciare il segnale radio che avrebbe innescato la carica, il gruppo si era spostato con altre due prove la mattina dell’8 maggio direttamente in autostrada con Ferrante a bordo di una Audi 80 e Di Matteo con la Delta Integrale. In questo modo avevano calcolato con distanze, luoghi e condizioni reali, il tempo che avrebbero impiegato le auto blindate, una volta dato l’impulso dal radiocomando, a raggiungere il Punto Zero procedendo come da protocollo sulla corsia di sorpasso alla velocità di 140-170 chilometri orari, contatto poi confermato dall’accensione della lampadina. Una volta calcolato il tempo di reazione dell’operatore nel premere la leva del radiocomando, un frigorifero bianco abbandonato sul ciglio della strada da Rampulla e Biondino avrebbe dato alla vedetta sulle colline un punto di riferimento per segnalare all’operatore di fare fuoco al passaggio del convoglio, fuoco che si sarebbe sviluppato nell’esplosione esattamente all’altezza di tre segni di vernice rossa fatti sul guardrail che avrebbero invece segnato il Punto Zero, l’ipocentro dell’esplosione, 25 metri più avanti, sotto la corsia larga 10 metri divisa da quella opposta lato mare da un tratto di terreno della larghezza di un metro e racchiuso da due guardrail interni. Si tratta dell’imboccatura di uno dei cunicoli di drenaggio delle acque piovane che ne assicura il trasporto agli agrumeti, un corridoio stretto e lungo in cemento che attraversa completamente l’autostrada in senso trasversale e in posizione leggermente obliqua, della lunghezza di 20 metri di lunghezza da bocca a bocca e fisicamente perfetto sia per ottenere dalla carica esplosiva un maggiore lavoro in termini distruttivi ma con un consumo specifico ridotto, sia per l’ottima visuale da una posizione sopraelevata che consente di tenere sotto controllo un tratto della strada anche da lontano, soluzione alternativa al sottopassaggio pedonale a 300 metri dall’aeroporto proposto da Biondino che non sarebbe mai andato bene poiché l’eccessivo sfogo dalle due uscite nel momento dell’esplosione avrebbe smorzato l’onda d’urto in senso laterale con un effetto “cannone” riducendo notevolmente gli effetti devastanti e di conseguenza il calcestruzzo armato di cui è costituito avrebbe potuto reggere l’esplosione. Mentre a Palermo Raffaele Ganci, i figli Domenico e Calogero e il nipote Antonino Galliano continuavano a monitorare dalla macelleria i movimenti delle blindate che sostavano sotto casa del Giudice per capire quando il giudice fosse tornato da Roma, l’esplosivo era stato prelevato la sera di venerdì 8 maggio, a prove di velocità concluse, dalla villa di Troia fino all’Autostrada Palermo-Capaci da Biondino, Troia e Rampulla a bordo del fuoristrada di La Barbera sistemando i contenitore nel vano portabagagli, nei sedili posteriori e in quello anteriore, e scaricati a venti metri dal cunicolo accanto ad un ulivo, chiusi in sacchi neri per confondersi con la spazzatura abbandonata lì intorno. La Barbera, Brusca, Gioé, Rampulla, Biondino, Biondo e Bagarella si erano occupati di stare sul posto a gestire il caricamento e la sicurezza, Troia aveva fatto da staffetta girando a piedi per la campagna per controllare che non ci fosse l’ingresso di eventuali curiosi mentre Ferrante e Biondo avevano lo stesso compito ma in macchina, ciò al fine di gestire un perimetro più esteso dal quale nessuno potesse entrare o uscire senza essere individuato. Col caricamento iniziato intorno alle ore 21:00 la gigantesca carica allungata, ovvero empiricamente con un rapporto tra lunghezza e diametro maggiore di 4, era stata pian piano posizionata nel cunicolo di drenaggio sotto la carreggiata. Mentre Rampulla controllava il lavoro Gioè era entrato per primo, aveva pulito il condotto dal pietrisco e dai detriti accumulati nel tempo, e sdraiato con la pancia su uno skateboard si era trascinato all’indietro nello strettissimo cunicolo introducendo verticalmente il primo dei bidoni piccoli spingendolo coi piedi fino in fondo all’altezza della corsia di sorpasso. Biondo era stato di vedetta, leggermente a distanza ma in continuo contatto visivo con Bagarella che armato di fucile Ak47 non aveva distolto lo sguardo neanche per un secondo dalla strada. La Barbera, Gioè e Brusca che vestiti con tute blu da meccanico, armati di guanti da muratore e torce, a turno avevano strisciato all’interno del canale di scolo largo 54 centimetri disponendo uno dietro all’altro tutti i contenitori, venivano poi tirati all’esterno dagli altri con una fune che tenevano stretta sotto le ascelle. Un tubo in alluminio posto nella parte bassa del condotto, fungendo da binario consentendo agli uomini di poggiare sopra i bidoni aveva semplificato loro il lavoro. Per la carica, studiata per essere posta esattamente sotto la corsia di sorpasso dove solitamente procede il corteo delle blindate, la distanza dal lato della carreggiata era stata presa in superficie dai tecnici con una corda riportandola poi all’interno del cunicolo stendendola dall’imboccatura. Dal bidone più grande, introdotto orizzontalmente, disposto nella posizione centrale rispetto agli altri e facente assieme ad altri 6 la funzione di carica di spinta con velocità di detonazione superiore ai 5 mila metri al secondo, Rampulla aveva tolto lo scotch che otturava il buco nel tappo predisposto nella casa di Capaci, aveva inserito due detonatori elettrici collegati in serie, li aveva nastrati assieme per incrementare il potere di innesco e aiutandosi con un bastoncino di legno li aveva affondati completamente nell’esplosivo facendo affiorare soltanto i reofori del positivo e del negativo. Questi erano stati collegati successivamente alla linea di tiro, un filo lungo 10 metri che aveva fissato al tappo con del nastro adesivo e poi al fusto avvolgendolo per due volte, e prima che venissero inseriti gli altri 6 bidoni l’aveva srotolato fino all’esterno del condotto prestando attenzione a non rovinarlo col resto del caricamento. Infine, una volta inserito il resto dei contenitori, raccolto il filo e avvolto in una matassa poggiata dentro il cunicolo, l’imboccatura era stata coperta con rifiuti, sterpaglie e un materasso, il tutto sistemato in modo da essere tolto in pochi secondi per l’ultima fase del caricamento, il collegamento della centralina ricevente, operazione da fare letteralmente “all’ultimo minuto” per evitare che interferenze da telecomandi per cancelli o telefoni cellulari potessero interferire con l’antenna e attivare la carica inaspettatamente e in anticipo. I lavori di caricamento del cunicolo, sospesi per qualche minuto per la sosta 100 metri più avanti a bordo strada di un pulmino Fiat 900 dei Carabinieri della compagnia di Capaci dove uno degli agenti era sceso per un bisogno, erano andati avanti per sette ore, concludendosi alle 4 del mattino coi rami degli alberi che impedivano la visuale dell’autostrada dalla collina tagliati da Battaglia con una sega da carpentiere e col posto lasciato esattamente come trovato. Le notti a seguire l’esplosivo è rimasto lì, armato e controllato a vista fino a questo pomeriggio del 23 dove tutto è organizzato: l’esplosivo, le trasmittenti, le distanze e le staffette. Giovanni Brusca sulla collina ripassa mentalmente ogni passaggio, non può e non deve sbagliare, ha solo una possibilità. La conferma che le auto della scorta sono partite in direzione dell’aeroporto dall’abitazione del Giudice, via Notarbartolo al civico 23, dove erano parcheggiate accanto alla guardiola blindata di protezione antistante l’ingresso, a pochi metri dalla macelleria dei Ganci sita in una delle traverse, è arrivata telefonicamente alle ore 17:15 da Raffaele Ganci a Ferrante e La Barbera. Nell’attesa che i due, in stazionamento nella zona secondo piano prendessero posizione, il primo accanto all’uscita di servizio dell’aeroporto, il secondo all’imboccatura della provinciale parallela all’autostrada in modo da sorvegliare il corteo delle blindate e fornire gli opportuni ragguagli a Brusca e Biondino che nel frattempo si erano mossi in direzione della collina, Raffaele Ganci ha messo in movimento i figli Calogero e Domenico, uno in macchina e l’altro in vespone, attaccati al convoglio. Battaglia, Gioè e Troia, prima di raggiungere i due nel punto d’osservazione, si sono recati al cunicolo per posizionare e attivare la ricevente. Lì, hanno srotolato fuori dalla massa di rifiuti la linea di tiro, collegata alla centralina appena fuori dal condotto, tolto il piccolo pezzo di gomma che faceva da “custodia” al chiodo al fine di evitare contatti spiacevoli in caso di scatto involontario del meccanismo, hanno avvitato il coperchio alla scatola e disposta col lato lungo sul terreno e l’antenna fissata in alto con l’ausilio di un bastoncino di legno, e ricoperto il tutto con un sacco nero e dei rami. Il Giudice Falcone, in ritardo di un giorno sul programma per motivi legati alle attività della moglie, decollato dall’Aeroporto Internazionale di Roma-Ciampino "G. B. Pastine" alle 16:55 con un “Volo di Stato”, sta tornando a casa. L’arrivo in Sicilia del jet della CAI, la Compagnia Aerea Italiana, previsto dopo un viaggio di circa 50 minuti è in perfetto orario. Ad attenderlo a terra a bordo della pista 25 ci sono le tre autovetture blindate: tre Fiat Croma 2.0 Turbo, l’ammiraglia della casa, una marrone, una bianca e una azzurra, corazzate, del peso di due tonnellate ciascuna, gruppo di scorta sotto il comando del Capo della Squadra mobile della Polizia di Palermo. Sono le ore 17:43, il jet è fermo, Falcone è arrivato, non è solo, con lui è arrivata anche la moglie, Francesca Laura Morvillo, anche lei magistrato. 46 anni, Giudice del tribunale di Agrigento, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Palermo, Consigliere della Corte d’Appello di Palermo, componente della Commissione per il concorso di accesso in magistratura e docente presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'ateneo palermitano nonché docente di Legislativa del minore nella Scuola di Specializzazione in Pediatria, il commando non sa che Falcone in sua compagnia è solito mettersi al posto di guida per starle accanto poiché lei soffrendo il mal d’auto preferisce sedersi davanti. Come da programma, appena sceso dall’aereo si sistema alla guida della vettura bianca, accanto a lui prende posto la moglie mentre l’autista giudiziario occupa il sedile posteriore. Nella Croma marrone e in quella azzurra prendono posto gli altri agenti della scorta, tre per vettura, due avanti e uno dietro coi mitra in mano e sguardo fisso fuori dai finestrini. A convoglio in movimento la Croma marrone si mette in testa al gruppo seguita dalla bianca con davanti quella azzurra. Ferrante, che appostato in auto nei pressi dell'aeroporto di Punta Raisi vede uscire il convoglio delle blindate dalla sbarra della guardiola della Guardia di Finanza avverte telefonicamente La Barbera che il Giudice è in movimento. Sono le ore 17:48, le auto, seguite in motorino per un tratto dal figlio di Ganci, lasciano l’aeroporto imboccando l’autostrada in direzione Palermo. Il commando si rende subito conto che l’andatura non è quella solita, anche lo schema è diverso. Le auto, che dovrebbero fiancheggiarsi, tallonarsi, coprire tutte le corsie procedendo a velocità sostenuta, non lo fanno. Non vengono attivate neppure le sirene. Intanto La Barbera, chiusa la telefonata con Ferrante apre quella con Brusca. Tutti i singoli operatori sono già ai loro posti coi telefoni cellulari in mano in attesa del passaggio del corteo di vetture. Alle ore 17:49, mentre si muove sulla provinciale parallela alla A29 per seguire il convoglio, resta in contatto telefonico con la collina per informare il punto d’osservazione sulla velocità delle auto. Sono le ore 17:54, dopo una telefonata durata 325 secondi Brusca allunga l’antenna telescopica in metallo del radiocomando. È acceso, il led è illuminato di rosso, è tutto pronto. Un chilometro più in basso ecco il convoglio spuntante sulla corsia di sorpasso da dietro la curva ma non alla velocità che si aspettavano e per cui avevano pianificato i tempi di reazione. La seconda auto, in fila con la prima leggermente distaccata e seguita dalla terza che la copre standole attaccata, come da desiderio della Morvillo sta procedendo ad una velocità moderata, di poco superiore a 90 chilometri orari. Alla vista del corteo, al chilometro 5, nei pressi dello svincolo di Capaci-Isola delle Femmine, Brusca, dopo aver gettato a terra l’ennesima Merit masticata mette il dito sulla leva. Gioè dà il segnale, Brusca, che a causa della bassa velocità è confuso sul momento esatto in cui dare fuoco, sta per dare il contatto ma succede qualcosa: le auto stanno rallentando, ancora. All’interno della macchina centrale la Morvillo ha appena chiesto al marito le chiavi di casa, è stanca, vuole rientrare e lasciare che il marito prosegua per il tribunale. Il Giudice Falcone, in un attimo di distrazione, accorgendosi che le chiavi di casa sono nel mazzo insieme a quelle della macchina le ha staccate dal quadro per passarle al suo autista seduto dietro affinché prendesse quelle dell’appartamento. La velocità precipita sotto gli 80 chilometri orari spiazzando tutti. Sulla collina Gioè dà un secondo segnale ma Brusca esita, ancora. Mentre Gioè stringe tra le mani il tripode del cannocchiale gridando di dare il contatto o tutto è perduto, la leva dopo lunghi attimi di concitate incertezze viene spinta. A 400 metri, all’imboccatura del condotto, sotto le sterpaglie e il materasso, la centralina riceve il segnale attivando il motorino al suo interno che muove il chiodo verso l’altro capo del circuito. La linea si chiude. Le batterie da 4,5 Volt scaricano la corrente sul cavo centrale schizzando lungo il tubo che costeggia i bidoncini fino a quello centrale con dentro i detonatori annegati nella carica di spinta. All’interno dei bossoli in alluminio il ponticello si arroventa incendiando la sostanza infiammabile che innesca la carica di Azoturo di Piombo e di conseguenza la Pentrite. Sono le ore 17:56:32 secondi, con una velocissima reazione a catena il primo e il secondo detonatore si innescano attivando gli esplosivi che detonano nella camera di scoppio uno ad uno, dal centro verso l’esterno, in una gigantesca esplosione che sviluppa in una frazione di secondo una temperatura di 2.800 gradi centigradi. La compressione generata dalla massa di terra e cemento che esercita nei confronti dei gas pro­dotti una fortissima resistenza comprimendone il volume nella camera di scoppio, causa un aumento esponenziale del “fattore di pressione” facendo subire una improvvisa accelerazione cinetica dell’onda esplosiva con un conseguente incremento degli effetti esaltando il potere dirompente della carica. La montagna trema. La pressione sviluppata dai gas, concentrandosi verso l’alto, spinge il terreno sotto la prima blindata che non accortasi del rallentamento dell’auto centrale ha continuato a proseguire a velocità costante. L’Autostrada A26 si gonfia e si apre sfogando all’esterno una palla di fuoco e roccia che investe l’auto lanciandola in aria. L’onda di sovrappressione, violentissima, la accartoccia e strappandola dalla carreggiata la fa saltare oltre le corsie del senso opposto scaraventandola in un giardino di ulivi accanto ad un mangimificio, a 62 metri di distanza. Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo, i tre agenti all’interno, muoiono sul colpo per la rottura del cranio schiacciati tra le lamiere e straziati dall’impatto col terreno. Dietro di loro, sulla strada, il muro di cemento, ferro e terra sollevato in aria per decine di metri taglia la strada alla Croma Turbo guidata dal Giudice che ci si schianta contro. Falcone e la Morvillo, che non stanno indossando le cinture di sicurezza, vengono proiettati violentemente contro il parabrezza finendo travolti dal grosso motore da 2 mila centimetri cubi che si stacca dai sostegni schiacciando il cruscotto e piegando il piantone dello sterzo. L’autista giudiziario Giuseppe Costanza va a sbattere contro il sedile davanti mentre come un missile arriva la terza Croma, quella azzurra, con a bordo gli agenti Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo, che sterza violentemente a sinistra appena prima di travolgerli. Mentre l’onda d’urto si propaga con una velocità di 4 chilometri al secondo percorrendone 65 in 16 secondi fino all’osservatorio dell’Istituto Nazionale di Geofisica facendo oscillare le lancette dei sismografi dell’Osservatorio agrigentino di Monte Cammarata, i terreni attorno all’autostrada vengono avvolti da una nuvola rossa e gialla e bersagliati da una pioggia di terra e detriti. In un clima di iniziale silenzio e disorientamento automobilisti e abitanti della zona si riversano per strada cercando di raggiungere la base del fungo di fumo, camminando tra polvere e macerie e l’incessante suono degli allarmi delle case che non smettono di suonare. Chi può, prova a prestare soccorso, mentre la nuvola di fumo e polvere si dirada aprendo alle gente uno scenario lunare che difficilmente dimenticherà. Ci sono auto coperte di terra, due Croma, una Lancia Thema che seguiva il corteo, una Fiat Uno e una Opel Corsa che viaggiavano nel senso opposto. Al centro, la porzione di autostrada sopra il canale di scolo non c’è più, al suo posto si è aperto un cratere a forma di semiellisse il cui lato lungo trasversale rispetto alla corsia di marcia è lungo 14,3 metri mentre quello inferiore, di posizione longitudinale rispetto alla stessa si estende per una lunghezza di 12,3 metri. Nel punto di maggiore profondità raggiunge i 4 metri, con una media di 3,5 determinando una profondità che scende di oltre un metro rispetto al piano di campagna intorno all’autostrada. Sulla linea del cratere c’è il totale disfacimento dell’asfalto che ha creato nei bordi una sopraelevazione di un metro di altezza lungo i primi 4,7 metri e di 60 centimetri per i restanti 7,4. Il tubo di scolo in cemento è sparito, il guardrail a lato monte è stato deformato per un lungo tratto in maniera circolare e spinto nell’uliveto a monte rispetto al cratere. Quello in mezzeria invece, il doppio guardrail, è stato danneggiato in un tratto molto più corto e anche questo spinto dalla parte opposta, verso il mare. Nonostante l’energia sprigionata dal condotto sia stata talmente forte da riuscire a dirigersi verso l’alto vincendo la forza contraria del terreno sovrastante, una parte dei gas prodotti è riuscita comunque ad incanalarsi nella parte di condotto lasciata libera dalla carica, quella lato mare, per effetto del mancato intasamento, determinando le stesse pressioni sulle pareti del cunicolo frantumandolo e determinando un avvallamento del terreno e lo squassamento superficiale del manto stradale per altri 13 metri di lunghezza, 1,5 di larghezza e 50 centimetri di profondità. Gli alberi di ulivo nei pressi dell’imboccatura del condotto del lato della carica sono stati investiti dalla peggiore delle tempeste, l’aranceto della porzione di terreno opposta è stato arato per 15 metri da quell’onda di sovrappressione che si è incanalata in un effetto cannone per il condotto in tutta la sua lunghezza. 400 metri più in alto, sulle colline sopra Capaci, non c’è già più nessuno, gli osservatori hanno smontato tutto lasciando la posizione quando i primi detriti cominciavano a piovere sui tetti delle case. In basso invece, tra la polvere, gli sportelli della Croma azzurra si aprono, gli agenti all’interno sono vivi. Insanguinati, storditi, a fatica scendono dall’auto per mettersi a protezione della Croma bianca davanti a loro e sincerarsi di eventuali superstiti. Dentro è un disastro, c’è sangue ovunque ma respirano, non si sa come, ma respirano. Mentre qualcuno li chiama cercando di farli rimanere vigili ecco che si sentono le prime sirene farsi spazio tra i curiosi che continuano ad avvicinarsi al cratere. Nonostante le ferite la Morvillo e Costanza vengono estratti dall’auto, per Falcone, che si muove appena incastrato tra le lamiere, è necessario attendere l’intervento dei Vigili del Fuoco. La donna, portata a terra è cosciente, seminuda, qualcuno si toglie la maglietta per coprirla, cerca il marito che è qualche metro più in là mostrando, anche se gravissimo e col viso una maschera di sangue, di recepire con gli occhi le sollecitazioni dei soccorritori. Nonostante l’estrazione sia difficoltosa entrambi vengono tirato fuori dalla blindata e caricati in ambulanza. Mentre inizia una corsa a sirene spiegate verso gli ospedali scortati da un corteo di vetture e un elicottero dell’Arma dei Carabinieri che lo segue dall’alto, dietro di loro, ponendosi alle spalle della voragine nel senso di marcia relativo alla corsia lato monte, distante 2 metri dal margine sinistro e 8 dal destro, in posizione obliqua rispetto all’asse della corsia e con le ruote anteriori sul ciglio del cratere, la Croma blindata è lì, con la parte anteriore vicino al motore completamente distrutta, col il cofano di cui rimane ben poco, accartocciato del tutto e retto dalla sola cerniera destra. Il vetro blindato a cinque strati del parabrezza, completamente incrinato, è stato sbalzato nel cratere mentre la portiera sinistra, divelta, si trova nel terreno adiacente. All’interno, il lunotto si è riversato nell’abitacolo invaso da detriti e terra che nella parte posteriore raggiunge i 50 centimetri, la metà sinistra del cruscotto e degli elementi sottostanti è squassata ed arretrata verso la posizione dell’autista la cui spalliera è contorta e piegata in avanti, mentre sul volante, la cui parte inferiore è anch’essa contorta in avanti, è ricoperta di sangue. Appena dietro, in posizione obliqua, c’è la seconda blindata, coperta da uno strato di terriccio e pietre spesso 2 centimetri, con la parte anteriore, arretrata verso l’interno, contorta al pari del cofano divelto dalle cerniere. Il parabrezza è incrinato, il lunotto è spaccato e rientrato verso l’abitacolo di 10 centimetri mentre il volante ha la metà inferiore contorta verso il basso. A 4 metri di distanza c’è la Lancia Thema, col tetto completamente schiacciato, il parabrezza incrinato e fuoriuscito dalla guide, il lunotto e i fari rotti, cumuli di detriti e terriccio in prossimità della leva del cambio. L’Opel Corsa transitante nella corsia opposta è ribaltata sul fianco sinistro a 60 centimetri dal guardrail e con il senso di marcia contrario a quella della corsia. La parte anteriore è completamente distrutta sino al cofano motore fuori asse e accartocciato, il parabrezza e il lunotto sono a pezzi e la lamiera del tetto contorta per la prima metà. La Fiat Uno invece è ferma 2 metri prima, con la direzione di marcia coincidente con quella della corsia e la fiancata destra a 90 centimetri dal guardrail esterno. L’auto è distrutta nella parte anteriore e priva di cofano, il tetto è contorto e l'abitato è invaso da terriccio e detriti. Di “Quarto Savona Quindici”, la prima Croma, atterrata nell’uliveto e ridotta ad un’altezza di 30 centimetri, è rimasta solo la parte inferiore della scocca assieme le ruote tranne quella anteriore destra, parti del cruscotto col contachilometri e il contagiri, alterati dall’urto, il primo bloccato a 160 e il secondo a 6 mila, parte del volante, del cambio e dei sedili anteriori. Sangue, tessuti e materia cerebrale ricoprono le superfici mentre il motore, la ruota destra con la sospensione e alcune porzioni della scocca si trovano sparpagliati per un raggio di 10 metri. Gli effetti della detonazione sotto il profilo dell'estensione del raggio di gittata di detriti, pezzi di asfalto e pietre si misurano, rispetto al carattere, in 142 metri in direzione Palermo, 156 metri in direzione Trapani, 182 metri verso il mare, una pioggia che non ha risparmiato niente, né 19 persone che per loro sfortuna erano nel posto sbagliato al momento sbagliato, né i capannoni di un’azienda avicola, né una cabina elettrica e delle villette, mitragliate con fori da 60 a 180 centimetri di diametro. Intanto le corse verso gli ospedali non serviranno, neanche gli sforzi dei medici riusciranno a salvare i due Giudici. Giovanni Falcone, trasportato al Civico di Palermo, mentre l’Italia intera trattiene il fiato morirà alla ore 19:05 a causa della gravità del trauma cranico e delle lesioni interne, senza riprendere più conoscenza, fra le braccia di Paolo Borsellino. Francesca Morvillo, trasportata prima all'ospedale Cervello e poi trasferita al Civico, nel reparto di neurochirurgia, morirà sotto i ferri intorno alle 23 a causa delle gravi lesioni interne riportate. La Cupola voleva un evento eclatante e lo ha ottenuto. Portando la sua tattica intimidatoria ad un altro livello non mettendosi scrupoli neanche a colpire nel mucchio, considerando eventuali vittime innocenti come “danni collaterali” di una guerra come ce ne sono tante, mentre c’è chi porterà per il resto della vita il ricordo e i segni indelebili di questo evento traumatico, altrove qualcun altro sta brindando per aver appena mostrato al mondo tutto il suo potere.

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