01 giugno, 2020

Nairobi, Ambasciata Stati Uniti d'America, 7 agosto 1998


TIPOLOGIA: attentato
CAUSE: camion-bomba suicida
DATA:
7 agosto 1998
STATO: Kenya
LUOGO: Nairobi, Ambasciata Stati Uniti d’America
MORTI:
213
FERITI:
3.996

Analisi e ricostruzione a cura di Luigi Sistu

È il 7 agosto 1998, è una bella giornata a Nairobi, calda e soleggiata, ma a qualche centinaio di metri dall’Ambasciata degli Stati Uniti d’America c’è un camion con due persone a bordo che si sta dirigendo verso l’entrata principale. Tre mesi prima, Fazul Abdullah Mohammed, 29 anni, nato nelle Isole Comore al largo della costa orientale dell'Africa, si era occupato di prendere in affitto una villa in un quartiere residenziale di lusso fuori dal centro di Nairobi, città con più di 4 milioni di persone, la più grande del Kenya, la Capitale, situata nella parte sudoccidentale del paese. Aveva scelto la casa al civico 43 di Runda Estates perché isolata e circondata da muri alti che rendevano quasi impossibile per i passanti osservare le attività dentro e intorno alla struttura. Inoltre, il vialetto era abbastanza grande da contenere un camion di medie dimensioni e il garage abbastanza spazioso da permettere l’immagazzinamento di materiali, macchinari ingombranti e la costruzione di una grossa bomba. Per lo stesso motivo, Khalfan Khamis Mohamed, 24 anni, tanzaniano, si era occupato di prendere in affitto una villa simile nel quartiere Illala di Dar es Salaam, con più di 4 milioni di abitanti la più grande città della Tanzania, principale polo economico e il primo porto del paese, a circa 6 chilometri dall’ambasciata degli Stati Uniti d’America. I due fanno parte di una cellula terroristica di al-Qaida, movimento fondamentalista islamista sunnita paramilitare terroristico nato nel 1988 durante la Guerra in Afghanistan e guidato dal miliardario saudita Osāma bin Lāden, 17esimo dei 57 figli dell’immobiliarista yemenita Mohammed bin Awad bin Lāden, che avvalso della guida ideologica di Ayman al-Zawāhirī, scrittore, poeta e medico de Il Cairo appartenente ad una famiglia di dotti religiosi e di magistrati, aveva deciso di utilizzare soldi e macchinari della propria impresa di costruzioni per aiutare la resistenza dei mujaheddin durante l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Fa parte della stessa organizzazione anche Ahmed Salim Swedan, lui ha 27 anni, è nato a Mombasa, in Kenya, dove ha gestito un'attività di autotrasporti. Aveva acquistato due camion per il trasporto delle due grosse bombe da utilizzare contro due importanti obiettivi in un attacco coordinato e parallelo: un Toyota Dyna di colore beige destinato all’Ambasciata americana a Nairobi, e un camion frigorifero Nissan Atlas del 1987 destinato all’Ambasciata americana a Dar es Salaam. Ahmed Salim Swedan aveva portato il Toyota alla villa di Nairobi, del Nissan invece se ne era occupato Fahid Mohammed Ally Msalam, 22enne keniota, che lo aveva portato a quella di Dar es Salaam. Mohammed Atef, capo militare di al-Qaida e uomo di fiducia di Osāma bin Lāden, ingegnere agrario, ex ufficiale di polizia ed ex pilota dell’aeronautica militare egiziana, aveva inviato alla cellula uno specialista di esplosivi, il migliore fabbricatore di bombe, Mohammed Saddiq Odeh, 33 anni, ingegnere con cittadinanza keniota e giordana congiunta. Arrivato a Nairobi, per prima cosa aveva fatto saldare tra loro delle barre metalliche a formare una gabbia che era servita da involucro per la carica di esplosivo. Nel frattempo, un fuoristrada Suzuki Samurai bianco acquistato per l’occasione da Fahid Mohammed Ally Msalam aveva fatto da vettore per il trasporto alla villa dei vari componenti recuperati da Ahmed Khalfan Ghailani, 24 anni, tanzaniano, predicatore itinerante musulmano, che li aveva nascosti in sacchi di riso caricati nel cassone. Abdullah Ahmed Abdullah, 35 anni, egiziano, probabilmente il pianificatore operativo più esperto di al-Qaeda, aveva preso il comando delle operazioni occupandosi di pianificare l’attacco coordinato alle due città. Esperto di esplosivi e tattiche di guerriglia, aveva gestito i campi di addestramento di al-Qaida in Afghanistan per tre anni ed era l’unico ad avere l’incarico e il privilegio di comunicare personalmente con Osāma bin Lāden inviando periodicamente dei rapporti scritti sui progressi fatti. Abu Anas Al-Liby, libico 34enne specialista informatico di al-Qaida, era invece l’incaricato alla sorveglianza e ai rilievi fotografici degli obiettivi. Mohammed Saddiq Odeh, lo specialista, aveva deciso di assemblare una carica da 240 chilogrammi di Amatolo alluminizzato. L’Amatolo era di tipo 60/40, una miscela esplosiva creata durante la Prima Guerra Mondiale dalle forze armate britanniche costituita da 60% in peso di Nitrato d'Ammonio, il fertilizzante preparato dal chimico e farmacista tedesco Rudolph Glauber nel 1659 che lo aveva chiamato “nitrum flammans” per via del colore giallo della sua fiamma e scoperto come prodotto esplodente dal chimico e ingegnere svedese Alfred Nobel nel 1870, e 40% in peso di Trinitrotoluene, esplosivo preparato la prima volta nel 1863 dal chimico tedesco Julius Wilbrand. Con Muhsin Musa Matwalli Atwah, 34 anni, egiziano, uno dei maggiori esperti di esplosivi che al-Qaida aveva a disposizione, avevano fuso il Trinitrotoluene a circa 100 gradi centigradi e aggiunto il fertilizzante in polvere preriscaldato. Una volta lasciato raffreddare avevano inserito nella miscela la polvere d’alluminio con dimensioni micrometriche che aveva aumentato del 15% la potenza esplosiva del composto. Assieme ad Saif al-Adel, 37 anni, ex colonnello delle forze speciali egiziane come esperto di esplosivi, addestrato in Unione Sovietica e istruttore nei campi di addestramento, avevano poi pressato il composto in 500 involucri cilindrici delle dimensioni di lattine di Coca Cola poi collegati tra loro con un circuito ridondante di miccia detonante, un cordone esplosivo diretto discendente di quello messo a punto negli stabilimenti David Bickford nel 1914, con l’anima interna in Pentrite, uno degli esplosivi più potenti, preparato per la prima volta nel 1891 dal chimico tedesco Bernhard Tollens. Questo accorgimento era stato adottato per assicurare una detonazione uniforme degli involucri in modo da non avere interruzioni nel passaggio dell’onda esplosiva da un panetto all’altro. I 500 cilindri erano stati poi confezionati in 6 casse di legno da 40 chilogrammi l’una appositamente progettate, sigillate e caricate sul camion. Una volta fissate alla gabbia metallica saldata al vano di carico, Mamdouh Mahmud Salim, 40 anni, sudanese, cofondatore di al-Qaida, Adel Mohammed Abdel Magid Abdel Bari, 38 anni, egiziano, capo della cellula inglese a Londra, e Wadih Elias el-Hage, 38 anni, libanese naturalizzato americano, avevano aiutato a completare la carica, armando ogni cassa con una rete di detonatori elettrici, artifizi esplosivi primari, versioni moderne di quello inventato nel 1876 da Julius Smith, e costituiti da un cilindro di alluminio riempito con una miscela incendiaria, una piccola quantità di esplosivo secondario, la Pentrite, innescato a sua volta da pochissimo esplosivo primario, l’Azoturo di Piombo, il preparato della Curtis's and Harvey Ltd Explosives Factory nel 1890, sensibile ad urti e calore. Il 4 agosto, dai detonatori nastrati con cura alla miccia detonante e collegati in un circuito in serie-parallelo, i tecnici avevano fatto partire un lungo cavo che fissato prima alla gabbia e poi alla carrozzeria del camion, era stato collegato ad un set di batterie posizionate nel retro della cabina e fatto arrivare, seguendo gli incavi delle lamiere, al posto di guida passando sotto il sedile fino ad arrivare sul lato anteriore. Qui era stato assemblato il meccanismo di accensione, un interruttore a pressione nastrato sotto il cruscotto. La bomba era completa, ingegneristicamente bella quanto terribile, meno potente di quella costruita in parallelo nel garage a Dar es Salaam, questo dovuto alla posizione centrale dell’Ambasciata americana localizzata nel centro cittadino sull’incrocio tra la Haile Selassie Avenue e la Moi Avenue in un quartiere con edifici a torre e palazzine nelle immediate vicinanze. Mohammed Saddiq Odeh e Muhsin Musa Matwalli Atwah si erano occupati il 5 agosto degli ultimi sopralluoghi per discutere ed eventualmente modificare l’itinerario. Tutto era pronto, non si poteva più rimandare. Da Nairobi, così come da Dar es Salaam, città “fedeli” agli americani, gli Stati Uniti avevano gestito molte delle crisi africane, dalla Guerra civile in Somalia del 1992 al genocidio del Ruanda del 1994. Questo attacco avrebbe dimostrato che chiunque si fosse avvicinato all’America ne avrebbe pagato le conseguenze col sangue. Sono le ore 10:34, oggi è l’ottavo anniversario dell’arrivo delle truppe statunitensi in Arabia Saudita durante la prima Guerra del Golfo Persico, il Toyota Dyna dell’”Operazione Santa Kaaba alla Mecca” sta procedendo lungo la strada ed è a pochi isolati dall’Ambasciata, un edificio di 5 piani in calcestruzzo armato costruito con tecnologia antisismica. Al volante c’è Jihad Mohammed Ali, ha 26 anni ed è egiziano, si era preparato per settimane al martirio, è concentrato, un po’ spaventato. Accanto a lui, sul sedile del passeggero c’è Mohamed Rashed Daoud Al-Owhali, 21 anni, saudita di origine britannica, ha addosso una pistola e tre granate stordenti di fattura artigianale. In tre minuti il camion raggiunge l’edificio, gli gira attorno fermandosi davanti all’ingresso del parcheggio, sotto il prospetto posteriore. Al-Owhali apre lo sportello, scende in fretta con una granata in mano, si dirige verso la guardia al cancello, il piano è di costringerla ad alzare la sbarra minacciandola con la pistola in modo da fare entrare il camion nel parcheggio. Ma la pistola non c’è, l’ha dimenticata sul sedile, non c’è tempo di tornare indietro, ormai la guardia al cancello sta imbracciando il fucile, spara. Al-Owhali lancia la granata per distrarla, lo scoppio spaventa i passanti e incuriosisce gli impiegati negli uffici che si avvicinano alle finestre, l’ultima cosa che vedranno è un ragazzo in strada che sta scappando con lo sguardo rivolto dalla parte opposta, verso un camion fermo al cancello. Dentro la cabina Jihad Mohammed Ali si è abbassato sul cruscotto, ha la mano sul comando di accensione, prega. Sono le ore 10:37, il pulsante viene premuto e il circuito elettrico viene chiuso. Le batterie posizionate nel retro della cabina scaricano la corrente sui detonatori dove il ponticello all’interno si arroventa accendendo l’Azoturo di Piombo che detona innescando la Pentrite. La miccia detonante nastrata ad essi esplode e con essa i cilindri di Amatolo con una velocità di 5.000 metri al secondo. Il Toyota Dyna salta in aria con una furia impressionante, il centro di Nairobi viene sconvolto, i vetri scoppiano in un raggio di 800 metri. Con un boato assordante avvertito fino a 30 chilometri l’onda d’urto si apre come una gigantesca sfera di 4.000 gradi centigradi che investe l’Ambasciata americana attraversandola da parte a parte andando ad impattare sulla Ufundi Cooperative House che non resiste alla pressione e collassa coi suoi sette piani e i 400 impiegati sul retro dell’Ambasciata Accanto, nell’edificio simbolo della città e sede centrale della Co-operative Bank of Kenya LTD, la più grande della Comunità dell’Africa Orientale, l'ambasciatrice americana Prudence Bushnell sta incontrando al 21esimo piano il Ministro kenyota del commercio Joseph Kamotho, la furia dell’esplosione raggiunge la struttura, la sventra, scardina le porte blindate, spalanca i muri, squarcia i solai per poi incanalarsi assieme al calore tra gli edifici della Haile Selassie Avenue ed investire due autobus da 62 posti carichi di passeggeri. È una strage. Le perdite sono altissime: 213 persone vengono fatte a pezzi. Sul centro della città si alza un fungo marrone, in strada arrivano i Marines che circondano immediatamente il Punto Zero, uno dopo l’altro restano attoniti davanti ad uno scenario di completa devastazione. Il terreno è disseminato di sangue e corpi umani a metà, alcuni vestiti, altri nudi. Al posto dei palazzi c'è un mucchio di macerie, detriti metallici contorti, rottami aggrovigliati, automobili ridotte a scheletri di metallo, fogli di carta, computer, vestiti a brandelli, vetri rotti, corpi eviscerati, decapitati, bruciati. Dalle carcasse distrutte degli autobus pendono dei corpi scarnificati, non hanno più un volto, sono diventati manichini carbonizzati. Si sentono singhiozzi soffocati, urla di dolore, pianti di 3.996 figure insanguinate che chiedono aiuto, alcuni si sforzano di strisciare via, altri camminano appoggiandosi su moncherini anneriti, molti sono ciechi, altri cercano di tenersi dentro gli intestini. Iniziano ad arrivare i soccorsi, le sirene sono come impazzite, decine di ambulanze e mezzi antincendio si fermano nei pressi del luogo dell’esplosione, nell’aria c’è ancora l’odore acre del fumo. Gli operatori della Croce Rossa restano sconvolti nel vedere tutto quel sangue, nel frattempo la polizia istituisce una presenza caotica, quasi inutile, la folla è ingestibile. In mezzo a tanta confusione e a tanta ferocia, un figura si rimette in piedi, ha dei tagli alla schiena, alla mano destra e alla fronte, è Mohamed Rashed Daoud Al-Owhali, ed è vivo, era a faccia in giù sul marciapiede, un muro in calcestruzzo lo ha protetto dal passaggio dell’onda d’urto e dal calore. Ha ancora una granata in tasca, la getta in un cestino della spazzatura prima di dirigersi verso un pronto soccorso. A 800 chilometri di distanza anche il camion a Dar es Salaam è esploso, anche lì tanti morti, anche lì il caos. A Nairobi al-Qaida ha voluto colpire l’America ma, paradossalmente, gli americani morti saranno solo 12. Questo attacco coordinato ha appena portato, per la prima volta, all'attenzione dell'opinione pubblica Osāma bin Lāden, Ayman al-Zawāhirīe e al-Qaida, segnando il passaggio del gruppo terroristico ad una nuova forma di lotta atta a colpire direttamente gli Stati Uniti d’America e che culminerà nell’attentato al World Trade Center di New York dell’11 settembre 2001.

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