TIPOLOGIA: attentato
CAUSE: carica occultata
DATA: 28 maggio 1974
STATO: Italia
LUOGO: Brescia, piazza della Loggia
MORTI: 8
FERITI: 102
Analisi e ricostruzione a cura di Luigi Sistu
Brescia, 28 maggio 1974, otto del mattino, nella centralissima Piazza della
Loggia fremono i preparativi per una manifestazione sindacale. È una manifestazione
importante, non si parlerà solo dell’orario di lavoro e degli imprenditori del
nord che non vogliono piegarsi al dialogo sindacale, è anche, forse soprattutto,
una manifestazione antifascista. La sinistra è reduce da due conquiste
storiche: la vittoria al referendum per il divorzio e i decreti delegati che
allargano la democrazia nella scuola. In questo giorno ci si farà vedere uniti,
si marcerà, anche perché la città è da mesi praticamente sotto assedio. Una
serie di attentati stanno costringendo gli abitanti al coprifuoco, così come
molte città d’Italia. Ma Brescia è un piccolo centro e le bombe dell’ultimo
anno, tutte rivendicate dai gruppi eversivi di destra, sono un fatto
sufficiente a creare un clima di esasperazione. Sono tante, c’è la bomba fatta
esplodere il 16 febbraio nel quartiere Porta Venezia rivendicata da un
volantino delle SAM, le Squadre d’Azione Mussolini, organizzazione di
ispirazione fascista, ci sono le due ritrovate nella Chiesa delle Grazie l’8
marzo, poi la bomba a mano esplosa del 23 aprile nel cortile della sede del PSI,
il Partito Socialista Italiano e quella trovata il primo maggio nell’ingresso
della sede della CISL, la Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori.
L’ultimo episodio, tra il 18 e il 19 maggio in Piazza del Mercato, è quello in
cui un giovane bresciano, Silvio Ferrari, ventunenne neofascista, è saltato in
aria in Piazza del Mercato, tra il loggiato e la fontana, a seguito dell’innesco
accidentale della bomba che teneva sul pianale della sua Vespa Primavera mentre
era fermo con motore acceso. La sua morte ha destato in Brescia emozione
vivissima, convalidando l’opinione, però, che gli attentati hanno posto la
città al centro di una “manovra eversiva” diretta a contrastare mutamenti
sociali in senso progressista. Sono le ore 10:00, il corteo del manifestanti
partito da Piazza della Repubblica sta arrivando in Piazza della Loggia, luogo
conclusivo della marcia e punto di raccolta. Un palco, montato davanti al
Palazzo del Municipio e già pronto dalle otto del mattino con gli altoparlanti
puntati verso la piazza, aspetta che gli spazi sotto si riempiano
completamente. Fa freddo, piove, ma la piazza è già gremita di gente. In tanti
si sono affrettati a prendere posto sotto il porticato, i ritardatari invece si
sono attrezzati di ombrelli e pazienza accalcandosi fin sotto il palco. Non ci
sono controlli nella piazza, nessun cordone di polizia, nessuna sorveglianza
speciale, eppure dovrebbero esserci perché solo ieri alla stampa bresciana è
arrivata una lettera firmata Ordine Nero-Gruppo Anno Zero-Brixien Gau che
minaccia attentati dinamitardi contro esercizi pubblici, invece le forze di
polizia che di solito sono solite essere posizionate sotto il loggiato oggi
sono nel cortile della Prefettura. Ci sono quasi tre mila persone in Piazza
della Loggia in questa fredda giornata di primavera, quello che si potrebbe
definire il “popolo”: operai, insegnanti, ci sono lavoratori e pensionati, tanto
proletariato e poca borghesia, tanto per usare dei termini che hanno il sapore
di un tempo passato. E poi ci sono le bandiere, moltissime bandiere, ci sono
quelle dei sindacati, delle organizzazioni antifasciste, dei partiti, ci sono i
socialisti, i repubblicani, c’è anche la Democrazia Cristiana. Ma assieme a
loro ci sono anche Marco Toffaloni e Roberto Zorzi, due ragazzi come tanti, uno
ha solo 17 anni e l’altro ne ha 20 anni. Il più piccolo dovrebbe essere a
scuola e invece è lì, che guarda Zorzi farsi largo tra la folla cercando di
raggiungere il porticato senza perdere di vista né lui né lo zaino che indossa.
Dentro c’è un involucro di carta, Zorzi si confonde tra i manifestanti, si appoggia
ad una colonna vicino a un cestino della spazzatura. Questa posizione, guadagnata
centimetro dopo centimetro approfittando della confusione e della calca, non è
casuale. Il cestino, svuotato dalla nettezza urbana tra le 06:30 e le sette del
mattino e non più ispezionato dalle forze di polizia è perfetto per contenere il
pacchetto. Attende, mette lo zaino a terra, lo apre, estrare il pacchetto per
infilarlo nel cestino cercando il contatto visivo con Toffaloni che non è distante
da lui. Entrambi si guardano intorno, cercano minacce e valutano possibili vie
di fuga prima di allontanarsi, così gli ha detto di fare Carlo Maria Maggi. 40enne
laureato in medicina, medico presso l'ospedale geriatrico Giustinian di Venezia
e medico di base nell'isola della Giudecca, ha alle spalle 3 carabinieri
morti a Peteano, una frazione di Gorizia, dove il 31 maggio di due anni fa li
ha fatti a pezzi con un’autobomba. È il referente per il Triveneto di Ordine
Nuovo, un movimento neofascista falange extraparlamentare di estrema destra
guidato dal politico Clemente Graziani e nato nel dicembre del
1969 poco prima della strage di Piazza
Fontana a Milano del 12 dicembre 1969 da parte di alcuni
militanti dell’associazione politico-culturale di estrema destra Centro Studi
Ordine Nuovo fondata nel 1956 dal politico esponente del Movimento
Sociale Italiano Pino Rauti. Con Maggi c’è anche Maurizio Tramonte, il suo
braccio destro. Di soli 21 anni, intelligentissimo e fin dalla prima adolescenza
attivista del Movimento Sociale Italiano ora è sotto l’ala protettrice del
neofascista siciliano leader della lotta armata, il 30enne romano Pierluigi
Concutelli, non il solo ad aver notato la sua intelligenza. L’hanno notata
anche i servizi segreti del SID, il Servizio Informazioni e Difesa, tanto da
reclutarlo come informatore col nome in codice "Fonte Tritone". Maggi
e Tramonte si sono incontrati per settimane fino a tre giorni fa con Ermanno
Buzzi, Carlo Digilio e Marcello Soffiati, discutendo, scegliendo, pianificando,
nell’abitazione ad Abano Terme di Gian Gastone Romani, un militante della
destra veneta, dove hanno finito di mettere a punto gli ultimi preparativi del
piano ideato da Maggi per la prosecuzione della strategia stragista iniziata a
Milano il 12 dicembre 1969 in Piazza Fontana coi 17 morti e gli 88 feriti della
bomba nel salone della Banca Popolare dell’Agricoltura. Quello, così come
l’attentato eclatante al treno “direttissimo” Freccia del Sud del 22 luglio
1970, fa parte di una serie preordinata e ben congegnata di eventi atti alla
destabilizzazione del paese. Complici la forte ondata di lotte sociali del
1968-69 e l’avanzata anche elettorale del Partito comunista italiano, sono
volti a creare in Italia uno stato di tensione e una paura diffusa nella
popolazione tali da far giustificare o addirittura auspicare svolte di tipo
autoritario, trasformando l’Italia in una sorta di dittatura “morbida”. Una
strategia eversiva questa gestita da una pluralità di soggetti: la componente
neofascista e rivoluzionaria, mera manovalanza, che spinta da elementi
infiltrati all’interno la stanno spingendo a compiere azioni terroristiche, la
componente dei servizi segreti del SID, che non privi di complicità e legami
internazionali stanno fornendo gli elementi infiltranti e garantendo la
copertura degli eventi attribuendone la paternità ad altri o sfruttando
mediaticamente a proprio favore perfino episodi esterni alla strategia, e la
componente massonica, che sta fungendo da direttivo. Digilio, nome in codice
“Erodoto”, l’artificiere della cellula, 37enne romano, militare di carriera esperto
di esplosivi e anche lui agente del SID, ha assemblato una piccola bomba con un
innesco temporizzato che avrebbe acceso 700 grammi del primo esplosivo plastico
della storia, lo stesso utilizzato per parte della bomba alla Banca Nazionale
dell'Agricoltura quel 12 dicembre: la Gelignite, esplosivo a base di
Nitrocellulosa, composto chimico con proprietà infiammabili-esplosive scoperto
dal chimico tedesco Christian Friedrich Schönbein nel 1846, dissolta in Nitroglicerina,
la sostanza scoperta dal chimico e medico italiano Ascanio Sobrero nel 1847
sintetizzando proprio la Nitrocellulosa seguendo gli esperimenti falliti nel
1845 del chimico tedesco Christian Friendrich Schönbein, e miscelata con polpa
di legno e Nitrato di Potassio. La Gelignite era stata inventata nel 1875 dal
chimico e ingegnere svedese Alfred Nobel, già inventore della Dinamite ed essendo
molto più stabile poteva essere maneggiata con maggiore sicurezza tanto da
diventare il miglior prodotto in uso per le attività estrattive, essere
fabbricata in enormi quantità e, grazie al suo potere distruttivo, il primo
esplosivo preferito dell’IRA irlandese che aveva fatto scuola ai “lealisti” di
tutto il mondo, compreso Ordine Nuovo, che aveva deciso di averlo nelle sue
scorte da cui hanno attinto nuovamente tramite Delfo Zorzi. Zorzi ha 27 anni, è
nativo di Mestre, laureato in Lingue Orientali all’Istituto Universitario
Orientale di Napoli è anche lui un esponente di Ordine Nuovo. Assieme a Carlo
Maria Maggi guida la cellula veneziana-mestrina del movimento, è lui che ha
messo la bomba, nascosta in una borsa Mosbach-Gruber sotto il tavolo ottagonale
dell’atrio della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano il 12 dicembre del
1969, che ha ucciso 17 persone. Questa organizzazione è una vera e propria struttura
armata articolata in più cellule, da quella di Venezia-Mestre a quella di
Padova. In questa rete eversiva protetta dagli apparati statali e utilizzata in
chiave anticomunista, ogni qualvolta che una cellula si attiva agisce
indisturbata attivando in parallelo la propria armeria e la propria polveriera.
Ed è proprio da una di queste, nello specifico quella occultata nel retro del
ristorante Lo Scalinetto alla Giudecca, a Venezia, che un altro ordinovista,
Marcello Soffiati ha prelevato il pacco portandolo a Verona fermandosi nel suo
appartamento di via Stella e consegnando il contenuto già armato della sua
valigetta 24 ore a Digilio e Buzzi, “lo Zio Otto”. Questo, dopo aver rimosso il
quadrante della sveglia e staccato uno dei contatti mettendo in sicurezza la
bomba per il viaggio, la valigia è stata portata a Milano per consegnarla
riarmata a Marco Toffaloni e Roberto Zorzi, la manovalanza, utilizzata per puro
interesse personale e prezzolata approfittando del loro ingenuo fanatismo. È
stato deciso di utilizzare un esplosivo incartucciato, 15 candelotti, non di
marca jugoslava come alla Banca dell’Agricoltura, ma con simile sistema di
armamento. Questo è costituito da un detonatore a fuoco annegato in uno dei
candelotti, una versione moderna del tubetto di stagno progettato da Alfred
Nobel nel 1867. All’estremità di questo artifizio primario contenente una
piccola quantità di esplosivo secondario, la Pentrite, esplosivo dirompente ed
innescante di caratteristiche così elevate da essere classificato come "superesplosivo”,
preparata per la prima volta nel 1891 dal chimico tedesco Bernhard Tollens, ed
innescata a sua volta da uno primario, l’Azoturo di Piombo, il preparato della
Curtis's and Harvey Ltd Explosives Factory del 1890, Digilio ha incastrato uno
spezzone di pochi centimetri di miccia del tipo a lenta combustione. Questa è
un cordone di cotone reso impermeabile con un’anima di polvere nera, moderno
discendente del cordone di canapa catramata brevettata il 6 settembre 1836 da
William Bickford e calibrata per un percorso della fiamma di un metro per 120
secondi. Alla miccia ha poi nastrato un fiammifero antivento avvolto da un filo
di nichel-cromo collegato al congegno meccanico a tempo costituito da una
grossa sveglia di marca Ruhla, un modello molto comune, e una batteria da 4,5
volt che alimenta e completa l’ordigno. I contatti per la chiusura del circuito
sono stati studiati in modo da fare toccare due punti metallici al di sotto del
quadrante avvitando due fili elettrici collegati uno ad una lancetta e l’altro
al capo esterno di un perno in metallo avvitato al quadrante in plastica, e
piegando verso l’alto la punta della lancetta dei minuti per facilitare il
contatto con la parte verso l’interno del perno in metallo. Sono le ore 10:12, il
comizio è cominciato. Sul palco ci sono anche l'Onorevole Adelio Terraroli del Partito Comunista Italiano e il segretario
della Camera Del Lavoro di Brescia Gianni Panella. Sta parlando Franco Castrezzati,
sindacalista della CISL, la folla lo ascolta con attenzione. All’improvviso, all’interno
del pacco, la lancetta dei minuti sfiora il perno sul quadrante, il circuito
elettrico si chiude, la corrente dalla batteria arriva al filo di nichel-cromo
che in pochi secondi si arroventa accendendo il fiammifero antivento che scalda
lo spezzone di miccia. Il calore arriva all’anima di Polvere Nera che si
infiamma, mancano pochi secondi. La fiamma percorre per intero lo spezzone di
cordone impermeabile, la fiamma entra all’interno della capsula di alluminio
del detonatore annegato nell’esplosivo, la carica primaria si innesca. In una
reazione a catena di poche frazioni di secondo l’Azoturo di Piombo attiva la
Pentrite, la reazione a catena all’interno della capsula fa detonare la
Gelignite con una velocità di 7.900 metri al secondo. Un botto, un’esplosione
fortissima proveniente dal piccolo cestino della spazzatura attaccato ad una delle
colonne di marmo lacera il cielo grigio e zittisce Castrezzati che solleva lo
sguardo in direzione del boato. L’esplosione massacra tutti quelli che si
trovano attorno al cestino: investe per primo Bartolomeo Talenti, operaio di 56
anni, sfigurandolo; poi raggiunge Vittorio Zambarda ed Euplo Natali, 60 anni
operaio il primo e 69 anni ex partigiano il secondo; centra con una raffica di
schegge Luigi Pinto, un insegnante di 25 anni; lancia lontano Livia Bottardi 32
anni, insegnante di lettere, e Giulietta Banzi, 34 anni, anche lei insegnante
ma di francese; Clementina Calzari Trabeschi, 31 anni, insegnante, viene dilaniata
e sbattuta con la faccia per terra. Ma c’è un ombra scura che due secondi e
mezzo dopo ricade sulla folla, è un corpo, o quello che ne rimane, è quello di Alberto
Trabeschi, 37 anni insegnante di fisica. Una nuvola di fumo ricopre parte della
piazza e del porticato, all’interno c’è gente che grida, che si lamenta coperta
di sangue e non sa se sia il suo o quello di qualcun’ altro, che cerca, che si
guarda attorno per vedere se chi aveva accanto c’è ancora. Il cestino della
spazzatura non c’è più, è stato fatto in mille pezzi, sparito con parte della
colonna e una manciata di persone. Ad un paio di metri c’è il corpo di una di
queste, dilaniato dalle schegge, poi un secondo, e un terzo, completamente
sfigurato. 5.000 litri di gas ad alta pressione e 4.200 gradi centigradi di
temperatura li hanno distrutti, ma i loro corpi, irriconoscibili e coperti di
sangue hanno fatto da scudo agli altri che nonostante siano feriti sono vivi. L’obiettivo
è raggiunto, la “più politica di tutte le stragi”, un gesto che non voleva colpire
“nel mucchio” in modo indiscriminato per scatenare il panico e suscitare una
richiesta d’ordine come era accaduto per Piazza Fontana, ma con l’intento di “uccidere
proprio queste persone” di una ricca città di provincia governata da sempre
dalla Democrazia Cristiana. In pochi secondi nella piazza si scatena il panico,
la gente scappa dalla parte opposta al fumo, Castrezzati esorta alla folla di
aprirsi, fare largo ai soccorsi e defilarsi per Piazza della Vittoria. Tra la
polvere ci sono altri cinque corpi. Gli arti, separati dal resto del corpo sono
sparsi per il porticato, e poi sangue, un occhio, della materia cerebrale sul
muro. La voce al megafono di Castrezzati esorta nuovamente alla calma ma
inutilmente, chi scappa calpesta chi è a terra. Ci sono corpi inermi, urla
strazianti di chi è ferito e di chi ancora non capisce cosa sta succedendo, tutti
gridano, e poi fumo, tanto fumo che fermo sotto il portico si mischia all’odore
acre dei vapori dell’esplosione e carne bruciata. I corpi a terra vengono
coperti coi cartelli e le bandiere che pochi minuti prima erano tenute verso il
cielo da chi mostrava fiero il suo pensiero. Passano i minuti, arrivano i primi
soccorsi, le sirene delle ambulanze urlano per le vie di Brescia dove
finalmente la pioggia ha concesso una tregua. Vicino al porticato si è formato
un cordone di persone a protezione di un uomo in lacrime, inginocchiato accanto
al cadavere di Alberto Trebeschi, 36 anni, insegnante, militante del PCI. Chi
lo piange è suo fratello Arnaldo, ha appena saputo che anche Clementina Calzari,
32 anni, sua cognata, si trova a pochi metri da lui coperta da uno striscione. Dietro
al cordone, tra una donna e il sindacalista FIOM Piero Faverzan, si intravede un
tizio minuto, i capelli a caschetto, una foto che farà il giro del mondo ne
immortala il lato destro del viso. È Marco Toffaloni, lì ad assistere da vicino
allo strazio di amici e parenti, lì quasi a rivendicarne il merito a scherno
delle bandiere che erano state utilizzate per rendere meno dolorosa e
sconvolgente la vista di quello che era stato capace di fare qualche cartuccia
di gelatina e una sveglia dozzinale. Alle ore 12:30, due ore dopo l’esplosione,
il Vicequestore Aniello Damare darà ordine alle autopompe dei Vigili del Fuoco
di ripulire con getti d’acqua la piazza. Se sarà oppure no un errore, tra
rimpalli di responsabilità dei funzionari di pubblica sicurezza, non si saprà
mai. Le tracce dell’esplosivo comunque verranno cancellate prima ancora che i
tecnici della procura possano fare i rilievi, amaro inizio di una vicenda che
per decenni, tra depistaggi, sparizioni di prove e false testimonianze, getterà
una coltre d’ombra sugli apparati statali italiani.
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