TIPOLOGIA: attentato
CAUSE: mina sotterranea
DATA: 23 maggio 1992
STATO: Italia
LUOGO: Isola delle Femmine,
Autostrada A29
MORTI: 5
FERITI: 23
Analisi e ricostruzione a cura di Luigi Sistu
È il 1992, è il 23 maggio, Antonino Gioè è appostato con Giovanni Brusca
sulle colline sopra Capaci, a 400 metri di distanza dall’autostrada. Dietro di
loro, a qualche decina di metri ci sono Giovanni Battaglia, Antonino Troia e
Salvatore Biondino, in silenzio. Da questo punto di osservazione sopraelevato aspettano
il passaggio di un convoglio di auto blindate, aspettano il Giudice Giovanni
Falcone, il loro obiettivo numero uno. Procuratore della Repubblica di Marsala,
in città dal 1978 inizialmente impiegato all'Ufficio Istruzione sotto la guida
del Giudice Rocco Chinnici, ucciso sotto casa assieme a parte della scorta con
un’autobomba il 29 luglio 1983, ha lavorato assieme ai Giudici Paolo Borsellino,
Giuseppe Di Lello, Leonardo Guarnotta, Ignazio De Francisci, Gioacchino Natoli
e Giacomo Conte, costituenti un pool antimafia sviluppato e reso operativo dal Sostituto
Procuratore Generale di Firenze Antonino Caponnetto che confermava la linea
inaugurata da Chinnici di centralizzare le indagini sul fenomeno mafioso al
fine di favorire la circolazione e la condivisione delle informazioni emerse e,
quindi, di avere un quadro globale sul fenomeno e le sue dinamiche criminali.
Questo stabile gruppo di giudici istruttori destinati esclusivamente a
occuparsi di processi di mafia, concentrandosi sui membri dell’organizzazione
di Cosa Nostra, dai meno potenti ai più influenti, ha creato e sta continuando
a crearle non pochi problemi tanto da mobilitare le “Commissioni” e farle
riunire per decidere se e come affrontare il problema. Reggente del mandamento di
San Giuseppe Jato, con alle spalle la bomba di via Federico Giuseppe Pipitone,
a Palermo, dove aveva fatto saltare in aria proprio il Giudice Rocco Chinnici e
parte della sua scorta, Brusca è stato scelto dalla Commissione Regionale, il
massimo organo decisionale dell’organizzazione mafiosa, come coordinatore di
questa operazione. La sua responsabilità è altissima, è teso, fuma una
sigaretta dietro l’altra. A terra ci sono cinque pacchetti di Merit e due di
Malboro, l’attesa è snervante, guarda in maniera compulsiva la strada e il
radiocomando che sta stringendo tra le mani mentre rivolge qualche parola a
Gioè che non stacca l’occhio dal cannocchiale. Gioè invece è il capo della
Famiglia di Altofonte, nel mandamento di San Giuseppe Jato, anche lui un nome
importante in Sicilia. In piedi, sotto un sole caldo in questo spiazzo di Montagna
Raffo Rosso, sono concentrati, nervosi, il piano è stato preparato con una
perizia maniacale e a questo punto nessuno sbaglio è tollerato. Ricevuto l’ordine
direttamente dai vertici di Cosa Nostra di trovare un posto adatto allo scopo,
i primi sopralluoghi erano iniziati alla fine di marzo. Salvatore Biondino,
Raffaele Ganci e Salvatore Cancemi, rispettivamente capi dei
"mandamenti" di San Lorenzo, Della Noce e Porta Nuova, li avevano
fatti seguendo una buona parte di Autostrada A29, la via più veloce che collega
i 35 chilometri che separano l’aeroporto di Palermo-Punta Raisi alla città, restringendo
il campo alla zona di Capaci, una zona aperta, con ampia visuale anche da lunga
distanza. Associazione criminale di tipo mafioso Cosa Nostra è nata in Sicilia
nel 19° secolo e si è sviluppata esponenzialmente dopo la fine della Seconda
guerra mondiale. Strutturata gerarchicamente, nota in tutto il mondo per gli
attentati, gli omicidi esemplari e la violenza diretta contro lo Stato italiano
con l’eliminazione di uomini politici, poliziotti e magistrati, mantiene il
controllo su numerose attività economiche e politiche regionali ed
extraregionali per mezzo di reti di fiancheggiatori e dell’inserimento di
propri capitali nel settore dei pubblici appalti, della sanità e del turismo,
penetrando perfino nei settori della grande distribuzione alimentare, dei
mercati ortofrutticoli, nelle attività edili e in quelle di tipo
economico-finanziario. L’Organizzazione è divisa in “Famiglie”, ciascuna con un
capo, il “rappresentante”, eletto da tutti gli “uomini d’onore” e assistito da
un vice-capo e uno o più consiglieri. Tre Famiglie, ognuna organizzata in
"'decine" composte da dieci uomini d'onore, i "soldati",
coordinati da un "capodecina", costituiscono un
"mandamento", la zona di influenza, gestito dal “capo mandamento”
anch'esso eletto e che fa parte della "Commissione Provinciale", il
massimo organismo dirigente di Cosa Nostra nella provincia, organismo che
prende le decisioni più importanti, risolve i contrasti tra le famiglie,
espelle gli uomini inaffidabili, controlla tutti gli omicidi, inferiore in quanto
a potere soltanto a quella "Regionale". Corruzione e riciclaggio sono
il volano che ha permesso a Cosa Nostra di radicarsi, anno dopo anno, sempre di
più nel territorio accrescendo il proprio potere in maniera spropositata. Il lavoro
dei tre capi-mandamento aveva richiesto due mesi interi e nell’epoca del
“pentitismo” iniziata con le rivelazioni date da Tommaso Buscetta, uno dei
primi mafiosi a cominciare a collaborare con la giustizia durante le inchieste
coordinate proprio da Giovanni Falcone che avevano permesso, per la prima
volta, una dettagliata ricostruzione giudiziaria dell'organizzazione e della
struttura della criminalità siciliana dando inizio al declino del potere
mafioso, la sentenza di Cassazione che confermava gli ergastoli nel Maxiprocesso
per crimini di mafia del 30 gennaio con 360 condanne per complessivi 2.665 anni
di carcere e undici miliardi e mezzo di lire di multe da pagare, segnando un
grande successo per il lavoro svolto da tutto il pool antimafia, aveva messo in
moto una macchina, ormai impossibile da fermare. Progettata dai vertici della
Commissione Regionale che aveva riunito i leader delle province di Palermo,
Trapani, Agrigento, Caltanissetta ed Enna, incontratisi tra settembre e
dicembre dell’anno scorso per diverse settimane in un casolare della provincia
di Enna, presieduti da Salvatore Riina, il 72enne capo del mandamento di
Corleone e supercapo di Cosa Nostra, avevano discusso una strategia di destabilizzazione
politica che si sarebbe snodata con l’omicidio di uomini politici e con
attentati dinamitardi, un complesso piano di destabilizzazione politica da
attuarsi con eventi cruenti che avrebbero dovuto dare una spallata al vecchio
sistema politico che non offriva più protezione. Questa era effettivamente iniziata
dopo il definitivo unanime benestare dei membri della Commissione Regionale e
Provinciale in due riunione distinte svolte nella villetta palermitana di via
Margi Faraci di Girolamo Guddo, uomo di spicco delle famiglie palermitane,
mafioso di Altarello di Baida e cugino del boss Salvatore Cancemi. Con la prima
che aveva visto partecipare i nomi di spicco dell’organizzazione, Salvatore
Riina, Matteo Motisi, Giuseppe Farinella, Giuseppe Graviano, Carlo Greco,
Pietro Aglieri, Michelangelo La Barbera, Salvatore Cancemi, Giovanni Brusca,
Raffaele Ganci, Antonino Giuffrè, Giuseppe Montalto e Salvatore Madonia, e con
la seconda che aveva riunito Riina, Biondino Ganci, Brusca, La Barbera e
Cancemi, la mattanza era iniziata la mattina del 12 marzo a Palermo con
l’omicidio dell’onorevole Salvo Lima, il più potente politico siciliano leader
della Democrazia Cristiana nell’isola, ucciso perché non era riuscito a
impedire le tante condanne inflitte ai mafiosi al termine del più grande
processo penale mai svolto in Italia. Per il Giudice Falcone il Punto Zero era
stato scelto valutando con cura ogni dettaglio e Brusca, Biondino e Pietro
Rampulla, capomafia della Famiglia di Mistretta, nel messinese, legato in
particolare al boss considerato uno tra i più potenti e sanguinari di Cosa
Nostra Benedetto Santapaola, lo avevano ispezionato e proposto in una riunione
tre mesi fa nei pressi di Castelvetrano, incontro in cui le Commissioni Regionale
e Provinciale presiedute da Salvatore Riina, avevano discusso su come
affrontare il problema, una questione d’urgenza dove Riina si era già espresso
durante un ulteriore incontro ad inizio febbraio con Raffaele Ganci, Salvatore
Cangemi, Salvatore Biondino e Gioacchino La Barbera, capo del mandamento di
Passo di Rigano-Boccadifalco. E dopo la frase “Falcone sta facendo più danni a
Roma che a Palermo” pronunciata dal capo della Commissione Regionale che Matteo
Messina Denaro, ombra di Riina, capo del mandamento di
Castelvetrano e rappresentante indiscusso della mafia della provincia
di Trapani, Vincenzo Sinacori, il suo braccio destro e uomo di spicco del
trapanese, Mariano Agate, capo del mandamento di Mazzara Del Vallo, Bernardo
Provenzano, sostituto capo del mandamento di Corleone, Salvatore Biondino e i
fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, capi del mandamento di
Brancaccio-Ciaculli, non avevano avuto più dubbi: il Giudice doveva morire, avrebbe
dovuto farlo al più presto, in maniera plateale ma soprattutto, in Sicilia, sul
territorio di Cosa Nostra, nonostante questo avrebbe richiesto molte più
risorse e un coefficiente di difficoltà maggiore nella realizzazione. Essendo
stato nominato a Roma Direttore Generale degli Affari Penali, nonostante il
Giudice nella Capitale trascorra la vita di un uomo normale, senza una scorta e
coi protocolli di sicurezza ridotti al minimo, ciò non aveva fatto cambiare
idea alla Commissione sul da farsi. L’attentato sarebbe dovuto essere fatto in
un luogo per cui non ci fossero dubbi che a colpirlo fosse stata la Mafia. Con
quella carica al Ministero della Giustizia, Falcone si era fatto promotore
dell'istituzione della Procura Nazionale Antimafia, la cosiddetta
Superprocura, la direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, che avrebbe
consentito di realizzare un potere di contrasto alle organizzazioni mafiose sin
lì impensabile. L’omicidio, pianificato sì per vendetta, sì per la conferma
degli ergastoli della Cassazione, avrebbe avuto anche un terzo aspetto,
fondamentale, quello preventivo. Poiché egli, da magistrato al servizio dello
Stato e della Politica, ispirando questa sulla giustizia e sulla lotta alla
Mafia, sta ponendo dei paletti che stanno creando dei problemi alla criminalità
organizzata legata al mondo della politica e della finanza, danni che sarebbero
aumentati esponenzialmente se gli fosse stata data la possibilità di continuare
a coltivare i rapporti diventati intimi con la politica in grado di indirizzare
quella legislativa verso il contrasto alla criminalità mafiosa e ai suoi grandi
interessi con la centralizzazione delle indagini. Con un ulteriore incontro, sempre
nella a casa di Girolamo Guddo, alla presenza di Riina, Cancemi, Biondino,
Brusca, Rampulla e Raffaele Ganci, erano stati organizzati i due gruppi “di
fuoco” responsabili della gestione delle operazioni, sia logistiche che
organizzative, dove Salvatore Biondino avrebbe costituito il punto di raccordo:
quello di Palermo composto da Raffaele Ganci, i due figli Domenico e Calogero,
Cancemi, Giovan Battista Ferrante, uomo d'onore della famiglia di San Lorenzo, il
nipote Antonino Galliano, Gioacchino La Barbera; e quello di Capaci costituito
da Brusca, Mario Santo Di Matteo, detto Mezzanasca, della famiglia di
Altofonte, del mandamento di Porta Nuova-San Giuseppe Jato, Gioè, Rampulla, Antonino
Troia e Giovanni Battaglia, della Famiglia di Capaci, Leoluca Bagarella, del
mandamento di Corleone, fratello di Ninetta, la moglie di Riina, e Ferrante,
Salvatore Biondo e Giuseppe Graviano, del mandamento di Brancaccio-San Lorenzo.
La zona dell’autostrada esaminata era risultata perfetta, questo perché il
giudice Giovanni Falcone, lavorando negli uffici di Roma era diventato abitudinario
e tutti i fine settimana, rientrando in Sicilia nel suo domicilio a Palermo,
passa proprio da lì, da quella strada lunga 115 chilometri priva di corsia di
emergenza che collega il capoluogo della Regione Siciliana con Mazzara del
Vallo. La sua abitudine coi mesi era diventata la sua debolezza, debolezza che
qualcuno aveva notato. A controllare i suoi movimenti ci avevano pensato, mese
dopo mese, Raffaele Ganci e i suoi tre figli, Stefano, Domenico e Calogero, dalla
loro macelleria in via Francesco Lo Jacono, un ottimo punto di osservazione a
pochi passi dalla casa del Giudice che aveva consentito di monitorare ogni
spostamento. Giorno dopo giorno avevano visionato le partenze e gli arrivi
dell’autista giudiziario con la macchina blindata, così come avevano tenuto
d’occhio i movimenti degli uomini che lo proteggono, uno per uno,
memorizzandone sia i punti di forza che le debolezze. Per il modo in cui è costantemente
protetto, per il numero di uomini al seguito, per la robustezza delle auto e il
metodo di guida del convoglio, le staffette, la velocità fuori e dentro il
centro abitato, su come affrontare il problema non era rimasto che un modo: una
bomba, una gigantesca bomba sotto la strada. Una tecnica brevettata, se così si
può dire, da una squadra di separatisti dell’organizzazione indipendentista
spagnola ETA il 20 dicembre 1973 a Madrid, dove la Dodge 3700 GT nera blindata del
1971, modello di lusso, blindato, con a bordo José Luis Pérez Mojena, l’autista
del Ministero, Juan Bueno Fernández, Ispettore di polizia, entrambi seduti nei
sedili anteriori, e Luis Carrero Blanco, Primo Ministro spagnolo, era stata
fatta saltare letteralmente in aria da un mina scavata sotto la carreggiata
della via Claudio Coello che conteneva una carica di 191 chilogrammi di
esplosivo per uso civile attivata elettricamente a distanza. L’auto, pesante
1.738 chilogrammi, era stata scaraventata in aria per un’altezza di 35 metri
raggiungendo il tetto di un convento, scavalcandolo e rovinandosi nella corte
interna sulla terrazza del secondo piano stritolando gli occupanti tra le
lamiere. Pietro Rampulla, soprannominato “l’artificiere” per la sua esperienza
con gli esplosivi, era stato convocato su esplicita richiesta di Giovanni
Brusca, richiesta approvata da Riina che si era preso del tempo per valutare se
fosse saggio inserire un “esterno” in un evento di tale importanza, in una delle
tante riunioni tenutesi alla villa della contrada Rebuttone di proprietà di Mario
Santo Di Matteo, ad Altofonte, luogo di incontro e riunione degli appartenenti
alla sua famiglia, dove avevano partecipato anche lo stesso Brusca e Gioè
assieme a Gioacchino La Barbera, Di Matteo e Bagarella. Rampulla, che non è
nuovo a questo genere di “incarichi”, addestrato dai Servizi deviati italiani
nella manipolazione e utilizzo di materiali esplosivi per disposizione del
Generale Luigi Ramponi, direttore del servizio segreto Sismi, il Servizio
Informazioni e Sicurezza Militare nato nel 1977, è infatti un ex militante
di Ordine Nuovo. Associazione segreta neofascista di natura terroristica,
Ordine Nero era nata nel 1974 in seguito alla crisi della più vecchia Avanguardia
Nazionale, organizzazione neofascista e golpista fondata il 25 aprile 1960 dal
politico Stefano Delle Chiaie, e dallo scioglimento a novembre del ‘73 di
Ordine Nuovo, un altro movimento neofascista falange extraparlamentare di
estrema destra guidato dal politico Clemente Graziani nato nel
dicembre del 1969, poco prima della strage alla Banca Nazionale
Dell'Agricoltura di Milano del 12 dicembre, da parte di alcuni militanti
dell’associazione politico-culturale di estrema destra Centro Studi Ordine
Nuovo, creata questa nel 1956 dal politico esponente del Movimento
Sociale Italiano Pino Rauti. In quanto alla scelta dell’esplosivo, istruiti da
un esperto del suo calibro i “tecnici” di Cosa Nostra avevano deciso di
utilizzare ogni aggancio possibile, perfino quello coi gestori della cava di
sabbia INCO di Roccamena-Camporeale, nel territorio di Roccamena, nel Belice,
di proprietà di Giuseppe Modesto, un imprenditore molto vicino a Brusca. Cava
vuol dire ampia disponibilità di esplosivo e Giuseppe Agrigento, persona molto
vicina a Brusca nonché capofamiglia di San Cipirello, era stato incaricato di
recuperarne una discreta quantità che sarebbe andata a costituire una parte di
una carica esplosiva più grossa appositamente progettata per l’”attentatuni”,
il grande attentato. Della seconda parte se ne era occupata invece la Famiglia
di Brancaccio, con Cosimo Lo Nigro, Giuseppe Barranca e Giuseppe Graviano. Quest’ultimo,
il capo della Famiglia, aveva scomodato Cosimo d’Amato, pescatore di Porticello
e cugino proprio del boss palermitano Lo Nigro, che per il recupero
dell’esplosivo era solito attingere da una vecchia nave colata a picco durante
la Seconda Guerra Mondiale e adagiata sul fondale col suo carico intatto nella
stiva. Oggetto dei desideri proibiti per numerosissimi appassionati di
immersioni e per coloro i quali operano nel settore del turismo subacqueo,
questa nave non è solo un’oasi di vita colorata e ricca, spunto per riprese
video mozzafiato facilmente raggiungibile dalla costa, ma è anche una gigantesca
“Santa Barbara” a disposizione dei clan. Varata il 3 gennaio del 1923 per la
Cosulich Società Triestina di Navigazione insieme ai
gemelli Ida, Alberta, Clara, Teresa e Lucia, la
Laura C. era impiegata assieme a loro sulle linee dell’America Settentrionale.
La nave, un piroscafo da carico di 122 metri di lunghezza, 17 di larghezza e 20
mila tonnellate di stazza, era stata confiscata per le sue peculiarità il 29
ottobre 1940 a Trieste dalla Regia Marina per i propri scopi legati al
conflitto bellico in corso. Partita da Venezia il 28 giugno 1941 con
destinazione Tripoli stivava rifornimenti per le forze dell’Asse operanti in
Nordafrica costituenti, oltre un carico di 5.773 tonnellate di materiali tra
cui medicinali, scorte alimentari, biciclette, vestiario, macchine da cucire,
cavi per linee telefoniche e parti di ricambio per automezzi, anche armi,
munizioni e 1.200 tonnellate di esplosivo. Sistemato nella terza stiva poppiera
e costituito da casse contenenti panetti del peso di 200 grammi l’uno, si
tratta del Trinitrotoluene, un esplosivo preparato la prima volta nel 1863 dal
chimico tedesco Julius Wilbrand, perfezionato dal chimico tedesco Hermann
Frantz Moritz Kopp nel 1888 e prodotto industrialmente in Germania un anno dopo
col nome di Tritolo o Tnt. Mentre navigava in convoglio con altri due piroscafi
e scortata da un incrociatore e una torpediniera era stata avvistata da un sommergibile
britannico Upholder che presso Capo dell’Armi, in Calabria, le aveva lanciato contro
tre siluri che avevano fermato i motori, bloccato il timone e allagato le
stive. L’equipaggio, deciso a fare incagliare la nave in costa trascinata da
due rimorchiatori alla foce della fiumara di Molaro, sulla spiaggia di Saline
Ioniche, per salvare la nave o almeno il suo carico, non aveva fatto caso alla
configurazione del fondale, molto scosceso, che aveva fatto sì che
la Laura C., nel giro di poco più di sette ore scivolasse all’indietro
affondando senza spezzarsi alla profondità di 50 metri e a 100 metri dalla
spiaggia. Negli anni, mentre parte delle vettovaglie che facevano parte del
carico, finite a riva, erano diventate una insperata risorsa per la popolazione
locale affamata dai razionamenti imposti dalla guerra, l’esplosivo è stato
abbondantemente prelevato dai sub della ‘Ndrangheta calabrese, della Cosa
Nostra siciliana, della Camorra campana e della Sacra Corona Unita pugliese con
l’obiettivo di confezionare bombe per la loro personale strategia della
tensione. A recuperare la trasmittente c’aveva pensato Rampulla, ne aveva
recuperato due, presi in coppia nell’eventualità uno avesse presentato problemi
in fase di collaudo. Li aveva portati due giorni dopo la riunione in cui era
stato presentato agli altri, nello stesso posto, la casa un po’ fuori
dall’abitato di proprietà di Mario Santo Di Matteo, ad Altofonte, in contrada
Rebuttone, e consegnati nelle mani degli stessi ma con in più Biondo e Biondino
che li avevano presi dal camioncino con cui era arrivato, usato per il
trasporto di un cavallo e nascosti sotto la paglia in una scatola di
polistirolo. Ognuna non era altro che un radiocomando di quelli generalmente
usati per manovrare gli aeromodelli, un GIG NIKKO “r/c systems full function”
modello del 1990, quindi facilmente reperibile in un qualsiasi negozio di
giocattoli, dotato di antenna telescopica in metallo e munito della doppia leva
ognuna con due gradi di libertà, su-giù e sinistra-destra, dove era stata
bloccata, sigillandola col nastro isolante, la prima. Tale decisione era frutto
di mera precauzione poichè gli operatori volevano essere sicuri che nel momento
dell’azione non ci potesse essere occasione di sbagliare leva spingendo quella
delle due non collegata con la ricevente inserita nella carica. La stessa
diligenza li aveva spinti, sempre al fine di garantirsi con un margine ancora
più ampio la sicura realizzazione dell’effetto esplosivo, a sigillare anche in
una direzione la leva che avrebbe collegato la trasmittente alla ricevente
adoperata per evitare che nel momento topico chi doveva premere la levetta
potesse sbagliare la direzione in cui si doveva muovere. Si era avuto cura di
fare in modo che chi doveva inviare il segnale non avesse alternativa nello
scegliere la direzione e fosse quindi costretto a muoversi solo in quella
giusta, verso destra, l’unica idonea ad attivare la carica. Per quanto riguarda
la ricevente, era stata interamente fatta a mano riciclando dei ricambi per il modellismo
dinamico e quindi anch’essi comprati in vari negozi del settore. Così come il
radiocomando, non era altro che la versione moderna di quella utilizzata per
l’attentato al Giudice Rocco Chinnici, Direttore dell’Ufficio Istruzione del
Tribunale di Palermo, ucciso facendo saltare in aria una Fiat 126 verde oliva
del 1977 mentre stava per salire a bordo dell’Alfetta 2000 blindata che lo
attendeva con lo sportello aperto davanti allo stabile in cui viveva per
accompagnarlo al Palazzo di Giustizia. Avvitando assieme dei pannelli molto
sottili di legno compensato avevano costruito una scatola delle dimensioni di
20 centimetri di lunghezza, 15 di altezza e 10 di profondità nella quale era
stato imbullonato un motorino elettrico, quello classico per la movimentazione
dello sterzo delle automobili, attivato a distanza tramite la sua piccola
antenna di plastica flessibile fatta fuoriuscire dall’involucro attraverso un
foro creato ad hoc. Alimentato da una serie di batterie da 1,5 Volt, al momento
dell’attivazione avrebbe mosso un chiodo che ruotato di 45 gradi sarebbe andato
ad urtare due lamelle metalliche mettendole in comunicazione e chiudendo un circuito
separato dove un’altra serie di batterie, stavolta un modello piatto da 4,5
Volt con strisce metalliche come terminali, avrebbero dato corrente al cavo della
linea di tiro a cui all’estremità opposta sarebbe stato fissato il detonatore. Per
la predisposizione del congegno, anche se amatoriale e moderatamente complesso,
non erano state necessarie particolari capacità tecniche, era stata sufficiente
una media cultura elettronica ed elettrotecnica. A testarlo, verificandone
empiricamente l’efficienza in veranda nei primi giorni di maggio, ci aveva
pensato Brusca. Per constatare se l’impulso radio trasmigrava dalla
trasmittente alla ricevente, posto che non era pensabile aspettare di fare la
verifica con la carica composta, erano state usate delle lampadine flash monouso
acquistate personalmente da La Barbera. La prova era consistita nell’applicare
la lampadina al filo che usciva dalla ricevente, lo stesso che poi sarebbe
stato collegato alla linea di tiro e quindi al detonatore, pertanto era volta a
verificare l’effettività della trasmissione del segnale e a saggiare anche le
possibilità che il sistema così costruito andasse incontro ad interferenze di
altre onde vaganti nell’etere. Poiché nessun espediente poteva escludere tale
evenienza, la soluzione adottata sarebbe stata quella di provvedere
all’attivazione del congegno solo nell’imminenza dell’arrivo del corteo delle
blindate. Avuta la conferma che trasmittente e ricevente fossero efficienti, i
successivi test erano stati con l’esplosivo vero e proprio, due per provare che
l’impulso fosse sufficiente ad alimentare l’intero circuito ed accendere il
detonatore, uno per provare che questo innescasse una carica con le successive
valutazioni degli effetti. Brusca, Gioè e Bagarella, dopo aver constatato che i
detonatori si erano armati e che la corrente non trovava intoppo nel circuito,
si erano fatti dare da Salvatore Biondino 5 chilogrammi di Tritolo, li avevano
intasati in un tubo di plastica, lo avevano adagiato sul fondo di una fossa
scavata preventivamente da La Barbera con una terna, l’avevano riempita prima
con 4 metri cubi di cemento, poi con la terra, e avevano aspettato che
Rampulla, sempre presente quando si doveva maneggiare l’esplosivo, desse
corrente dalla collinetta non lontano dall’abitazione. L’esplosione era stata
potente, il terreno si era sollevato creando una grossa voragine ma per
sventrare una carreggiata la carica da assemblare sarebbe dovuta essere di
dimensioni considerevoli e cosa più importante, posizionata in un punto dove
l’esplosione avrebbe massimizzato gli effetti. Lo studio della carica era iniziato
quasi da subito, da quando la Commissione aveva dato il via libera alle
operazioni. La mattina del 12 marzo, alle ore 10:30, Giuseppe Agrigento si era
allontanato abusivamente dal suo posto di lavoro, il mattatoio di Altofonte, e
aveva portato con la sua Fiat Tipo bianca nella casa di contrada Rebuttone, dove
lo aspettava Di Matteo su incarico di Brusca, quattro sacchi di cartone chiusi
artigianalmente con dei lacci che contenevano ciascuno 40 chilogrammi di Nitrato
d’Ammonio del tipo Prilled, in sfere porose da 1-2 millimetri di diametro. Proveniva
da un suo parente, Franco Piedescalzi, che lavora alla INCO di
Roccamena-Camporeale da cui la sua famiglia mafiosa si era in passato rifornita
per approvvigionarsi per altri attentati. Di produzione francese Atochem ELF
Aquitanie e utilizzato, oltre che alla INCO anche nelle cave di Buttitta di
Altofonte, Bagherìa, Trabìa e Modesto, è un fertilizzante preparato la prima
volta dal chimico e farmacista tedesco Rudolph Glauber nel 1659 che lo aveva
chiamato “nitrum flammans” per via del colore giallo della sua fiamma, e
scoperto come prodotto esplodente dal chimico e ingegnere svedese Alfred Nobel
nel 1870. Immediatamente dopo erano arrivati anche altri quattro sacchi in juta
sintetica, ognuno pesante 50 chilogrammi, chiuso con cucitura industriale e
contenente EurANFO ’77. Trasportato stavolta da Gioè, per uso estrattivo e
prodotto dalla Società SEI di Ghedi, in provincia di Brescia, è un ANFO. Nome
che sta per “Ammonium Nitrate Fuel Oil” è una miscela composta
per il 94% in peso di Nitrato d’Ammonio, olio pesante per il 6% e additivi.
Esplosivo di grande sicurezza scoperto nel 1950, è uno dei preferiti dall’ETA
spagnola e dagli estremisti libici e palestinesi, questo grazie alla sua bassissima
sensibilità, il bassissimo costo e la sua enorme potenza. Non potendo restare
in quei sacchi poiché fortemente igroscopico, ovvero capace di assorbire le
molecole d’acqua nell’ambiente circostante che ne avrebbero compromesso
l’efficacia, alla presenza di Ganci, Cancemi, Bagarella, La Barbera, Biondino,
Troia, Rampulla e Gioè, il Nitrato d’Ammonio era stato travasato da Brusca, Di
Matteo e Agrigento in due bidoni, uno della capacità di 100 litri e uno da 50,
di plastica, di colore bianco, coi manici e con tappo a vite procurati da La
Barbera due giorni prima su incarico di Brusca. Dopo il travaso sia i bidoni che
i sacchi erano rimasti lì per due mesi, nel magazzino della casa, dopodiché
erano stati caricati da La Barbera sul suo fuoristrada Nissan Patrol assieme a
Gioé e Di Matteo per essere portati provvisoriamente in una casa di proprietà
di un certo Pietro Romeo, uomo d’onore della famiglia di Altofonte, dove li
aspettavano Bagarella, Brusca e Rampulla. Era seguito quindi un nuovo spostamento,
nel pomeriggio del 3 maggio, poco dopo le 16,00, con destinazione la casa di
proprietà di Antonino Troia, a Capaci, in via Bonomo a soli 300 metri dal punto
in cui sarebbe stato colpito l’obiettivo, a bordo di tre automobili, Brusca e
Rampulla su una Lancia Y10, Di Matteo e La Barbera coi bidoni a bordo del
Patrol e Bagarella e Gioé nella Renault Clio della sorella di quest’ultimo con
la ricevente, la trasmittente e i detonatori elettrici. Avvolti in un foglio di
giornale e provenienti anch’essi dalla cava INCO, sono degli artifizi esplosivi
primari versione moderne di quello elettrico inventato nel 1876 da Julius
Smith. All’interno dell’involucro d’alluminio contengono una piccola quantità
di esplosivo secondario, la Pentrite, uno degli esplosivi più potenti preparata
per la prima volta nel 1891 dal chimico tedesco Bernhard Tollens, innescata a
sua volta da pochissimo esplosivo primario, l’Azoturo di Piombo, preparato
dalla Curtis's and Harvey Ltd Explosives Factory nel 1890, e da una miscela
incendiaria che lo avrebbe acceso tramite un ponticello diventato incandescente
dal passaggio di una corrente elettrica generata dalla ricevente. In quella
villetta di campagna, accanto al pollaio, al recinto con un cavallo e alla
stalla coi due vitelli, il 5 maggio si era compiuto l’assemblaggio finale delle
varie tipologie di esplosivo così da poter comporre la carica con cui sarebbe
stata riempita la mina sotto l’autostrada. Sul posto, ad aspettare i 140
chilogrammi di Nitrato d’Ammonio e i 200 chilogrammi di ANFO c’erano 100
chilogrammi di Trinitrotoluene prelevati dal piroscafo da carico Laura C. e 20
chilogrammi di Composizione B provenienti da una residuato bellico della
Seconda Guerra Mondiale rimasto impigliato nella rete di un peschereccio,
evento non proprio isolato considerato che ogni anno il mare e il suolo
italiano continuano a farne affiorare decine ogni anno, la maggior parte delle
quali armate e potenzialmente letali. Riusciti a portare sul ponte la carcassa
semidistrutta dell’ogiva di una bomba aeronautica a caduta libera americana
“per uso generico, a media capacità” da 227 chilogrammi, gli uomini a bordo
erano riusciti ad aprire il corpo lungo 104,2 centimetri e con un diametro di
32,8 ed asportarne il contenuto rimasto, poco rispetto ai 100,7 chilogrammi in
dotazione, ma comunque in buone condizioni e ancora operativo. Conosciuta anche
col nome italiano di Tritolite, creata e sviluppata agli inizi della Seconda
Guerra Mondiale dai laboratori di ricerca americani, la Composizione B è
composta da una percentuale di 59,5% di RDX, 39,5% di Tritolo e un 1% di cera
sintetica di paraffina. L’RDX, formalmente chiamato Ciclotrimetilenetrinitramina,
ha caratteristiche eccezionali ed è stato scoperto e brevettato dal chimico e
farmacista tedesco Georg Friedrich Henning nel 1898. È stato codificato con
questo nome prima dall’esercito inglese come Royal Demolition eXplosive e poi
prodotto in larga scala dagli Stati Uniti nel 1920 come “RD” Research and
Development, ricerca e sviluppo, sigla comune a tutti i nuovi prodotti per la
ricerca militare, e "X", la classificazione, nata come lettera
provvisoria ma rimasta definitiva. Il Tritolo “giunto dal mare” arrivava da un
vecchio casolare di proprietà della zia di Gaspare Spatuzza, un affiliato della
famiglia di Brancaccio guidata dai Graviano, proprio accanto alla proprietà
della madre e solitamente usato come deposito, in cui era rimasto nascosto per
settimane. Recuperato al porto dopo essere arrivato in banchina all’interno di
fusti cilindrici delle dimensioni di un metro per 50 centimetri di diametro
legati con delle funi alle paratie del peschereccio di Cosimo d’Amato, era
stato trasportato, nascosto sotto delle reti da pesca nel cassone dell’Ape
Piaggio di Cosimo Lo Nigro da Spatuzza, in un capannone al civico 1419/D di
Corso dei Mille, a Palermo, luogo sotto l’influenza della famiglia di Roccella
capeggiata da Antonino Mangano, una delle quattro famiglie componenti il
mandamento di Brancaccio. Lì i bidoni erano stati in stallo mezza giornata
prima di essere trasferiti da Cristofaro Cannella, detto Fifetto, uomo d’onore
del trapanese, a bordo della sua Wolkswagen Golf nera scortato da Spatuzza in
un altro deposito, questa volta nella zona industriale di Brancaccio e di
proprietà della VaL. TRANS., ditta di trasporti dove Spatuzza è attualmente
impiegato, per essere svuotati del contenuto pronto ad essere deconfezionato
per poi essere portato al casolare di Capaci da Giuseppe Graviano. La Composizione
B arrivava invece da un deposito clandestino di Misilmeri gestito da un certo
Pieruccio Lo Bianco, che prima di darlo a Biondino affinchè lo consegnasse al
casolare lo aveva tenuto in un armadio dopo che un peschereccio trapanese, la
“Stella Maris”, lo aveva portato sulla terraferma. Il Tritolo e la Composizione
B, chiusi prima in federe di cuscini e poi in sacchi neri della spazzatura,
provvisoriamente nascosti in un angolo del piazzale occultato sotto del
materiale inerte scarto della lavorazione delle cave, e coperti da teloni,
erano stati successivamente prelevati e riportati nel rudere della zia di
Spatuzza per essere lavorati e stoccati. Entrambi solidificati per l’azione di
acqua e umidità, di varia pezzatura, da pochi centimetri ad alcune decine, di
colore giallo chiaro il primo, leggermente più scuro il secondo, Cosimo Lo
Nigro, Fifetto Cannella e Giuseppe Barranca si erano occupati della loro
lavorazione scaricandoli su di un tavolo poco alla volta, asciugandoli, sbriciolandoli
artigianalmente schiacciando le scaglie di uno e i grani dell’altro con un
mazzuolo in un contenitore di plastica poi setacciandoli con uno scolapasta,
fasi ripetute più volte fino ad ottenere una grana asciutta e finissima pronta
ad essere ricompattata che era stata successivamente pressata con forza e
riconfezionata in buste di plastica chiuse con nastro isolante. Per
l’assemblaggio finale erano stati fatti due gruppi di lavoro: Brusca, La
Barbera, Gioè e Di Matteo, diretti da Rampulla in virtù della sua peculiare
esperienza, lavorando all’esterno sotto la veranda 5 metri per 4 coperta e
chiusa lateralmente da un telone che Battaglia aveva messo per escludere occhi
indiscreti da parte del vicinato, si erano occupati dell’ANFO e del Nitrato
d’Ammonio; Troia, Battaglia, Ferrante, Biondo e Domenico Ganci, diretti da
Biondino, lavorando all’interno, nel salotto-cucina, avevano pensato al Tritolo
e alla Composizione B. Durante le operazioni, con l’ausilio di guanti da
chirurgo e palette avevano effettuato il travaso del contenuto dai sacchi a dei
bidoni preventivamente puliti in modo da non lasciare impronte, facendo
attenzione a pressare con maniacale cura il materiale all’interno così da poter
utilizzare lo spazio nella sua interezza. Inizialmente l’idea era quella di fabbricare
artigianalmente l’Amatolo, una miscela esplosiva creata durante la Prima Guerra
Mondiale dalle forze armate britanniche, costituita da Nitrato d’Ammonio e
Tritolo, sviluppato e utilizzato largamente nella Seconda Guerra Mondiale come
riempimento delle bombe aeronautiche. Essendo un composto variabile e con
effetti diversi a seconda delle proporzioni degli ingredienti, 60/40, 50/50,
80/20, sia perché i “tecnici” non erano pratici nella miscelazione, sia perché
le operazioni si sarebbero protratte troppo a lungo con la possibilità di
attirare curiosi, la sua fabbricazione era stata interrotta dopo mezz’ora optando
per l’utilizzo delle basi al naturale. L’attività di travaso, durata quasi due
ore, dopo aver quindi visto abbandonare l’originario tentativo di miscelare i
diversi tipi di esplosivo di cui avevano disponibilità al fine di ottenerne uno
più potente, era proseguita col riempimento dei bidoncini ma ciascuno con un
tipo di esplosivo diverso, confidando nell’innesco degli elementi più “lenti” come
il Nitrato d’Ammonio disponendoli dopo quelli più “veloci” come il Tritolo. Finite
le operazioni la carica era lì, completa e terribile: 480 chilogrammi di
miscela detonante ad altissimo potenziale confezionata in 13 fusti in
polietilene ad alta densità a bocca larga per l'industria farmaceutica, la
chimica specializzata e gli ingredienti alimentari, comunemente utilizzati
come serbatoio per acqua distillata nelle officine meccaniche, bianchi,
con manici e tappo nero con chiusura a vite, 12 da 30 litri, di 45 centimetri
di altezza, diametro totale di 38 centimetri e 30 d’apertura, e uno da 50, di 49
centimetri di altezza, diametro totale di 41 centimetri e 35 d’apertura, dove: in
2 avevano sistemato il Nitrato d’Ammonio, caratterizzato da minore attitudine
alla detonazione essendo “sordo” all’innesco con semplici detonatori ma pur
sempre in grado, se innescato con altri esplosivi più “nobili”, di sviluppare
una velocità di detonazione dai 2.000 ai 3.000 metri al secondo; in 2 l’ANFO, con
velocità di detonazione di 4.000 metri al secondo; in 2 l’Amatolo “fabbricato”
nella versione 50/50 con la proporzione di 50% Nitrato d’Ammonio e 50% Tritolo,
con velocità di detonazione di 5.000 metri al secondo; in 6 avevano pressato il
Tritolo, con velocità di detonazione di 6.800 metri al secondo e per
concludere, in quello più grande, avevano sistemato nella parte bassa il
Tritolo e sopra di esso, separato da uno strato di cartone, la Composizione B,
con velocità di detonazione di 8.400 metri al secondo in funzione di booster,
di carica di spinta. In essa, Rampulla, una volta sotto l’autostrada, avrebbe annegato
due detonatori elettrici collegati ad un unico filo fatto uscire dal
contenitore tramite un buco nel tappo, fissato con nastro isolante, srotolato
nel cunicolo e collegato solo nel momento finale alla centralina ricevente. Dopo
aver bruciato l’occorrente utilizzato nel travaso, dalle scope, ai guanti, fino
al telone, Giovanni Battaglia e Antonio Troia erano stati incaricati da
Salvatore Biondino di prendere in custodia i bidoni e gli accessori per qualche
giorno poiché, essendo del posto, avrebbero potuto agevolmente muoversi nei
paraggi e vigilare la zona. Dopo averli inizialmente riposti dietro la casa
riparati nella vegetazione, erano stati successivamente interrarti e coperti
con del letame all’ingresso del terreno, vicino al cancelletto d’ingresso poco
distante dal pollaio. Già prima che si iniziasse la fase preparatoria
conclusiva dell’esplosivo, gli uomini di Cosa Nostra avevano cercato di capire,
tramite delle prove di velocità su strada, la tempistica con cui gestirne la
sequenza di avvio. Le prime, nel pomeriggio del 7 maggio, lungo la strada che
porta dall’abitazione di Di Matteo, in contrada Rebottone, alla strada provinciale,
avevano costituito il tentativo, riuscito, di fissare, rispetto alla posizione
del cunicolo, che doveva ospitare la carica esplosiva, dei parametri fissi,
indispensabili per colpire il bersaglio in fase dinamica mentre passava sopra
l’esplosivo. Rampulla aveva provveduto ad azionare il telecomando, Gioé a
controllare una lampadina collegata alla ricevente, La Barbera sistemato a
monte aveva monitorato le prove, e Di Matteo e Brusca si erano alternati nel
guidare l’autovettura, una Lancia Delta Integrale di colore bianco appartenente
al primo. Capito il meccanismo tramite questa simulazione servita a ricreare
quale sarebbe potuta essere la dinamica dell’attentato e conseguentemente ad
acquisire, attraverso la pratica sperimentazione, la padronanza della
situazione che si sarebbe presentata agli operatori in particolare, a chi
avrebbe dovuto azionare la levetta della trasmittente per lanciare il segnale radio
che avrebbe innescato la carica, il gruppo si era spostato con altre due prove
la mattina dell’8 maggio direttamente in autostrada con Ferrante a bordo di una
Audi 80 e Di Matteo con la Delta Integrale. In questo modo avevano calcolato
con distanze, luoghi e condizioni reali, il tempo che avrebbero impiegato le
auto blindate, una volta dato l’impulso dal radiocomando, a raggiungere il
Punto Zero procedendo come da protocollo sulla corsia di sorpasso alla velocità
di 140-170 chilometri orari, contatto poi confermato dall’accensione della lampadina.
Una volta calcolato il tempo di reazione dell’operatore nel premere la leva del
radiocomando, un frigorifero bianco abbandonato sul ciglio della strada da
Rampulla e Biondino avrebbe dato alla vedetta sulle colline un punto di
riferimento per segnalare all’operatore di fare fuoco al passaggio del
convoglio, fuoco che si sarebbe sviluppato nell’esplosione esattamente
all’altezza di tre segni di vernice rossa fatti sul guardrail che avrebbero
invece segnato il Punto Zero, l’ipocentro dell’esplosione, 25 metri più avanti,
sotto la corsia larga 10 metri divisa da quella opposta lato mare da un tratto
di terreno della larghezza di un metro e racchiuso da due guardrail interni. Si
tratta dell’imboccatura di uno dei cunicoli di drenaggio delle acque piovane che
ne assicura il trasporto agli agrumeti, un corridoio stretto e lungo in cemento
che attraversa completamente l’autostrada in senso trasversale e in posizione
leggermente obliqua, della lunghezza di 20 metri di lunghezza da bocca a bocca
e fisicamente perfetto sia per ottenere dalla carica esplosiva un maggiore
lavoro in termini distruttivi ma con un consumo specifico ridotto, sia per
l’ottima visuale da una posizione sopraelevata che consente di tenere sotto
controllo un tratto della strada anche da lontano, soluzione alternativa al
sottopassaggio pedonale a 300 metri dall’aeroporto proposto da Biondino che non
sarebbe mai andato bene poiché l’eccessivo sfogo dalle due uscite nel momento
dell’esplosione avrebbe smorzato l’onda d’urto in senso laterale con un effetto
“cannone” riducendo notevolmente gli effetti devastanti e di conseguenza il
calcestruzzo armato di cui è costituito avrebbe potuto reggere l’esplosione. Mentre
a Palermo Raffaele Ganci, i figli Domenico e Calogero e il nipote Antonino
Galliano continuavano a monitorare dalla macelleria i movimenti delle blindate
che sostavano sotto casa del Giudice per capire quando il giudice fosse tornato
da Roma, l’esplosivo era stato prelevato la sera di venerdì 8 maggio, a prove
di velocità concluse, dalla villa di Troia fino all’Autostrada Palermo-Capaci da
Biondino, Troia e Rampulla a bordo del fuoristrada di La Barbera sistemando i
contenitore nel vano portabagagli, nei sedili posteriori e in quello anteriore,
e scaricati a venti metri dal cunicolo accanto ad un ulivo, chiusi in sacchi
neri per confondersi con la spazzatura abbandonata lì intorno. La Barbera,
Brusca, Gioé, Rampulla, Biondino, Biondo e Bagarella si erano occupati di stare
sul posto a gestire il caricamento e la sicurezza, Troia aveva fatto da
staffetta girando a piedi per la campagna per controllare che non ci fosse
l’ingresso di eventuali curiosi mentre Ferrante e Biondo avevano lo stesso
compito ma in macchina, ciò al fine di gestire un perimetro più esteso dal
quale nessuno potesse entrare o uscire senza essere individuato. Col caricamento
iniziato intorno alle ore 21:00 la gigantesca carica allungata, ovvero empiricamente
con un rapporto tra lunghezza e diametro maggiore di 4, era stata pian piano
posizionata nel cunicolo di drenaggio sotto la carreggiata. Mentre Rampulla
controllava il lavoro Gioè era entrato per primo, aveva pulito il condotto dal
pietrisco e dai detriti accumulati nel tempo, e sdraiato con la pancia su uno
skateboard si era trascinato all’indietro nello strettissimo cunicolo introducendo
verticalmente il primo dei bidoni piccoli spingendolo coi piedi fino in fondo
all’altezza della corsia di sorpasso. Biondo era stato di vedetta, leggermente
a distanza ma in continuo contatto visivo con Bagarella che armato di fucile Ak47
non aveva distolto lo sguardo neanche per un secondo dalla strada. La Barbera, Gioè
e Brusca che vestiti con tute blu da meccanico, armati di guanti da muratore e
torce, a turno avevano strisciato all’interno del canale di scolo largo 54
centimetri disponendo uno dietro all’altro tutti i contenitori, venivano poi
tirati all’esterno dagli altri con una fune che tenevano stretta sotto le
ascelle. Un tubo in alluminio posto nella parte bassa del condotto, fungendo da
binario consentendo agli uomini di poggiare sopra i bidoni aveva semplificato
loro il lavoro. Per la carica, studiata per essere posta esattamente sotto la
corsia di sorpasso dove solitamente procede il corteo delle blindate, la distanza
dal lato della carreggiata era stata presa in superficie dai tecnici con una
corda riportandola poi all’interno del cunicolo stendendola dall’imboccatura. Dal
bidone più grande, introdotto orizzontalmente, disposto nella posizione
centrale rispetto agli altri e facente assieme ad altri 6 la funzione di carica
di spinta con velocità di detonazione superiore ai 5 mila metri al secondo, Rampulla
aveva tolto lo scotch che otturava il buco nel tappo predisposto nella casa di
Capaci, aveva inserito due detonatori elettrici collegati in serie, li aveva
nastrati assieme per incrementare il potere di innesco e aiutandosi con un
bastoncino di legno li aveva affondati completamente nell’esplosivo facendo
affiorare soltanto i reofori del positivo e del negativo. Questi erano stati
collegati successivamente alla linea di tiro, un filo lungo 10 metri che aveva fissato
al tappo con del nastro adesivo e poi al fusto avvolgendolo per due volte, e prima
che venissero inseriti gli altri 6 bidoni l’aveva srotolato fino all’esterno
del condotto prestando attenzione a non rovinarlo col resto del caricamento. Infine,
una volta inserito il resto dei contenitori, raccolto il filo e avvolto in una
matassa poggiata dentro il cunicolo, l’imboccatura era stata coperta con rifiuti,
sterpaglie e un materasso, il tutto sistemato in modo da essere tolto in pochi
secondi per l’ultima fase del caricamento, il collegamento della centralina
ricevente, operazione da fare letteralmente “all’ultimo minuto” per evitare che
interferenze da telecomandi per cancelli o telefoni cellulari potessero
interferire con l’antenna e attivare la carica inaspettatamente e in anticipo. I
lavori di caricamento del cunicolo, sospesi per qualche minuto per la sosta 100
metri più avanti a bordo strada di un pulmino Fiat 900 dei Carabinieri della
compagnia di Capaci dove uno degli agenti era sceso per un bisogno, erano
andati avanti per sette ore, concludendosi alle 4 del mattino coi rami degli
alberi che impedivano la visuale dell’autostrada dalla collina tagliati da
Battaglia con una sega da carpentiere e col posto lasciato esattamente come trovato.
Le notti a seguire l’esplosivo è rimasto lì, armato e controllato a vista fino
a questo pomeriggio del 23 dove tutto è organizzato: l’esplosivo, le
trasmittenti, le distanze e le staffette. Giovanni Brusca sulla collina ripassa
mentalmente ogni passaggio, non può e non deve sbagliare, ha solo una
possibilità. La conferma che le auto della scorta sono partite in direzione
dell’aeroporto dall’abitazione del Giudice, via Notarbartolo al civico 23, dove
erano parcheggiate accanto alla guardiola blindata di protezione antistante
l’ingresso, a pochi metri dalla macelleria dei Ganci sita in una delle
traverse, è arrivata telefonicamente alle ore 17:15 da Raffaele Ganci a
Ferrante e La Barbera. Nell’attesa che i due, in stazionamento nella zona secondo
piano prendessero posizione, il primo accanto all’uscita di servizio
dell’aeroporto, il secondo all’imboccatura della provinciale parallela
all’autostrada in modo da sorvegliare il corteo delle blindate e fornire gli
opportuni ragguagli a Brusca e Biondino che nel frattempo si erano mossi in
direzione della collina, Raffaele Ganci ha messo in movimento i figli Calogero
e Domenico, uno in macchina e l’altro in vespone, attaccati al convoglio. Battaglia,
Gioè e Troia, prima di raggiungere i due nel punto d’osservazione, si sono
recati al cunicolo per posizionare e attivare la ricevente. Lì, hanno srotolato
fuori dalla massa di rifiuti la linea di tiro, collegata alla centralina appena
fuori dal condotto, tolto il piccolo pezzo di gomma che faceva da “custodia” al
chiodo al fine di evitare contatti spiacevoli in caso di scatto involontario
del meccanismo, hanno avvitato il coperchio alla scatola e disposta col lato
lungo sul terreno e l’antenna fissata in alto con l’ausilio di un bastoncino di
legno, e ricoperto il tutto con un sacco nero e dei rami. Il Giudice Falcone,
in ritardo di un giorno sul programma per motivi legati alle attività della
moglie, decollato dall’Aeroporto Internazionale di Roma-Ciampino "G. B.
Pastine" alle 16:55 con un “Volo di Stato”, sta tornando a casa. L’arrivo
in Sicilia del jet della CAI, la Compagnia Aerea Italiana, previsto dopo un
viaggio di circa 50 minuti è in perfetto orario. Ad attenderlo a terra a bordo
della pista 25 ci sono le tre autovetture blindate: tre Fiat Croma 2.0 Turbo, l’ammiraglia
della casa, una marrone, una bianca e una azzurra, corazzate, del peso di due
tonnellate ciascuna, gruppo di scorta sotto il comando del Capo della Squadra
mobile della Polizia di Palermo. Sono le ore 17:43, il jet è fermo, Falcone è
arrivato, non è solo, con lui è arrivata anche la moglie, Francesca Laura
Morvillo, anche lei magistrato. 46 anni, Giudice del tribunale
di Agrigento, Sostituto Procuratore della Repubblica presso
il Tribunale per i minorenni di Palermo, Consigliere della Corte d’Appello
di Palermo, componente della Commissione per il concorso di accesso in
magistratura e docente presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia
dell'ateneo palermitano nonché docente di Legislativa del minore nella Scuola
di Specializzazione in Pediatria, il commando non sa che Falcone in sua
compagnia è solito mettersi al posto di guida per starle accanto poiché lei
soffrendo il mal d’auto preferisce sedersi davanti. Come da programma, appena
sceso dall’aereo si sistema alla guida della vettura bianca, accanto a lui
prende posto la moglie mentre l’autista giudiziario occupa il sedile
posteriore. Nella Croma marrone e in quella azzurra prendono posto gli altri
agenti della scorta, tre per vettura, due avanti e uno dietro coi mitra in mano
e sguardo fisso fuori dai finestrini. A convoglio in movimento la Croma marrone
si mette in testa al gruppo seguita dalla bianca con davanti quella azzurra. Ferrante,
che appostato in auto nei pressi dell'aeroporto di Punta Raisi vede uscire il
convoglio delle blindate dalla sbarra della guardiola della Guardia di Finanza avverte
telefonicamente La Barbera che il Giudice è in movimento. Sono le ore 17:48, le
auto, seguite in motorino per un tratto dal figlio di Ganci, lasciano
l’aeroporto imboccando l’autostrada in direzione Palermo. Il commando si rende
subito conto che l’andatura non è quella solita, anche lo schema è diverso. Le
auto, che dovrebbero fiancheggiarsi, tallonarsi, coprire tutte le corsie
procedendo a velocità sostenuta, non lo fanno. Non vengono attivate neppure le
sirene. Intanto La Barbera, chiusa la telefonata con Ferrante apre quella con
Brusca. Tutti i singoli operatori sono già ai loro posti coi telefoni cellulari
in mano in attesa del passaggio del corteo di vetture. Alle ore 17:49, mentre si
muove sulla provinciale parallela alla A29 per seguire il convoglio, resta in
contatto telefonico con la collina per informare il punto d’osservazione sulla
velocità delle auto. Sono le ore 17:54, dopo una telefonata durata 325 secondi Brusca
allunga l’antenna telescopica in metallo del radiocomando. È acceso, il led è
illuminato di rosso, è tutto pronto. Un chilometro più in basso ecco il
convoglio spuntante sulla corsia di sorpasso da dietro la curva ma non alla
velocità che si aspettavano e per cui avevano pianificato i tempi di reazione.
La seconda auto, in fila con la prima leggermente distaccata e seguita dalla
terza che la copre standole attaccata, come da desiderio della Morvillo sta
procedendo ad una velocità moderata, di poco superiore a 90 chilometri orari. Alla
vista del corteo, al chilometro 5, nei pressi dello svincolo di Capaci-Isola
delle Femmine, Brusca, dopo aver gettato a terra l’ennesima Merit masticata mette
il dito sulla leva. Gioè dà il segnale, Brusca, che a causa della bassa
velocità è confuso sul momento esatto in cui dare fuoco, sta per dare il contatto
ma succede qualcosa: le auto stanno rallentando, ancora. All’interno della
macchina centrale la Morvillo ha appena chiesto al marito le chiavi di casa, è
stanca, vuole rientrare e lasciare che il marito prosegua per il tribunale. Il
Giudice Falcone, in un attimo di distrazione, accorgendosi che le chiavi di
casa sono nel mazzo insieme a quelle della macchina le ha staccate dal quadro
per passarle al suo autista seduto dietro affinché prendesse quelle
dell’appartamento. La velocità precipita sotto gli 80 chilometri orari
spiazzando tutti. Sulla collina Gioè dà un secondo segnale ma Brusca esita,
ancora. Mentre Gioè stringe tra le mani il tripode del cannocchiale gridando di
dare il contatto o tutto è perduto, la leva dopo lunghi attimi di concitate
incertezze viene spinta. A 400 metri, all’imboccatura del condotto, sotto le
sterpaglie e il materasso, la centralina riceve il segnale attivando il
motorino al suo interno che muove il chiodo verso l’altro capo del circuito. La
linea si chiude. Le batterie da 4,5 Volt scaricano la corrente sul cavo
centrale schizzando lungo il tubo che costeggia i bidoncini fino a quello
centrale con dentro i detonatori annegati nella carica di spinta. All’interno
dei bossoli in alluminio il ponticello si arroventa incendiando la sostanza
infiammabile che innesca la carica di Azoturo di Piombo e di conseguenza la
Pentrite. Sono le ore 17:56:32 secondi, con una velocissima reazione a catena il
primo e il secondo detonatore si innescano attivando gli esplosivi che detonano
nella camera di scoppio uno ad uno, dal centro verso l’esterno, in una
gigantesca esplosione che sviluppa in una frazione di secondo una temperatura
di 2.800 gradi centigradi. La compressione generata dalla massa di terra e
cemento che esercita nei confronti dei gas prodotti una fortissima resistenza
comprimendone il volume nella camera di scoppio, causa un aumento esponenziale
del “fattore di pressione” facendo subire una improvvisa accelerazione cinetica
dell’onda esplosiva con un conseguente incremento degli effetti esaltando il
potere dirompente della carica. La montagna trema. La pressione sviluppata dai
gas, concentrandosi verso l’alto, spinge il terreno sotto la prima blindata che
non accortasi del rallentamento dell’auto centrale ha continuato a proseguire a
velocità costante. L’Autostrada A26 si gonfia e si apre sfogando all’esterno una
palla di fuoco e roccia che investe l’auto lanciandola in aria. L’onda di
sovrappressione, violentissima, la accartoccia e strappandola dalla carreggiata
la fa saltare oltre le corsie del senso opposto scaraventandola in un giardino
di ulivi accanto ad un mangimificio, a 62 metri di distanza. Antonio Montinaro,
Vito Schifani e Rocco Dicillo, i tre agenti all’interno, muoiono sul colpo per
la rottura del cranio schiacciati tra le lamiere e straziati dall’impatto col
terreno. Dietro di loro, sulla strada, il muro di cemento, ferro e terra
sollevato in aria per decine di metri taglia la strada alla Croma Turbo guidata
dal Giudice che ci si schianta contro. Falcone e la Morvillo, che non stanno indossando
le cinture di sicurezza, vengono proiettati violentemente contro il parabrezza
finendo travolti dal grosso motore da 2 mila centimetri cubi che si stacca dai
sostegni schiacciando il cruscotto e piegando il piantone dello sterzo. L’autista
giudiziario Giuseppe Costanza va a sbattere contro il sedile davanti mentre
come un missile arriva la terza Croma, quella azzurra, con a bordo gli agenti
Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo, che sterza violentemente a
sinistra appena prima di travolgerli. Mentre l’onda d’urto si propaga con una
velocità di 4 chilometri al secondo percorrendone 65 in 16 secondi fino
all’osservatorio dell’Istituto Nazionale di Geofisica facendo oscillare le
lancette dei sismografi dell’Osservatorio agrigentino di Monte Cammarata, i
terreni attorno all’autostrada vengono avvolti da una nuvola rossa e gialla e
bersagliati da una pioggia di terra e detriti. In un clima di iniziale silenzio
e disorientamento automobilisti e abitanti della zona si riversano per strada cercando
di raggiungere la base del fungo di fumo, camminando tra polvere e macerie e
l’incessante suono degli allarmi delle case che non smettono di suonare. Chi può,
prova a prestare soccorso, mentre la nuvola di fumo e polvere si dirada aprendo
alle gente uno scenario lunare che difficilmente dimenticherà. Ci sono auto coperte
di terra, due Croma, una Lancia Thema che seguiva il corteo, una Fiat Uno e una
Opel Corsa che viaggiavano nel senso opposto. Al centro, la porzione di
autostrada sopra il canale di scolo non c’è più, al suo posto si è aperto un
cratere a forma di semiellisse il cui lato lungo trasversale rispetto alla
corsia di marcia è lungo 14,3 metri mentre quello inferiore, di posizione longitudinale
rispetto alla stessa si estende per una lunghezza di 12,3 metri. Nel punto di
maggiore profondità raggiunge i 4 metri, con una media di 3,5 determinando una
profondità che scende di oltre un metro rispetto al piano di campagna intorno
all’autostrada. Sulla linea del cratere c’è il totale disfacimento dell’asfalto
che ha creato nei bordi una sopraelevazione di un metro di altezza lungo i
primi 4,7 metri e di 60 centimetri per i restanti 7,4. Il tubo di scolo in
cemento è sparito, il guardrail a lato monte è stato deformato per un lungo
tratto in maniera circolare e spinto nell’uliveto a monte rispetto al cratere. Quello
in mezzeria invece, il doppio guardrail, è stato danneggiato in un tratto molto
più corto e anche questo spinto dalla parte opposta, verso il mare. Nonostante
l’energia sprigionata dal condotto sia stata talmente forte da riuscire a
dirigersi verso l’alto vincendo la forza contraria del terreno sovrastante, una
parte dei gas prodotti è riuscita comunque ad incanalarsi nella parte di condotto
lasciata libera dalla carica, quella lato mare, per effetto del mancato
intasamento, determinando le stesse pressioni sulle pareti del cunicolo
frantumandolo e determinando un avvallamento del terreno e lo squassamento
superficiale del manto stradale per altri 13 metri di lunghezza, 1,5 di
larghezza e 50 centimetri di profondità. Gli alberi di ulivo nei pressi
dell’imboccatura del condotto del lato della carica sono stati investiti dalla
peggiore delle tempeste, l’aranceto della porzione di terreno opposta è stato
arato per 15 metri da quell’onda di sovrappressione che si è incanalata in un
effetto cannone per il condotto in tutta la sua lunghezza. 400 metri più in
alto, sulle colline sopra Capaci, non c’è già più nessuno, gli osservatori
hanno smontato tutto lasciando la posizione quando i primi detriti cominciavano
a piovere sui tetti delle case. In basso invece, tra la polvere, gli sportelli
della Croma azzurra si aprono, gli agenti all’interno sono vivi. Insanguinati,
storditi, a fatica scendono dall’auto per mettersi a protezione della Croma
bianca davanti a loro e sincerarsi di eventuali superstiti. Dentro è un
disastro, c’è sangue ovunque ma respirano, non si sa come, ma respirano. Mentre
qualcuno li chiama cercando di farli rimanere vigili ecco che si sentono le
prime sirene farsi spazio tra i curiosi che continuano ad avvicinarsi al
cratere. Nonostante le ferite la Morvillo e Costanza vengono estratti
dall’auto, per Falcone, che si muove appena incastrato tra le lamiere, è
necessario attendere l’intervento dei Vigili del Fuoco. La donna, portata a
terra è cosciente, seminuda, qualcuno si toglie la maglietta per coprirla,
cerca il marito che è qualche metro più in là mostrando, anche se gravissimo e
col viso una maschera di sangue, di recepire con gli occhi le sollecitazioni
dei soccorritori. Nonostante l’estrazione sia difficoltosa entrambi vengono
tirato fuori dalla blindata e caricati in ambulanza. Mentre inizia una corsa a
sirene spiegate verso gli ospedali scortati da un corteo di vetture e un
elicottero dell’Arma dei Carabinieri che lo segue dall’alto, dietro di loro, ponendosi
alle spalle della voragine nel senso di marcia relativo alla corsia lato monte,
distante 2 metri dal margine sinistro e 8 dal destro, in posizione obliqua
rispetto all’asse della corsia e con le ruote anteriori sul ciglio del cratere,
la Croma blindata è lì, con la parte anteriore vicino al motore completamente
distrutta, col il cofano di cui rimane ben poco, accartocciato del tutto e
retto dalla sola cerniera destra. Il vetro blindato a cinque strati del
parabrezza, completamente incrinato, è stato sbalzato nel cratere mentre la
portiera sinistra, divelta, si trova nel terreno adiacente. All’interno, il
lunotto si è riversato nell’abitacolo invaso da detriti e terra che nella parte
posteriore raggiunge i 50 centimetri, la metà sinistra del cruscotto e degli
elementi sottostanti è squassata ed arretrata verso la posizione dell’autista
la cui spalliera è contorta e piegata in avanti, mentre sul volante, la cui
parte inferiore è anch’essa contorta in avanti, è ricoperta di sangue. Appena
dietro, in posizione obliqua, c’è la seconda blindata, coperta da uno strato di
terriccio e pietre spesso 2 centimetri, con la parte anteriore, arretrata verso
l’interno, contorta al pari del cofano divelto dalle cerniere. Il parabrezza è
incrinato, il lunotto è spaccato e rientrato verso l’abitacolo di 10 centimetri
mentre il volante ha la metà inferiore contorta verso il basso. A 4 metri di
distanza c’è la Lancia Thema, col tetto completamente schiacciato, il
parabrezza incrinato e fuoriuscito dalla guide, il lunotto e i fari rotti,
cumuli di detriti e terriccio in prossimità della leva del cambio. L’Opel Corsa
transitante nella corsia opposta è ribaltata sul fianco sinistro a 60
centimetri dal guardrail e con il senso di marcia contrario a quella della
corsia. La parte anteriore è completamente distrutta sino al cofano motore fuori
asse e accartocciato, il parabrezza e il lunotto sono a pezzi e la lamiera del
tetto contorta per la prima metà. La Fiat Uno invece è ferma 2 metri prima, con
la direzione di marcia coincidente con quella della corsia e la fiancata destra
a 90 centimetri dal guardrail esterno. L’auto è distrutta nella parte anteriore
e priva di cofano, il tetto è contorto e l'abitato è invaso da terriccio e
detriti. Di “Quarto Savona Quindici”, la prima Croma, atterrata nell’uliveto e
ridotta ad un’altezza di 30 centimetri, è rimasta solo la parte inferiore della
scocca assieme le ruote tranne quella anteriore destra, parti del cruscotto col
contachilometri e il contagiri, alterati dall’urto, il primo bloccato a 160 e
il secondo a 6 mila, parte del volante, del cambio e dei sedili anteriori.
Sangue, tessuti e materia cerebrale ricoprono le superfici mentre il motore, la
ruota destra con la sospensione e alcune porzioni della scocca si trovano sparpagliati
per un raggio di 10 metri. Gli effetti della detonazione sotto il profilo
dell'estensione del raggio di gittata di detriti, pezzi di asfalto e pietre si
misurano, rispetto al carattere, in 142 metri in direzione Palermo, 156 metri
in direzione Trapani, 182 metri verso il mare, una pioggia che non ha risparmiato
niente, né 19 persone che per loro sfortuna erano nel posto sbagliato al
momento sbagliato, né i capannoni di un’azienda avicola, né una cabina elettrica
e delle villette, mitragliate con fori da 60 a 180 centimetri di diametro. Intanto
le corse verso gli ospedali non serviranno, neanche gli sforzi dei medici
riusciranno a salvare i due Giudici. Giovanni Falcone, trasportato al Civico di
Palermo, mentre l’Italia intera trattiene il fiato morirà alla ore 19:05 a
causa della gravità del trauma cranico e delle lesioni interne, senza
riprendere più conoscenza, fra le braccia di Paolo Borsellino. Francesca
Morvillo, trasportata prima all'ospedale Cervello e poi trasferita al Civico,
nel reparto di neurochirurgia, morirà sotto i ferri intorno alle 23 a causa
delle gravi lesioni interne riportate. La Cupola voleva un evento eclatante e
lo ha ottenuto. Portando la sua tattica intimidatoria ad un altro livello non mettendosi
scrupoli neanche a colpire nel mucchio, considerando eventuali vittime
innocenti come “danni collaterali” di una guerra come ce ne sono tante, mentre
c’è chi porterà per il resto della vita il ricordo e i segni indelebili di
questo evento traumatico, altrove qualcun altro sta brindando per aver appena mostrato
al mondo tutto il suo potere.
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