TIPOLOGIA: attentato
CAUSE: autobomba
DATA: 19 luglio 1992
STATO: Italia
LUOGO: Palermo, via Mariano D’Amelio
MORTI: 6
FERITI: 24
Analisi e ricostruzione a cura di Luigi Sistu
È il 1992, il 19 luglio e sono le ore 16:30. In questo pomeriggio
soleggiato della città di Palermo una Fiat 126 si trova lì, a due metri dal
cancello di ingresso del vialetto che conduce ai civici 19 e 21 di un complesso
residenziale di via Mariano D’Amelio, a pochi passi dalla Fiera. La macchina,
uscita da un’autorimessa questa mattina alle ore 05:30 per sostituire un’altra
parcheggiata strategicamente ad occupare il parcheggio, posizionata a spina di
pesce col cofano anteriore vicino al marciapiede tra una Seat Ibiza di colore
nero e una Fiat Panda celeste alla sua sinistra dista qualche decina di metri
da chi, famelico e con gli occhi puntati sul cancelletto, è perfettamente al
corrente della saltuaria consuetudine che consente al Procuratore Aggiunto della
Repubblica di Palermo, il Giudice Paolo Borsellino, di rivedere quasi ogni
domenica nell'appartamento della sorella Rita, farmacista, la madre, Maria Pia
Lepanto, una signora anziana sempre in tensione che si trasferisce lì i fine
settimana. E proprio questa domenica, come concordato in numerose conversazioni
telefoniche, a causa delle precarie condizioni di salute dell'anziana donna che
il Giudice si è incaricato di accompagnarla ad una visita cardiologica
nell'ambulatorio medico di un suo amico, il dottor Pietro Di Pasquale. Il boia
e i suoi complici feroci sanno dove colpire quest'uomo, oramai sempre protetto
da una conchiglia di agenti e pronto a correre con passetti veloci ogni volta
che si trova allo scoperto al fine di guadagnare in una manciata di secondi il
guscio della sua Croma blindata. A Palermo dal 1975 nell’Ufficio Istruzione
Affari Penali sotto la guida del Giudice Istruttore Rocco Chinnici, ucciso
sotto casa assieme a parte della scorta con un’autobomba il 29 luglio 1983, ha
lavorato assieme ai Giudici Giovanni Falcone, Giuseppe Di Lello, Leonardo
Guarnotta, Ignazio De Francisci, Gioacchino Natoli e Giacomo Conte, costituenti
un pool antimafia sviluppato e reso operativo dal Sostituto Procuratore
Generale di Firenze Antonino Caponnetto che confermava la linea inaugurata da
Chinnici di centralizzare le indagini sul fenomeno mafioso al fine di favorire
la circolazione e la condivisione delle informazioni emerse e, quindi, di avere
un quadro globale sul fenomeno e le sue dinamiche criminali. Questo stabile
gruppo di giudici istruttori destinati esclusivamente a occuparsi di processi
di mafia, concentrandosi sui membri dell’organizzazione di Cosa Nostra, dai
meno potenti ai più influenti, ha creato e sta continuando a crearle non pochi
problemi tanto da mobilitare le “Commissioni” e farle riunire per decidere se e
come affrontare il problema, di nuovo. "Borsellino sta facendo più danno
di Falcone. Questo cornuto deve saltare in aria come quel crasto che stava per
rimanere vivo a Capaci". Con queste parole aveva sentenziato Salvatore
Riina, il 72enne capo del mandamento di Corleone e supercapo
dell’organizzazione criminale siciliana Cosa Nostra agli altri capimafia nel
corso di una riunione di giugno a Palermo, nella villa del capo mandamento della
cosca palermitana di Santa Maria del Gesù Giuseppe Calascibetta. Ciò era
avvenuto con la benedizione di Mattero Messina Denaro, il capo
del mandamento di Castelvetrano e rappresentante indiscusso
della mafia della provincia di Trapani, e l’approvazione all’unanimità di
Giovanni Brusca, reggente del mandamento di San Giuseppe Jato, con alle spalle
la bomba di via Federico Giuseppe Pipitone a Palermo dove aveva fatto saltare
in aria il Giudice Rocco Chinnici e la sua scorta, e quella al Giudice Giovanni
Falcone e alla sua scorta del 23 maggio, Francesco Madonia, detto Ciccio, capo
del mandamento di Resuttana, zona di influenza inglobante la via D’Amelio,
Raffaele Ganci, capo del mandamento di Della Noce, Salvatore Biondino, capo del
mandamento di San Lorenzo, Gioacchino La Barbera, capo del mandamento di Passo
di Rigano-Boccadifalco, Giuseppe Graviano, del mandamento di Brancaccio-San
Lorenzo, e Salvatore Cancemi e Giuseppe Calò, rispettivamente Reggente e capo
mandamento di Porta Nuova, cassiere dell’associazione e organizzatore
dell’attentato al treno Rapido 904 del 23 dicembre 1984 dove 17 passeggeri
erano morti per deviare l’attenzione dell’opinione pubblica dalle rivelazioni
date da Tommaso Buscetta, uno dei primi mafiosi a cominciare a collaborare con
la giustizia durante le inchieste coordinate da Falcone che avevano permesso,
per la prima volta, una dettagliata ricostruzione giudiziaria
dell'organizzazione e della struttura della criminalità siciliana dando inizio
all’epoca del “pentitismo” e al declino del potere mafioso. Associazione
criminale di tipo mafioso Cosa Nostra è nata in Sicilia nel 19° secolo e si è
sviluppata esponenzialmente dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
Strutturata gerarchicamente, nota in tutto il mondo per gli attentati, gli
omicidi esemplari e la violenza diretta contro lo Stato italiano con
l’eliminazione di uomini politici, poliziotti e magistrati, mantiene il
controllo su numerose attività economiche e politiche regionali ed
extraregionali per mezzo di reti di fiancheggiatori e dell’inserimento di
propri capitali nel settore dei pubblici appalti, della sanità e del turismo,
penetrando perfino nei settori della grande distribuzione alimentare, dei
mercati ortofrutticoli, nelle attività edili e in quelle di tipo economico-finanziario.
L’Organizzazione è divisa in “Famiglie”, ciascuna con un capo, il
“rappresentante”, eletto da tutti gli “uomini d’onore” e assistito da un
vice-capo e uno o più consiglieri. Tre Famiglie, ognuna organizzata in
"'decine" composte da dieci uomini d'onore, i "soldati",
coordinati da un "capodecina", costituiscono un
"mandamento", la zona di influenza, gestito dal “capo mandamento”
anch'esso eletto e che fa parte della "Commissione Provinciale", il
massimo organismo dirigente di Cosa Nostra nella provincia, organismo che
prende le decisioni più importanti, risolve i contrasti tra le famiglie,
espelle gli uomini inaffidabili, controlla tutti gli omicidi, inferiore in
quanto a potere soltanto a quella "Regionale". Corruzione e
riciclaggio sono il volano che ha permesso a Cosa Nostra di radicarsi, anno
dopo anno, sempre di più nel territorio accrescendo il proprio potere in
maniera spropositata. Nell’epoca di questo “pentitismo” battezzato da Buscetta,
la sentenza di Cassazione che confermava gli ergastoli nel Maxiprocesso per
crimini di mafia del 30 gennaio con 360 condanne per complessivi 2.665 anni di
carcere e undici miliardi e mezzo di lire di multe da pagare, segnando un
grande successo per il lavoro svolto da tutto il pool antimafia, aveva messo in
moto una macchina, ormai impossibile da fermare. Progettata dai vertici della
Commissione Regionale che aveva riunito i leader delle province di Palermo,
Trapani, Agrigento, Caltanissetta ed Enna, incontratisi tra settembre e
dicembre dell’anno scorso per diverse settimane in un casolare della provincia
di Enna, presieduti da Riina, avevano discusso una strategia di
destabilizzazione politica che si sarebbe snodata con l’omicidio di uomini
politici e con attentati dinamitardi, un complesso piano di destabilizzazione
politica da attuarsi con eventi cruenti avrebbero dovuto dare una spallata al
vecchio sistema politico che non offriva più protezione. Questa era
effettivamente iniziata dopo il definitivo unanime benestare dei membri della
Commissione Regionale e Provinciale in due riunioni distinte svolte nella
villetta palermitana di via Margi Faraci di Girolamo Guddo, uomo di spicco
delle famiglie palermitane, mafioso di Altarello di Baida e cugino del boss
Salvatore Cancemi. Con la prima che aveva visto partecipare i nomi di spicco
dell’organizzazione, Salvatore Riina, Matteo Motisi, Giuseppe
Farinella, Giuseppe Graviano, Carlo Greco, Pietro Aglieri, Michelangelo La
Barbera, Salvatore Cancemi, Giovanni Brusca, Raffaele Ganci, Antonino Giuffrè,
Giuseppe Montalto e Salvatore Madonia, e con la seconda che aveva riunito
Riina, Biondino Ganci, Brusca, La Barbera e Cancemi, la mattanza era iniziata
la mattina del 12 marzo a Palermo con l’omicidio dell’onorevole Salvo Lima, il
più potente politico siciliano leader della Democrazia Cristiana nell’isola,
ucciso perché non era riuscito a impedire le tante condanne inflitte ai mafiosi
al termine del più grande processo penale mai svolto in Italia. Nella villa
palermitana di Calascibetta, nel salone dove a giugno si era svolto il
"summit" per la sentenza di morte, Riina, manifestando a Biondino,
Cancemi e Ganci la propria “premura” di eseguirla evidenziando in particolare a
Ganci che la responsabilità sarebbe stata sua ed affidando a Biondino
l’incarico di “organizzare tutto e fare in fretta”, aveva rimarcato più volte
che l’uccisione di Borsellino avrebbe messo in ginocchio lo Stato. Avrebbe
inoltre mostrato a tutti la reale potenza delle Famiglie, e proprio per
agevolare la creazione di nuovi contatti politici occorreva eliminare chi come
lui avrebbe scoraggiato qualsiasi tentativo di approccio con Cosa Nostra e di
arretramento nell’attività di contrasto alla Mafia, levandosi a denunciare
anche pubblicamente, dall’alto del suo prestigio professionale e della nobiltà
del suo impegno civico, ogni cedimento dello Stato o delle sue componenti
politiche. Questo, soprattutto in risposta alla prevedibile reazione dello
Stato che, reagendo all’eccidio in cui avevano perso la vita dei suoi nobili
servitori, aveva portato all’emanazione l’8 giugno di un decreto legge
contenente nuove misure antimafia che introduceva tra l’altro maggiori
possibilità di sottoporre a sequestro e confisca i beni dei mafiosi ed ampliava
le ipotesi di fermo di polizia, approvazione che in Parlamento sta incontrando
seri ostacoli da parte di un folto schieramento trasversale a tutte le forze
politiche, che ne critica le conseguenze eccessivamente pregiudizievoli per i
diritti di difesa degli indagati per reati di mafia. Il progetto di uccidere
Borsellino, più complesso di quello realizzato per Falcone, sarebbe stato anche
più sofisticato, sia sotto il punto di vista dell’organizzazione che della
realizzazione. Esprimendosi la necessità di procurare una macchina di piccola
cilindrata per sbrigare l’urgente faccenda, Giuseppe Graviano aveva affidato a
due affiliati della famiglia di Brancaccio guidata da lui e dal fratello
Filippo, tramite Cristofaro Cannella, detto Fifetto, uomo d’onore del
trapanese, il compito di cercare una Fiat 126 o qualcosa di simile, di piccole
dimensioni e che non attirasse l’attenzione. Gaspare Spatuzza e Vittorio Tutino
l’avevano trovata la notte tra l’8 e il 9 luglio poco prima della mezzanotte in
via Bartolomeo Sirillo, nel quartiere Oreto di Palermo. Color sangue di bue, targata
PA 790936 e di proprietà di Maria D’Aguanno, era in uso alla figlia, Pietrina
Valenti, che l’aveva ereditata dalla defunta madre. Spatuzza, seduto al posto
di guida, dopo che Tutino era riuscito a forzare il bloccasterzo rompendolo ed
essersi seduto sul sedile del passeggero, si era accorto che non metteva in
moto, tanto da dover scendere e portare il mezzo a spinta dalla traversa che
collega via Oreto Nuova e via Fichi d’India, zona di edilizia
economico-popolare e di cooperative dov’era parcheggiata, percorrendo via San
Ciro, via San Gaetano fino ad un magazzino di Fondo Schifano, nella via Ciprì
al civico 19 utilizzato solitamente come deposito veicoli per i reati legati
alla Famiglia. Dopo essere stata lì provvisoriamente, la 126 era stata portata in
un altro garage, stavolta di Corso Dei Mille, nella zona di Roccella, in
affitto a Spatuzza e di proprietà del cugino Gioacchino Alfano per delle
riparazioni urgenti delle quali se ne erano occupati Maurizio Costa a Agostino
Trombetta, titolari di un’autofficina. Cosa Nostra conosceva già questo tipo di
vettura, ne aveva usata una il 29 luglio 1983. Color verde bottiglia e del
1977, era stata utilizzata per l’attentato al Giudice Rocco Chinnici, Direttore
dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, ucciso facendola saltare in
aria mentre stava per salire a bordo dell’Alfetta 2000 blindata che attendeva
il Magistrato con lo sportello aperto davanti allo stabile in cui viveva per
accompagnarlo al Palazzo di Giustizia. Dopo aver bruciato dei santini, dei
fogli e un ombrello trovati nell’abitacolo e che potevano ricondurre l’auto
alla proprietaria, riparati la frizione, l’impianto frenante e il bloccasterzo
per avere l’auto in piena efficienza meccanica in modo da scongiurare intoppi
di qualsiasi genere, erano state sostituite le targhe con altre due marchiate
PA 878659. Le nuove targhe, rubate da Spatuzza e Tutino sabato 18
dall’autocarrozzeria in via Messina Marine num. 94 di proprietà di Giuseppe
Orofino, titolare assieme ai cognati Paolo e Gaspare Agliuzza, appartenevano
sempre ad una 126 ma di colore bianco e di proprietà di una certa Anna Maria
Sferrazza, residente a Palermo, che l’aveva portata lì tramite la Fiat per dei
lavori di riparazione. Il furto, compiuto a locale chiuso introducendosi nel
locale scavalcando un grosso portone metallico provvisto di inferriata alla
quale mancavano delle sbarre, era stato pensato per essere eseguito nelle ore
serali in modo che se fosse partita una eventuale denuncia, cosa che poi
succederà poiché Orofino, accorgendosi del furto solo domani si recherà dai
Carabinieri per denunciare la scomparsa delle targhe, del libretto di
circolazione e del tagliando assicurativo, sarebbe stato comunque troppo tardi.
Giuseppe Graviano, dopo aver preso in consegna le nuove targhe nel maneggio
dell’amico Giuseppe Vitale nella contrada Regia Corte, aveva dato ordine che
venissero portate in un garage di via Pietro Villasevaglios, autorimessa in cui
il giorno prima era arrivata la 126 color sangue di bue dopo che alle tre del
pomeriggio era scivolata per le vie di Palermo con alla guida Spatuzza e
Cannella seduto accanto e scortata da una seconda auto con alla guida Antonino
Mangano, capo della Famiglia di Roccella, una delle quattro famiglie componenti
il mandamento di Brancaccio. Corso dei Mille, poi via Roccella, via Ventisette
Maggio, un posto di blocco della Guardia di Finanza evitato in piazza
dell’Ucciardone all’altezza del vecchio carcere aggirandolo per il Borgo
Vecchio, poi dritti su via Don Orione fino a sparire dentro il garage al civico
17 dove ad attenderli, superato lo scivolo di cemento, il cancello di ferro e
la saracinesca, avevano trovato Lorenzo Tinnirello e Francesco Tagliavia.
Entrambi del mandamento di Brancaccio ed entrambi a capo della Famiglia di
Corso dei Mille, avvisati da Biondino di tenersi liberi che “ci sarebbe stato
da fare”, li avevano attesi assieme a 90 chilogrammi di esplosivo ad altissimo
potenziale. Tagliavia, dedito solitamente alle estorsioni e al traffico di stupefacenti
per cui ha continui contatti con soggetti di spicco delle Famiglie dell’isola,
ed esperto nella manipolazione degli esplosivi era lui che la Commissione aveva
scelto per l’allestimento dell’autobomba con l’esplosivo recuperato di tre
tipologie: il Semtex-H in pani, il Brixia B5 in cartucce e il Trinitrotoluene
in involucri artigianali. Cosa Nostra aveva deciso per Borsellino un evento
plateale ma chirurgico, con un consumo specifico relativamente basso data la
geolocalizzazione del Punto Zero. Il primo esplosivo, il Semtex-H, di tipo
plastico, di colore tra l’arancio e il giallo e confezionato in pani color
mattone del peso di 2,5 chilogrammi è una delle varianti dell’esplosivo Semtex.
Il suo nome sta per SEMTìn, un sobborgo di Pardubice nella attuale Repubblica
Ceca, dove il composto era stato prodotto per la prima volta in grandi quantità
dalla East Bohemian Chemical Works Synthesia nel 1964, ed EXplosive. Progetto
del chimico cecoslovacco Stanislav Brebera era stato sintetizzato negli anni
’50. Questa variante H, prodotta su larga scala dal 1967, destinata
all’esportazione, soprattutto per la bonifica di mine terrestri in Vietnam, era
stata studiata per impieghi civili e per l’attività estrattiva. Il Semtex-H,
molto simile al plastico militare C-4 ma con un diverso colore, è impermeabile
e utilizzabile in un campo di temperature più vasto. Esportato in tutto il
mondo in grandi quantità fino al 1981 e in quantità ridotte solo nei paesi
membri del Patto di Varsavia fino al 1989 con la sospensione delle esportazioni
legali, attualmente le grosse organizzazioni terroristiche e criminali ne
controllano il traffico e la detenzione. Questo tipo di esplosivo è il prodotto
dell’unione di due elementi esplosivi primari: 40.9% in peso di Pentrite, uno
degli esplosivi più sensibili potenti, un “super-esplosivo” preparato per la
prima volta nel 1891 dal chimico tedesco Bernhard Tollens; 41,2% in peso di
RDX, formalmente Ciclotrimetilenetrinitramina, di caratteristiche eccezionali
scoperto e brevettato dal chimico e farmacista tedesco Georg Friedrich Henning
nel 1898 e codificato con questo nome prima dall’esercito inglese come Royal
Demolition eXplosive e poi prodotto in larga scala dagli Stati Uniti nel 1920
come “RD” Research and Development, ricerca e sviluppo, sigla comune a tutti i
nuovi prodotti per la ricerca militare, e "X", la classificazione,
nata come lettera provvisoria ma rimasta definitiva; il legante gomma
Stirene-Butadiene per il 9% in peso, il plastificante n-ottilftalato al 7,9% in
peso, lo 0,5% di antiossidante N-fenil-2-naftilammina
e lo 0,5% di colorante ne assicurano il riconoscimento e la malleabilità. Il secondo
esplosivo invece, il Brixia B5, di non facile reperibilità, non è la prima
volta che viene utilizzato dall’organizzazione. È un esplosivo gelatinato per
uso civile confezionato in candelotti avvolti in carta cerata con stampigliato
il suo nome e delle dimensioni di 250 millimetri di lunghezza per un diametro
di 25 contenente un peso di 135 grammi netti di sostanza esplodente. Prodotto
tutto italiano, il nome viene dal luogo di provenienza, Brescia, in latino,
dov’è stato fabbricato fino al 1985 con avvolgimento color avana nello
stabilimento di Ghedi della SEI, la Società Esplosivi Industriali S.p.A., prima
che la produzione venisse spostata presso lo stabilimento di Domusnovas, nella
provincia di Cagliari, in Sardegna, dove ora viene avvolto in carta cerata
color magenta. Questa Gelatina è composta da un 1.5% di Nitroglicole, potentissimo
esplosivo sensibile agli shock meccanici prodotto dal chimico belga Louis Henry
nel 1870, simile alla Nitroglicerina ma molto più stabile nel tempo e
quindi meglio conservabile tanto da venire utilizzato
nelle dinamiti perché abbassa il punto di fusione della
Nitroglicerina che a temperature prossime agli 0 gradi centigradi inizia a
dilatarsi e ad uscire dai candelotti con conseguenze facilmente immaginabili; da
un 5% dalla Nitroglicerina sintetizzata dal chimico e medico italiano Ascanio
Sobrero nel 1847 dalla Nitrocellulosa, il prodotto scoperto dal chimico tedesco
Christian Friedrich Schönbein nel 1846, 2% di Dinitrotoluene; 8% di
Trinitrotoluene ed infine la parte più consistente costituita da Nitrato
d’Ammonio per una percentuale dell’81%. Questo, fertilizzante scoperto come
prodotto esplodente dal chimico e ingegnere svedese Alfred Nobel nel 1870, era
stato già intuito come potenziale elemento da Johann Rudolph Glauber, chimico e
farmacista tedesco considerato uno dei fondatori della chimica industriale
moderna e precursore dell’ingegneria chimica, preparandolo e descrivendolo nel
1659 come “nitrum flammans” per via del colore giallo della sua fiamma. Questo
tipo di Gelatina, il Brixia B5, non è altro che una Dinamite, del tipo a base
esplosiva, un’evoluzione della Dinamite a base attiva composta da 75% di
Nitroglicerina e 25% di segatura e nitrato di sodio, a sua volta evoluzione
della prima assoluta brevettata dal chimico e ingegnere svedese Alfred Nobel
nel 1867, a base inerte, dove la Nitroglicerina, costituente il 75% della
cartuccia, era miscelata con un 25% di farina di roccia silicea sedimentaria di
origine organica. Il Brixia è nei magazzini dell’organizzazione da tempo, già
nel giugno del 1989 Salvatore Biondino, che reggeva di fatto il mandamento di
San Lorenzo in assenza del capo Giuseppe Giacomo Gambino, all’epoca detenuto e
sotto le direttive di Salvatore Riina, già capo indiscusso della Commissione
Provinciale, aveva chiesto a Giovan Battista Ferrante, uomo d’onore della
Famiglia di San Lorenzo, di aiutarlo per reperire un certo quantitativo di
esplosivo che doveva essere fornito ad Antonino Madonia, figlio di Francesco
Madonia. Per questo, insieme al Biondino, lo stesso si era recato presso il
deposito clandestino sito in contrada Malatacca, vicino all’ospedale “Cervello”
nel territorio del mandamento, al quale potevano accedere solo loro due e pochi
altri. Il Brixia, conservato in un bidoncino di plastica a bocca larga, uno dei
tanti utilizzati per lo stoccaggio dell’esplosivo nei numerosi depositi
clandestini dell’organizzazione, nel 1985, prima di essere utilizzato la prima
volta nell’attentato al Giudice Carlo Palermo il 2 aprile, su incarico di
Giuseppe Giacomo Gambino, Ferrante, in compagnia di Salvatore Biondino e dei
cugini omonimi Salvatore Biondo, classe 1955 e 1956 chiamati confidenzialmente
l’uno “il corto”, l’altro “il lungo” a sottolineare la differenza di statura,
si era recato ad un appuntamento a Trapani, nella zona ove finisce l’autostrada
per Trapani ed inizia la statale per Erice, per incontrarsi con Bruno
Calcedonio, uomo d’onore della famiglia di Mazzara del Vallo, il quale aveva
accompagnato il Biondino con la sua Renault 4 in un luogo non lontano per
consegnarglielo contenuto in diversi sacchi di plastica e per un quantitativo
di circa 200 chilogrammi. Dopo tale consegna, esauritasi in circa quindici
minuti dal momento in cui il Biondino si era allontanato con il Calcedonio al
momento in cui i palermitani erano ripartiti in direzione di Palermo, il gruppo
aveva eseguito il trasporto della merce ricevuta caricandola sull’auto di
Biondino ed utilizzando una delle auto come battistrada fino alle Case Ferreri,
un complesso di edifici risalenti al Settecento ora adibiti a polveriera,
armeria, poligono e deposito libri contabili delle estorsioni della famiglia di
San Lorenzo, di cui Ferrante ha il possesso, dove era stato inizialmente
custodito non essendo all’epoca disponibile ancora il deposito clandestino di
contrada Malatacca in cui successivamente vi era stato trasferito. Ala riservetta
di Brixia si era attinto più volte, alcune a scopo intimidatorio, i tre
candelotti utilizzati da Ferrante tra il 1989 ed il 1990 per compiere, insieme
a Biondino ed ai fratelli Biondo un raid ai danni della ditta CO.GE.MI., di cui
il titolare, il dott. Nisticò, non era puntuale nel versare il pizzo, altre
invece per uccidere, come l’attentato fallito del 21 giugno del 1989 nei
pressi della villa al mare che il Giudice Giovanni Falcone aveva affittato per
l'estate nella località palermitana dell'Addaura, dove Salvatore Biondino,
Antonio Madonia, Vincenzo e Angelo Galatolo lo avevano atteso con l’intenzione
di farlo saltare in aria con 58 candelotti fallendo però a causa della mancata
realizzazione del programmato bagno a mare e grazie alla ricognizione degli
agenti di scorta che aveva messo in allerta i sicari, o come quello, stavolta
riuscito per metà, al Giudice Carlo Palermo dove Baldassarre di Maggio e
Antonio Madonia, reggenti dei mandamenti palermitani di San Giuseppe Jato e
Resuttana, con l’ultimo, killer spietato con alle spalle l’agguato al
Segretario regionale del PCI e parlamentare Pio La Torre e del suo
collaboratore, l’agguato al Prefetto di Palermo, il Generale Carlo Alberto
dalla Chiesa e l’attentato dinamitardo al Capo dell’Ufficio Istruzioni della
Procura di Palermo, il Giudice Rocco Chinnici, avevano attivato un’autobomba
con 200 cartucce di Brixia disintegrando non l’auto del Magistrato ma una
seconda che per uno scherzo del destino si era posta tra le due dilaniando una
madre coi suoi due bambini. Il terzo esplosivo che costituisce la carica
destinata al Giudice Borsellino, il Trinitrotoluene, esplosivo preparato la
prima volta nel 1863 dal chimico tedesco Julius Wilbrand, perfezionato dal
chimico tedesco Hermann Frantz Moritz Kopp nel 1888 e prodotto industrialmente
in Germania un anno dopo col nome di Tritolo o Tnt, arriva invece dai depositi
della Famiglia di Brancaccio e anche questo non è la prima volta che viene
utilizzato. Giuseppe Graviano, il capo della Famiglia, aveva scomodato Cosimo
d’Amato, pescatore di Porticello e cugino proprio del boss palermitano Cosimo
Lo Nigro, che per il recupero dell’esplosivo era solito attingere da una
vecchia nave colata a picco durante la Seconda Guerra Mondiale e adagiata sul
fondale col suo carico intatto nella stiva. Oggetto dei desideri proibiti per
numerosissimi appassionati di immersioni e per coloro i quali operano nel
settore del turismo subacqueo, questa nave non è solo un’oasi di vita colorata
e ricca, spunto per riprese video mozzafiato facilmente raggiungibile dalla
costa, ma è anche una gigantesca “Santa Barbara” a disposizione dei clan.
Varata il 3 gennaio del 1923 per la Cosulich Società Triestina di Navigazione
insieme ai
gemelli Ida, Alberta, Clara, Teresa e Lucia, la
Laura C. era impiegata assieme a loro sulle linee dell’America Settentrionale.
La nave, un piroscafo da carico di 122 metri di lunghezza, 17 di larghezza e 20
mila tonnellate di stazza, era stata confiscata per le sue peculiarità il 29
ottobre 1940 a Trieste dalla Regia Marina per i propri scopi legati al
conflitto bellico in corso. Partita da Venezia il 28 giugno 1941 con
destinazione Tripoli stivava rifornimenti per le forze dell’Asse operanti in
Nordafrica costituenti, oltre un carico di 5.773 tonnellate di materiali tra
cui medicinali, scorte alimentari, biciclette, vestiario, macchine da cucire,
cavi per linee telefoniche e parti di ricambio per automezzi, anche armi,
munizioni e 1.200 tonnellate di Tritolo sistemate nella terza stiva poppiera e
costituito da casse contenenti panetti del peso di 200 grammi l’uno. Mentre
navigava in convoglio con altri due piroscafi e scortata da un incrociatore e
una torpediniera era stata avvistata da un sommergibile britannico Upholder che
presso Capo dell’Armi, in Calabria, le aveva lanciato contro tre siluri che
avevano fermato i motori, bloccato il timone e allagato le stive. L’equipaggio,
deciso a fare incagliare la nave in costa trascinata da due rimorchiatori alla
foce della fiumara di Molaro, sulla spiaggia di Saline Ioniche, per salvare la
nave o almeno il suo carico, non aveva fatto caso alla configurazione del
fondale, molto scosceso, che aveva fatto sì che la Laura C., nel giro di
poco più di sette ore scivolasse all’indietro affondando senza spezzarsi alla
profondità di 50 metri e a 100 metri dalla spiaggia. Negli anni, mentre parte
delle vettovaglie che facevano parte del carico, finite a riva, erano diventate
una insperata risorsa per la popolazione locale affamata dai razionamenti
imposti dalla guerra, l’esplosivo è stato abbondantemente prelevato dai sub
della ‘Ndrangheta calabrese, della Cosa Nostra siciliana, della Camorra campana
e della Sacra Corona Unita pugliese con l’obiettivo di confezionare bombe per
la loro personale strategia della tensione. La carica di Semtex, esplosivo
plastico ad alto potenziale tanto caro all’IRA irlandese e ai terroristi
islamici e libici, quella di Brixia B5 tanto richiesta in Italia per utilizzo
estrattivo e quella di Tnt, che grazie alla sua facilità al maneggio, la sua
assoluta stabilità, la sua buona potenza, ne fanno il migliore degli esplosivi
da scoppio conosciuti per usi bellici, erano state stipate con cura nel vano
portabagagli anteriore svuotandolo di tutto, perfino della ruota di scorta.
L'innesco invece era studiato con un circuito composto da due detonatori
elettrici collegati in serie affogati in due cartucce di Gelatina, ciascuno
contenente una piccola quantità di esplosivo secondario, Pentrite, innescato a
sua volta da uno primario, il sensibilissimo Azoturo di Piombo preparato dalla
Curtis's and Harvey Ltd Explosives Factory nel 1890, attivato da un ponticello
metallico annegato in una miscela incendiaria reso incandescente dal passaggio
della corrente elettrica. I detonatori, tubicini in alluminio versioni moderne
di quelli inventati nel 1876 da Julius Smith, provengono da una cava di sabbia,
la INCO di Roccamena-Camporeale, nel territorio di Roccamena, nel Belice, da
cui la sua famiglia mafiosa si era in passato rifornita per approvvigionarsi
per altri attentati, di proprietà di Giuseppe Modesto, un imprenditore molto
vicino a Giovanni Brusca. Questo aveva approfittato della sua “amicizia” nonché
della parentela con Franco Piedescalzi, l’addetto al maneggio degli esplosivi
della cava, qualche mese fa tramite Giuseppe Agrigento, anche lui persona molto
vicina a Brusca nonché capofamiglia di San Cipirello, incaricato di recuperarne
quanti più possibili assieme ad un ingente quantitativo di esplosivo in
previsione di una serie di attentati iniziati con quello al giudice Giovanni
Falcone. Questi sarebbero stati innescati a distanza alla vista del Giudice da
una batteria e un sistema ricevitore della Telcoma System di San Biagio di
Callalta, in provincia di Treviso, commercializzato da venditori specializzati
dal 1989. Abbinato all’analogo apparecchio trasmettitore, data la notevole
potenza del sistema questo avrebbe consentito l’instaurazione di un ponte radio
anche della distanza di venti chilometri. Trattandosi di sistemi piuttosto
sofisticati, ad alta affidabilità e di conseguenza molto costosi, questi apparecchi
vengono normalmente impiegati per usi industriali quali comando a distanza di
apparati elettrici come pompe sommerse, sistemi di allarme e gru. La
particolare affidabilità del sistema è data dalla possibilità di stabilire
preventivamente un codice, scelto tra 1.024 combinazioni differenti,
impostandolo sia nell’apparecchio trasmittente che in quello ricevente in modo
tale che quest’ultimo si attivi unicamente con l’invio del segnale codificato
dall’apparecchio trasmittente, escludendo in questo modo la possibilità di
interferenze. Poiché nell’impiego industriale tali caratteristiche consentono
il funzionamento della trasmittente con diverse riceventi attivate con l’invio
dei rispettivi codici prefissati, nelle condizioni di impiego presenti in via D’Amelio
e per gli scopi dei tecnici, queste sarebbero tornate utili per escludere del
tutto l’incidenza di interferenze radio eventualmente presenti nell’ambiente
evitando così il rischio di un’attivazione indesiderata del sistema e dunque un
innesco involontario dell’ordigno. Il ponte radio fra l’apparecchio
trasmittente e quello ricevente sarebbe stato instaurato alla frequenza di
445,025 megahertz, dove all'interno di questa onda portante avrebbe viaggiato
un segnale digitale codificato prodotto da una scheda chiamata Codifica,
prodotta in Giappone con la sigla 88-21 stando a significare la produzione
nella ventunesima settimana dell’anno 1988, che avrebbe consentito di porre in
essere una combinazione logica che sarebbe stata ricevuta dal ricevitore che si
sarebbe attivato appena avesse riconosciuto il codice mandato tre volte in
successione per aumentare le garanzie di successo, operazione che sarebbe
avvenuta nell’arco di decimi di secondo. Il sistema, che data la sua
complessità aveva la necessità di essere collaudato, era stato portato sabato
11 luglio alle Case Ferreri. Luogo piuttosto isolato e di cui Ferrante ha
disponibilità, in stato di completo abbandono è costituito da un edificio
padronale, stalle, magazzini, una cappella, tutto contornato da un grande
appezzamento di terreno. Attualmente di proprietà della “Livorno Costruzioni”
di cui amministratore è Giuseppe Gambino, del mandamento di San Lorenzo, che
nel marzo di quest’anno ha dato il via alla costruzione di alcune villette, il
complesso di edifici e annessi era stato venduto nel 1983 alla società dal
Barone Gabriele Chiaramonte Bordonaro che non se ne era più curato ma che lo
aveva lasciato in custodia ad uno zio di Ferrante, Salvatore Bonura, che lo
aveva utilizzato fino ai primi anni ‘80 per allevarvi del bestiame prima che il
compito di guardiano passasse al padre. Al collaudo preventivo del sistema
radio avevano preso parte Ferrante, Salvatore Biondino e i cugini omonimi
Biondo. Era stato “il lungo” a portare il sistema da provare, aveva assemblato
la ricevente seguendo delle istruzioni riportate su di un foglio di carta,
utilizzando come alimentazione la batteria dell’auto de “il corto”, montando il
filo con funzione di antenna e collegandola ad un detonatore elettrico tramite
una linea di tiro sufficientemente lunga, 40 metri, da scongiurare il pericolo
che esplodendo danneggiasse l’apparecchio poggiato sul sedile dell’auto
parcheggiata davanti ad uno dei magazzini. Col dare alimentazione alla
trasmittente tramite la batteria dell’auto de “il lungo” mediante una presa di
corrente posta nell’accendisigari in dotazione, era stato verificato il
funzionamento del “ponte radio” fra le due nelle condizioni più estreme:
distanza e ostacoli. Con una distanza tra apparato trasmittente e ricevente di 250
metri snodati tra edifici e fitta vegetazione, Ferrante aveva azionato i
pulsanti del primo provocando l’esplosione del detonatore chiuso in un
barattolo di latta da 20 litri posto sopra di un abbeveratoio, successo
confermato da Biondino e “il lungo” rimasti nei pressi della ricevente per le
verifiche. Finito il collaudo, il sistema della Telcoma era stato riposto nei
rispettivi sacchetti per essere consegnato da “il corto” nelle mani di
Tagliavia il giorno dopo con le istruzione per il corretto assemblaggio.
L’apparato della Telcoma System fa parte della dotazione della Famiglia di San
Lorenzo che dispone in tutto di cinque apparati, tutti uguali, precisamente
cinque coppie di apparecchi trasmittente-ricevente contenute in sacchetti
legati fra loro a coppie in modo da non confonderli fra loro, di aspetto
esteriore quasi identico e perché ciascuna trasmittente è in grado di
funzionare unicamente con la ricevente cui è stata accoppiata in fabbrica. Gli
apparecchi sono custoditi in un immobile sito in Piazza Maio acquistato con il
denaro della Famiglia e intestato a Ferrante, immobile dotato di un locale
sotterraneo da cui si accede da una botola nel pavimento del bagno. Gli
apparecchi erano stati procurati, per ordine di Salvatore Biondino, da Biondo
“il corto” tramite un loro cugino, Giuseppe Biondo, conosciuto e apprezzato
all’interno di Cosa Nostra come esperto di elettronica al quale era stato
commissionato l’acquisto per conto della Famiglia specificandogli l’esigenza di
apparecchi particolarmente affidabili e dunque più sofisticati dei normali
telecomandi per cancelli o per modellismo come quello utilizzato per far
saltare l’autostrada A29 il 23 maggio. Giuseppe Biondo, capo operaio alla
Forestale con l’hobby dell’elettronica, risaputo essere un radioamatore
collezionista di apparecchi radio-trasmittenti, non solo è in grado di
ripararli ma anche di apportarne modifiche fino a migliorarne le prestazioni.
Solito rifornirsi nel negozio di elettronica Migliore di Palermo li aveva
acquistati coi fondi della Famiglia di San Lorenzo per un prezzo di 800 mila
lire per ogni coppia. Le trasmittenti, opportunamente modificate su richiesta
di Biondino in modo da rendere possibile l'azionamento a distanza di cariche
esplosive, in materiale plastico approssimativamente alte 5 centimetri, larghe
18 e profonde 13 centimetri, di colore scuro e opaco sono dotate di pulsanti
non originali, installati artigianalmente sulla sinistra del frontale, sulla
destra del frontale un filo lungo 40 centimetri nero e rosso funge da antenna
mentre una piccola lampadina collegata con un filo al frontale ha la funzione
di segnalare la chiusura del circuito elettrico. Le riceventi, di materiale,
dimensioni e colore analoghi alle trasmittenti, hanno il filo
dell’alimentazione in uscita dalla parte bassa pronto per essere collegato ai
morsetti della batteria per auto, un secondo che funge da antenna e un terzo
per il collegamento alla linea di tiro nel caso la centralina fosse distante
dalla carica, o direttamente ai detonatori nel caso la centralina si trovasse a
ridosso della carica. Dei quattro sistemi radio rimasti, due erano destinati a
Matteo Messina Denaro, due invece alla distruzione per evitare che la Dia, la
Direzione Investigativa Antimafia, ne entrasse in possesso poiché l’organismo
investigativo interforze con compiti di contrasto alla criminalità organizzata
di stampo mafioso in Italia sta tenendo da qualche tempo sotto osservazione
Ferrante tanto da avere le sue foto nei propri archivi, foto che Carlo Greco,
sostituto capo del mandamento di Santa Maria di Gesù, è riuscito ad avere
e informare Salvatore Biondo “il corto” mettendolo in allerta. I due,
assieme agli altri si sarebbero dovuti occupare al più presto, oltre che dei
sistemi radio, del resto del materiale compromettente custodito nella casa di
Contrada Malatacca. La gran quantità di esplosivo nascosta sarebbe dovuta
essere sciolta nell’acqua e riversata nella fogna, la carta oleata di
confezionamento e i sistemi radio bruciati e ciò che fosse rimasto preso a
martellate e gettato nella spazzatura. All’interno del garage di via Pietro
Villasevaglios, Francesco Tagliavia aveva passato la notte ad assemblare la
bomba all’interno della Fiat 126 configurandola a strati, col Semtex in pani
nella parte inferiore, il Brixia in candelotti nastrati tra loro in quella
superiore assieme al Tnt nell’involucro artigianale. L’esplosivo cecoslovacco
era stato portato dal magazzino di Fondo Schifano, nella via Ciprì al civico
19, trasferito lì dalla Contrada Malatacca dove proveniente da un acquisto al
mercato nero del 1986 era stato sotterrato in fusti di plastica. Confezionato
in pani chiusi in sacchi di juta legati con spago in cotone era stato preso in
consegna da Spatuzza che si era occupato di disimballarlo e controllarlo, stessa
cosa fatta per il Brixia B5. Il Tritolo “giunto dal mare”, che fa parte dello
stesso recupero destinato a comporre la gigantesca carica destinata a Giovanni
Falcone, arrivava invece da un vecchio casolare di proprietà della zia di
Spatuzza, proprio accanto alla proprietà della madre e solitamente usato come
deposito. Una volta portato in superficie dalla Laura C. e recuperato al porto
dopo essere arrivato in banchina all’interno di fusti cilindrici delle
dimensioni di un metro per 50 centimetri di diametro legati con delle funi alle
paratie del peschereccio di Cosimo d’Amato, era stato trasportato, nascosto
sotto delle reti da pesca nel cassone dell’Ape Piaggio di Cosimo Lo Nigro da Spatuzza,
in un capannone al civico 1419/D di Corso dei Mille, a Palermo, luogo sotto
l’influenza della famiglia di Roccella capeggiata da Antonino Mangano, una
delle quattro famiglie componenti il mandamento di Brancaccio. Lì era rimasto
in stallo mezza giornata prima di essere trasferito da Cristofaro Cannella a
bordo della sua Wolkswagen Golf nera scortato da Spatuzza in un altro deposito,
questa volta nella zona industriale di Brancaccio e di proprietà della VaL.
TRANS., ditta di trasporti dove Spatuzza è attualmente impiegato, per essere
svuotati del contenuto pronto ad essere deconfezionato. Chiuso in federe di
cuscini e poi in sacchi neri della spazzatura, provvisoriamente nascosti in un
angolo del piazzale occultato sotto del materiale inerte scarto della
lavorazione delle cave, e coperto da teloni, era stato successivamente
prelevato e riportato nel rudere della zia di Spatuzza per essere lavorato e
stoccato. Mentre la parte più grande era stata lavorata per l’attentato del 23
maggio, la rimanenza, fatta asciugare, deconfezionata e tenuta sfusa dentro
sacchi di juta chiusi con dei lacci in cotone, era rimasta lì in attesa del
successivo incarico. Il contenuto, a scaglie e di colore giallo chiaro, solidificato
per l’azione di acqua e umidità e di varia pezzatura, da pochi centimetri ad
alcune decine, era stato portato a Spatuzza che aveva pensato alla sua
preparazione finale: la macinazione e il riconfezionamento. Svuotato su di un
tavolo poco alla volta, sbriciolato artigianalmente e setacciato con uno
scolapasta, operazione ripetuta più volte e che aveva richiesto due giorni,
Spatuzza aveva schiacciato pietra dopo pietra con un pestello in ferro in un
recipiente in alluminio, lavoro lungo e delicato che aveva ridotto il Tritolo
ad una polvere sottile pronta per essere ricompattata. Con la materia prima
raffinata conservata in un fusto di metallo aveva poi proceduto al
riconfezionamento in un sacco grande nero della spazzatura, pressando il
contenuto e avvolgendolo più volte con del nastro largo marrone per imballaggi.
A completamento, era stata fissata a lato della carica la centralina ricevente
della Telcoma, col primo filo dell’alimentazione serrato ai morsetti della
batteria posta accanto, il secondo collegato al circuito dei detonatori
annegati nei candelotti di Brixia, il terzo dell’antenna fatto passare
esternamente alla vettura, nastrato alla carrozzeria lungo una delle
guarnizioni nere in gomma da risultare pressoché invisibile ad un occhio
distratto o troppo impegnato ad osservare più cose contemporaneamente. L’autobomba,
completa e terribile, dopo che Raffaele Ganci aveva avvisato col benestare dei
vertici del gruppo di fuoco Salvatore Cancemi che il Giudice il giorno dopo
sarebbe dovuto morire, era finalmente pronta per essere trasportata sul Punto
Zero, un evento per cui avevano lavorato incessantemente per intere settimane,
ascoltando, seguendo, spiando. Il Giudice Borsellino è solito effettuare
spostamenti costanti, che consistono nel recarsi al suo ufficio al Palazzo di
Giustizia ogni mattina alle ore 8.00, rimanervi fino alle 14.00 per poi tornare
nel pomeriggio tra le 15.30 e le 16.00 trattenendosi fino alle ore 20.00,
orario in cui rientra a casa. La sera esce raramente, mentre va con una certa
regolarità sia a fare visita alla madre sia la domenica a messa nella chiesa
sita di fronte alla sua abitazione. Ha anche l’abitudine, o almeno l’aveva fino
all’anno scorso, di trasferirsi per tutto il periodo estivo con la propria
famiglia nella casa a Villagrazia di Carini, una frazione di Carini, a 27
chilometri da Palermo, poichè non reputando il posto sicuro aveva deciso di
rimanere nel domicilio di tutti i giorni in via Cilea dove è presente un posto
fisso di sicurezza affidato alla Polizia di Stato con una macchina e tre agenti
che hanno la visuale sia sull’ingresso dello stabile di domicilio, sia sulla
parte retrostante la chiesta dove si reca a messa, il cui ingresso non è
ubicato sulla via Cilea ma sulla strada parallela a questa. Al servizio di
protezione assicurato dai tre uomini addetti stabilmente alla sua scorta, fino
a poco tempo fa era affiancata anche una seconda volante che la seguiva negli
spostamenti, auto però non sempre disponibile a cui si è risolto relativamente
da poco con l’assicurazione di una ulteriore scorta fissa aggiuntiva con altri
tre uomini, con la sigla 11/bis, al posto della pattuglia della polizia ma i
cui addetti cambiano continuamente. Inoltre, il magistrato ha anche a
disposizione un autista tratto dal personale giudiziario ma in servizio
unicamente nella mattina dei giorni feriali, cosicché negli spostamenti
pomeridiani e in quelli dei giorni festivi Borsellino è costretto a guidare
personalmente la propria auto blindata. La scorta, anch’essa su vetture
blindate, negli spostamenti si posiziona in chiusura e in apertura del
convoglio con la prima in funzione di “staffetta”. Come nel caso di Giovanni
Falcone, che lavorando negli uffici di Roma era diventato abitudinario e tutti
i fine settimana, rientrando in Sicilia nel suo domicilio a Palermo, faceva
sempre lo stesso percorso, anche per Paolo Borsellino la sua abitudine coi mesi
è diventata la sua debolezza, debolezza che anche stavolta qualcuno ha notato.
Le attenzioni e le cure nei riguardi dell’anziana madre, la signora Maria
Lepanto, alla quale è solito fare visita piuttosto spesso, si stanno per
trasformare nella sua condanna. Abitando presso la figlia Adele, per stare
anche con la seconda figlia, Rita, la signora Lepanto si trasferisce da lei nei
fine settimana, in via Mariano D’Amelio, trattenendosi dal venerdì e a volte il
sabato fino al martedì successivo. Borsellino va a farle visita tutte le
domeniche mattina dopo la messa, non disdegnando di andarci talvolta anche
durante la settimana, specialmente quando lei non si sente bene o necessita di
qualcosa. E’ andato a trovarla sei volte nel mese di gennaio, di cui tre di
domenica; quattro volte nel mese di febbraio; sei volte nel mese di marzo di
cui quattro di domenica; cinque volte nel mese di aprile di cui quattro di
domenica; cinque volte in maggio di cui due di domenica; tre volte nel mese di
giugno coprendo tutte le domeniche; una volta a luglio. Gli uomini di Cosa
Nostra, che avevano osservato con cura questi spostamenti, avevano notato che a
partire dalla visita fatta nel giorno di domenica 31 maggio tutte le altre
erano avvenute dalla sorella Rita in via D’Amelio, con le visite
infrasettimanali in giorni sempre diversi e in orario pomeridiano, mentre
quelle domenicali, ad eccezione di quella avvenuta il primo di marzo, erano
state di mattina tra le ore 9.00 e le 10.00. Gli appostamenti in via D’Amelio
erano cominciati dalla prima settimana di luglio, Giuseppe Graviano e Fabio
Tranchina, il suo uomo di fiducia, si erano occupati dei sopralluoghi e dei
pedinamenti, osservando e a volte seguendo il convoglio dal punto di partenza a
quello di arrivo analizzandone i percorsi, i punti critici e il modus operandi
degli uomini della scorta. Pertanto, erano state tante le valutazioni che gli
uomini di Cosa Nostra avevano compiuto per la progettazione dell’azione
stragista, in rapporto alle abitudini del magistrato e all’individuazione del
luogo più adatto per colpirlo e nonostante gli spostamenti fossero abituali e
negli stessi orari, l’attuazione dell’attentato lungo il percorso era stata
ostacolata dal fatto che l’itinerario seguito per lo spostamento venisse
continuamente variato: dunque, l’incertezza sul percorso che il magistrato
avrebbe compiuto avrebbe comportato l’utilizzo di un numero di uomini maggiore
di quello altrimenti necessario, incrementato il rischio di un fallimento dell’impresa,
senza considerare che l’esecuzione nei punti di partenza e di arrivo del
percorso sarebbe stata ulteriormente ostacolata dall’esistenza di “zone
rimozione” e dalla presenza continuativa degli agenti di scorta, specialmente
sul percorso per la chiesa il cui il tragitto è sempre uguale. Inoltre, non
potendosi considerare abituale la frequentazione dell’abitazione di Villagrazia
di Carini, l’esecuzione di un attentato in quel luogo o lungo il percorso che
il magistrato avrebbe seguito per recarvisi non era parso assolutamente
attuabile. La frequentazione di quella della sorella in via D’Amelio, invece,
si era prestata allo scopo: abitudini e spostamenti facilmente osservabili
anche a corta distanza, e cosa fondamentale, nessuna “zona rimozione”, nonostante
fosse stata redatta più di una relazione con le quali era stata chiesta alle
autorità competenti, invano, per questioni di sicurezza davanti all’abitazione
di Rita Borsellino, appartamento dove Cosa Nostra si era preoccupata anche di
mettere sotto controllo il telefono inviando due dei suoi uomini, Pietro Scotto
e Alfonso Brusca, poichè mettessero le mani nella cassetta di derivazione posta
nel pianerottolo. I due, che lavorano per la Elte, una ditta che si occupa per
conto della SIP delle installazioni dell’impianto fra l’apparecchio
dell’abbonato e l’armadio di derivazione, avevano creato una rudimentale
intercettazione eseguita mediante la predisposizione di circuiti di
“parallelamento” e di “deviazione” necessari per l’installazione di un
“terminale remoto” di ascolto clandestino, manomissione eseguita sia al
pianerottolo che nell’armadio di derivazione posto al piano terreno. Venerdì
17, dopo essere rientrato da Roma nel pomeriggio, Borsellino si era sentito
telefonicamente con la madre che non stava bene. Avrebbe dovuto accompagnare da
lei, sabato, un suo amico medico cardiologo, il dottor Pietro Di Pasquale, che
l’avrebbe visitata immediatamente ma che a causa di un guasto improvviso
all’auto si dovette rimandare alla domenica pomeriggio, ad oggi, con
appuntamento direttamente nel suo studio. I mafiosi delle Famiglie della Noce,
San Lorenzo e Porta Nuova, in movimento dalle ore 07:00 di stamattina sono in
osservazione intorno a via Mariano D’Amelio e a via Cilea. E proprio uno di
questi, Domenico Ganci, appena visto il Giudice uscire dalla sua abitazione con
la figlia Lucia per raggiungere a Villagrazia la moglie Agnese Leto e il figlio
Manfredi, aveva avvertito telefonicamente Fifetto Cannella che il bersaglio si
era messo in movimento. Con un susseguirsi di telefonate tra Ganci e Ferrante
gli uomini si erano spostati, posizionati e avevano atteso, un’attesa snervante
durata tutto il giorno che aveva messo a dura prova i nervi di ognuno. Con
stretta necessità che fosse istituita una efficace e rapida comunicazione
affidata, ai mezzi più idonei e affidabili, i telefoni cellulari, i
partecipanti alle operazioni erano stati divisi in due gruppi: il primo, che
avrebbe curare il pattugliamento nella zona di via D’Amelio con la funzione di
osservare gli spostamenti della vittima, li avrebbe segnalati al secondo, che
in attesa del suo arrivo nella via pronto ad entrare in azione quando il
magistrato fosse stato in procinto di raggiungerla, avrebbe avuto la funzione
di attivare l’esplosione nel momento ritenuto utile a colpirlo assieme alla sua
scorta. Ciò, che avrebbe comportato la necessità di avere una buona visuale
della zona antistante l’ingresso dello stabile sito al civico 19, per le
necessità operative conseguenti alla sua funzione il secondo gruppo era stato
studiato per essere composto da due persone: l’addetto alle comunicazioni, che
avrebbe risposto alle chiamate, e colui che avrebbe avuto il compito di
attivare l’esplosione azionando il radiocomando. Sono le ore 16:42: il primo
gruppo, Biondino in auto con Biondo “il corto”, Ganci in auto con Cancemi,
Ferrante da solo e a piedi, si muovono da ore, incessantemente, a volte
incrociandosi e mai fermandosi a parlare, limitandosi a scambiare sguardi
d’intesa, attendendo; Il secondo gruppo, Giuseppe Graviano e Fabio Tranchina,
sono dietro un muretto, nel giardino in fondo alla via, anche loro aspettano,
il primo ha in mano il radiocomando, lo guarda mentre in lontananza si vedono i
lampeggianti blu, è il convoglio delle blindate che sta arrivando. La scorta, che
aveva preso servizio alle ore 12.45 con l’ordine di portarsi presso
l’abitazione estiva di Borsellino dove il Giudice aveva pranzato con la moglie
Agnese e i figli Manfredi e Lucia, era arrivata con Antonio Vullo insieme a
Claudio Traina e Vincenzo Li Muli, raggiunti alle ore 16:00 dagli altri, Walter
Eddie Cosina, Agostino Catalano e Emanuela Loi. Dopo la chiamata di Borsellino
ai due capipattuglia, Traina e il Catalano, con la quale aveva comunicato che
avrebbe dovuto recarsi in via D’Amelio e dove aveva dato loro le indicazioni
occorrenti per raggiungerla, il corteo di autovetture era partito per la
destinazione. Questo, costituito da tre Fiat Croma 2.0 Turbo, le ammiraglie
della casa, corazzate e del peso di due tonnellate ciascuna, la prima, di “staffetta”,
di colore celeste guidata dal Vullo e con a bordo Li Muli e Traina, la centrale
color carta da zucchero condotta da Borsellino che si trova da solo, e la
terza, di coda, di colore azzurro con Catalano, la Loi e Cosina, avevano dato
comunicazione via radio alla sala operativa sulla destinazione finale subito
dopo la partenza, come da protocollo. Una volta percorsa l’autostrada dallo
svincolo di Carini, viaggiando a velocità piuttosto sostenuta fino alla
circonvallazione dove erano uscite prendendo lo svincolo di via Belgio,
imboccano via dei Nebrodi in direzione del centro cittadino entrando nella zona
d’osservazione di Ferrante che da solo sta pattugliando l’area delimitata dalla
via Principe di Paternò fino all’incrocio con via Sciuti e viale delle Alpi,
spostandosi alcune volte a piedi e altre in auto. Avvistate le tre blindate,
che non hanno le sirene accese ma solo i lampeggianti, l’uomo d’onore della
Famiglia di San Lorenzo compone il numero di telefono di Cannella datogli da
Biondino, prima dal cellulare, poi da un telefono pubblico posto sull’altro
lato della strada non essendo sicuro che la prima chiamata fosse andata a buon
fine. Il convoglio del Giudice, proseguendo fino a via delle Alpi e svoltando
in viale Lazio, dopo aver percorso via Massimo D’Azeglio fino alla via
Autonomia Siciliana arriva in Via D’Amelio, strapiena di auto. Nella via c’è un
silenzio tombale, il rombo dei motori a giri altissimi rimbomba lungo i palazzi
facendo rientrare in casa chi è affacciato sul terrazzo. Prima che Vullo e
Traina abbiano il tempo di prendere qualsiasi decisione, Borsellino li sorpassa
e posteggia la propria autovettura al centro della carreggiata, davanti al
cancelletto posto sul marciapiede dello stabile. Vullo fa scendere dall’auto
Traina e Li Muli col preciso compito di bonifica al portone dello stabile prima
di spostarsi in corrispondenza della fine della via al fine di impedire
l’accesso ad altre persone. Borsellino, seguito da Catalano e dalla Loi, va a
premere il campanello del cancelletto e fermandosi un istante si accende una
sigaretta tallonato da Catalano e dalla Loi che non gli si staccano da dosso
nemmeno un secondo. Traina, già davanti al portone, raggiunto dal magistrato
torna indietro incrociando Li Muli sulla strada. Vullo, fermo all’inizio della
via esce dalla vettura pistola alla mano guardandosi attorno per avere la
certezza che tutto sia normale. La sua visuale, un po’ coperta dal fogliame,
non gli permette di vedere né il magistrato né i colleghi della scorta sul
portone, vede però Cosina vicino alla propria vettura accendersi una sigaretta.
Mentre al civico 19 Borsellino e i due agenti che lo seguono entrano
all’interno del piccolo cortile in direzione del portone, Vullo decide di
avvicinare l’auto alle altre girandola in moto da metterla in posizione per
ripartire, col davanti verso la fine della strada. Sono le ore 16:55, da dietro
il muretto in fondo qualcuno sorride, conscio che le settimane di appostamenti
e la pianificazione accurata abbiano messo il Giudice in una posizione di
inferiorità. 57 giorni dopo la strage del 23 maggio nella quale Giovanni
Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani
sono stati fatti saltare in aria, il Magistrato che porta con sé l’eredità
morale di Falcone e, con il suo eroico impegno, rappresenta un pesantissimo
ostacolo alla realizzazione dei disegni criminali non soltanto
dell’associazione mafiosa, ma anche di molteplici settori del mondo sociale,
dell’economia e della politica compromessi con Cosa Nostra, con una sentenza
che sta per essere eseguita, proprio come 57 giorni fa, su un territorio per
cui non ci saranno dubbi che a colpirlo sia la stessa mano che ha portato via
il collega e amico fraterno, entra nel cono visivo del commando che da dietro
quel lontano muretto ha gli occhi puntati sul convoglio fermo in mezzo alla
strada con gli sportelli aperti. Il radiocomando è accesso, il dito è sul
pulsante. Mentre la staffetta si sta posizionando al centro della carreggiata
davanti alle altre due, immobili così come arrivate, da dietro quel muro il
primo pulsante viene premuto attivando l’impulso radio. Con Borsellino che dopo
aver sfiorato l’auto della morte si guarda attorno alzando il braccio per
tendere il dito verso il campanello, Giuseppe Graviano non esita premendo anche
il secondo bottone. La lampadina si accende, l’impulso radio attraversa il
parcheggio arrivando alla ricevente dentro quella macchina piccola e anonima
col muso sul marciapiede. La batteria, chiuso il circuito, rilascia la scarica
di corrente che percorrendo i fili per tutta la lunghezza entra nei detonatori
infiammando la miscela incendiaria. In un decimo di secondo l’Azoturo di Piombo
di ogni detonatore arma la Pentrite che innesca il Brixia B5 e quindi il Tnt e
il Semtex-H. Sono le ore 16:58, con una velocità di 8 chilometri al secondo la
gigantesca carica detona disintegrando la Fiat 126 color sangue di bue che
schizza in aria in mille pezzi. Mentre i membri del commando si allontanano in
auto verso il centro città, il boato sordo e della durata di un battito di
ciglia squarcia l’aria. L’esplosione, velocissima, devastante, attraversa come
un lampo la via, distrugge le auto blindate, investe quelle parcheggiate e
impatta sui palazzi. La strada trema, la potenza distruttiva della carica combinata
maciulla i corpi del Giudice e degli agenti con le parti dei corpi che volano
per aria schiantandosi in fiamme sull’asfalto e sulle facciate. I palazzi
vibrano, si muovono, gli intonaci vengono giù dal decimo piano, le finestre
scoppiano e le saracinesche si gonfiano. Il sole si oscura, intere famiglie si
riversano per strada coi piedi nudi che si aprono al passaggio su di un tappeto
di vetri. L’asfalto è disseminato di ferro, pietre, sangue e vetro, e nell’aria
il rumore degli allarmi incessanti delle automobili nelle vie parallele copre
le urla di chi è in strada e cerca di allontanarsi da un paesaggio lunare
incandescente disseminato di parti umane. Una mano carbonizzata, “saltando” i
dodici piani del palazzo, è atterrata dietro un edificio di via D'Amelio; un
braccio è appeso ad una finestra al primo piano e dei brandelli di carne sono
spalmati su altri quattro. Il corpo dilaniato del magistrato è lì, vicino al
portone dove era fermo a suonare il citofono, all'interno del giardinetto
antistante. È completamente irriconoscibile, ha uno spianamento del torace con
fratture costali multiple e la deformazione del profilo dell’addome con squarci
profondi dovuti anche alla penetrazione di numerosi frammenti metallici di
varie dimensioni. Gli mancano il braccio destro ed entrambi gli arti inferiori,
è ustionato su buona parte dell’addome nonché sul viso dove profonde ferite
all’arcata sopraciliare destra, il distacco del padiglione auricolare destro,
l’esposizione del cranio e la frattura delle ossa nasali ne hanno cancellato la
fisionomia. Accanto c’è il corpo martoriato di Emanuela Loi, la prima donna a
far parte di una scorta e appena rientrata dalle vacanze nella sua Sardegna.
Della donna non resta che una figura nera, carbonizzata, priva dell’avambraccio
destro e degli arti inferiori all’altezza del femore, con la calotta cranica
schiacciata, lo sfacelo delle parti molli, fratture costali multiple e lo
squasso di tutti i visceri toracici con l’eviscerazione completa della massa
intestinale. Agostino Catalano, il caposcorta, non è ridotto meglio. Il corpo
semi carbonizzato, con ampie e profonde ferite dovute alla perforazione di
schegge metalliche che lo segnano da parte a parte, è depezzato con la mancanza
degli arti inferiori e del braccio sinistro. Il cranio, squarciato e
schiacciato con la fuoriuscita di materia cerebrale, si trova vicino a Vincenzo
Li Muli, anche lui carbonizzato, mancante dell’avambraccio e della mano
sinistra, dell’arto inferiore sinistro e della gamba destra, lo sfacelo della
regione pelvica e un ambio squarcio nel cranio con l’esposizione dei piani
ossei sottostanti completamente distrutti. Claudio Traina è a qualche metro,
sulla sinistra, è tra quelli ridotti peggio. Completamente carbonizzato è privo
dell’arto superiore sinistro. Lo sfacelo completo di parte del cranio e
dell’arto superiore destro, l’ampio squarcio dell’addome e del distretto
pelvico con l’eviscerazione della matassa intestinale si sommano agli arti
inferiori distrutti, così come le costole e le clavicole e gli organi interni
maciullati, parti dei quali sono fuoriusciti e si trovano accanto al corpo di
Walter Cusina. Il cranio di questo è frantumato, deformato, con la frattura
della mandibola, delle ossa nasali e un ampio squarcio alla regione anteriore
del collo, da un angolo all’altro della mandibola da cui protrude un grosso
frammento metallico proveniente dalla carrozzeria di una Alfa Romeo Giulietta
penetrato fino alla cavità orale. Una profonda ferita nella regione sternale
continua per tutto il tronco, lo sfacelo delle parti molli, della coscia destra
e la deformazione della sinistra con aumento di volume ne rendono il corpo
praticamente irriconoscibile. Sorprendentemente, a pochi metri tra il fumo, il
sangue e le fiamme, una figura si muove, è Antonio Vullo, ancora vivo,
intontito, incredulo e dolorante. Strofinandosi gli occhi impastati di lacrime
e polvere cerca di mettere a fuoco le immagini. Lo scenario che gli si apre
davanti è infernale, cerca di capire cosa è successo prima di svenire. Accenna
qualche passo, urta pezzi di lamiera incandescente, barcolla, calpesta qualcosa
di morbido: è un piede. Gli occhi si chiudono, le forze lo abbandono e si
accascia su quello che è effettivamente il Punto Zero. Per un raggio di 8 metri
non c’è più niente e ai piedi di una lunga colonna di fumo nero levatasi alta
nel cielo c’è solo sangue. Con un potenza inimmaginabile la carica combinata di
esplosivo ha generato un muro d’aria che ha proiettato la porzione posteriore
della Fiat 126 indietro di 15 metri, accartocciato ad una decina di metri la
Fiat Panda e la Seat Ibiza parcheggiate accanto, ne ha schiacciato alcune e
rovesciate su un fianco altre. In un’area confinata come è la via D’Amelio gli
effetti dell’esplosione nei riguardi degli edifici sono stati maggiori di quanto
si avrebbe avuto nel caso la carica fosse detonata contro un unico edificio, ma
all’aperto. L’onda di sovrappressione e di gas di esplosione hanno subito
notevoli riflessioni che hanno determinato l’impiego della maggior parte
dell’energia in attività di tipo demolitivo, con una palla di fuoco che ha
raggiunto una temperatura di 3.600 gradi centigradi espandendosi per un
diametro di 18 metri. Il vialetto, il muro perimetrale, la ringhiera,
l’ingresso, le scale, sono spariti. La violenza scatenata dalle decine di
chilogrammi della carica ha spazzato via tutto. I detriti sono sparsi per un
raggio di 160 metri con la maggior parte verso gli edifici ubicati sul lato
destro di via D'Amelio. Sul lato destro della via erano posizionate diciotto
autovetture parcheggiate a pettine contro il marciapiede, ventisei sul lato
sinistro anch’esse a pettine contro il marciapiede, sei al centro assieme alle
tre blindate, e infine, a ridosso del muro in fondo alla via, altre due.
L’esplosione ha provocato la demolizione completa delle autovetture
parcheggiate accanto alla Fiat 126, alcune delle quali, a causa della
sollecitazione ricevuta, sono state proiettate a diversi metri, col carburante
che incendiandosi si è sparso nell’area circostante incendiando a sua volta un
notevole numero di autovetture andate completamente distrutte. Sull’edificio
coi civici 19 e 21 si ha un abbattimento, per un tratto di circa nove metri,
del muretto che delimita il giardino condominiale e la distruzione della
relativa inferriata, la distruzione completa del cancello d’ingresso e delle
strutture di sostegno e corredo, oltre la distruzione quasi totale
dell’edificio adibito a portineria retrostante il cancello d’ingresso e quella
parziale delle scale di accesso. Il muro dell’immobile al piano terreno, in
corrispondenza del punto di scoppio è pressochè sparito assieme
all’appartamento, agli atrii e, con entità decrescente dal basso verso l’alto,
dei muri della facciata, con la demolizione parziale delle strutture interne
degli appartamenti. Gli edifici ubicati sul lato destro di via D’Amelio invece
hanno subito la devastazione degli infissi e delle strutture interne dei locali
ubicati al piano terreno, in particolare, in quelli siti in corrispondenza del
punto di scoppio. I soccorsi, che non tardano ad arrivare, si muovono come
ombre tra i fumi e l’odore di carne bruciata. Cercando di non urtare le
carcasse delle 37 auto ancora in fiamme, guardano verso l’alto soffermandosi
sulle facciate crivellate come dopo un bombardamento aereo, e in basso, dove scorgendo
un braccio, poi una gamba, in uno scenario spettrale che peggiora metro dopo
metro. Dopo alcuni metri tra le macchine ecco il buco, una fossa davanti al
cancello del civico 21 dove era parcheggiata la 126 volata via e che ora si
trova per metà con le ruote aggrappate al muretto del giardino di limoni. Il
cratere, a cavallo tra il manto stradale e il marciapiede e con gli strati
superficiali del terreno che non presentano una disgregazione significava, è il
risultato di un’onda d'urto sprigionata da un’esplosione non a contatto col
suolo, che esplodendo ad un’altezza del piano stradale di 40 centimetri ha
attraversato strati d'aria e involucri resistenti non operando immediatamente
con tutta la sua forza dirompente sul terreno. Presenta una forma di calotta
sferica, leggermente ellittica, con diametri di 230 centimetri in direzione
dell’asse stradale, 215 centimetri perpendicolarmente a questo, una profondità
di 34 centimetri e un volume equivalente a 70 centimetri cubi. Osservano il
cratere, si guardano intorno, non hanno dubbi, un’auto è saltata in aria
portandosi via le vite di sei persone. L’intransigente difesa della Legge, lo
straordinario coraggio, l’eccezionale capacità investigativa in cui in questo
momento storico si stanno concentrando le speranze di un Paese duramente
colpito dall’aggressione mafiosa, sono appena stati annientati da quello che ha
assunto caratteri di un attacco terroristico finalizzato a piegare alla volontà
dell’organizzazione mafiosa un Paese che, invece, in uno dei momenti più
drammatici della sua storia, sta riuscendo a ricostruire una propria forte
identità attorno alle idee e all’esempio personale e professionale di questi
Magistrati che hanno scelto di compiere il proprio dovere fino in fondo,
pienamente coscienti dei gravissimi rischi che ciò avrebbe comportato per la
propria vita. E questo attacco terroristico, a poco a poco, mentre il quartiere
esce dalla coltre di fumo, si svela ai soccorritori in tutta la sua chiarezza.
Mentre ancora qualcuno fugge via in una corsa affannosa tra polvere e vetri,
qualcun’altro urla ancora a terra vicino alle auto, c’è gente che si sta
dirigendo verso di loro, verso la nuvola nera, forse per dare una mano o forse
solo per curiosità, una curiosità che si trasforma subito in turbamento con
centinaia di persone che si trovano faccia a faccia con la morte. Tra loro c’è
anche Manfredi, il figlio più grande del Giudice, arrivato di corsa
accompagnato da un amico dopo aver sentito la notizia al telegiornale. Mentre
vaga per le auto con gli occhi pieni di rabbia, da qualche altra parte qualcuno
sta festeggiando, ancora, per un’operazione ben riuscita che lascerà il Paese
in uno stato di totale sgomento, ancora una volta.
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