01 luglio, 2022

Palermo, Via Mariano D'Amelio, 19 luglio 1992


TIPOLOGIA: attentato
CAUSE: autobomba
DATA:
19 luglio 1992
STATO: Italia
LUOGO: Palermo, via Mariano D’Amelio
MORTI:
6
FERITI:
24

Analisi e ricostruzione a cura di Luigi Sistu

È il 1992, il 19 luglio e sono le ore 16:30. In questo pomeriggio soleggiato della città di Palermo una Fiat 126 si trova lì, a due metri dal cancello di ingresso del vialetto che conduce ai civici 19 e 21 di un complesso residenziale di via Mariano D’Amelio, a pochi passi dalla Fiera. La macchina, uscita da un’autorimessa questa mattina alle ore 05:30 per sostituire un’altra parcheggiata strategicamente ad occupare il parcheggio, posizionata a spina di pesce col cofano anteriore vicino al marciapiede tra una Seat Ibiza di colore nero e una Fiat Panda celeste alla sua sinistra dista qualche decina di metri da chi, famelico e con gli occhi puntati sul cancelletto, è perfettamente al corrente della saltuaria consuetudine che consente al Procuratore Aggiunto della Repubblica di Palermo, il Giudice Paolo Borsellino, di rivedere quasi ogni domenica nell'appartamento della sorella Rita, farmacista, la madre, Maria Pia Lepanto, una signora anziana sempre in tensione che si trasferisce lì i fine settimana. E proprio questa domenica, come concordato in numerose conversazioni telefoniche, a causa delle precarie condizioni di salute dell'anziana donna che il Giudice si è incaricato di accompagnarla ad una visita cardiologica nell'ambulatorio medico di un suo amico, il dottor Pietro Di Pasquale. Il boia e i suoi complici feroci sanno dove colpire quest'uomo, oramai sempre protetto da una conchiglia di agenti e pronto a correre con passetti veloci ogni volta che si trova allo scoperto al fine di guadagnare in una manciata di secondi il guscio della sua Croma blindata. A Palermo dal 1975 nell’Ufficio Istruzione Affari Penali sotto la guida del Giudice Istruttore Rocco Chinnici, ucciso sotto casa assieme a parte della scorta con un’autobomba il 29 luglio 1983, ha lavorato assieme ai Giudici Giovanni Falcone, Giuseppe Di Lello, Leonardo Guarnotta, Ignazio De Francisci, Gioacchino Natoli e Giacomo Conte, costituenti un pool antimafia sviluppato e reso operativo dal Sostituto Procuratore Generale di Firenze Antonino Caponnetto che confermava la linea inaugurata da Chinnici di centralizzare le indagini sul fenomeno mafioso al fine di favorire la circolazione e la condivisione delle informazioni emerse e, quindi, di avere un quadro globale sul fenomeno e le sue dinamiche criminali. Questo stabile gruppo di giudici istruttori destinati esclusivamente a occuparsi di processi di mafia, concentrandosi sui membri dell’organizzazione di Cosa Nostra, dai meno potenti ai più influenti, ha creato e sta continuando a crearle non pochi problemi tanto da mobilitare le “Commissioni” e farle riunire per decidere se e come affrontare il problema, di nuovo. "Borsellino sta facendo più danno di Falcone. Questo cornuto deve saltare in aria come quel crasto che stava per rimanere vivo a Capaci". Con queste parole aveva sentenziato Salvatore Riina, il 72enne capo del mandamento di Corleone e supercapo dell’organizzazione criminale siciliana Cosa Nostra agli altri capimafia nel corso di una riunione di giugno a Palermo, nella villa del capo mandamento della cosca palermitana di Santa Maria del Gesù Giuseppe Calascibetta. Ciò era avvenuto con la benedizione di Mattero Messina Denaro, il capo del mandamento di Castelvetrano e rappresentante indiscusso della mafia della provincia di Trapani, e l’approvazione all’unanimità di Giovanni Brusca, reggente del mandamento di San Giuseppe Jato, con alle spalle la bomba di via Federico Giuseppe Pipitone a Palermo dove aveva fatto saltare in aria il Giudice Rocco Chinnici e la sua scorta, e quella al Giudice Giovanni Falcone e alla sua scorta del 23 maggio, Francesco Madonia, detto Ciccio, capo del mandamento di Resuttana, zona di influenza inglobante la via D’Amelio, Raffaele Ganci, capo del mandamento di Della Noce, Salvatore Biondino, capo del mandamento di San Lorenzo, Gioacchino La Barbera, capo del mandamento di Passo di Rigano-Boccadifalco, Giuseppe Graviano, del mandamento di Brancaccio-San Lorenzo, e Salvatore Cancemi e Giuseppe Calò, rispettivamente Reggente e capo mandamento di Porta Nuova, cassiere dell’associazione e organizzatore dell’attentato al treno Rapido 904 del 23 dicembre 1984 dove 17 passeggeri erano morti per deviare l’attenzione dell’opinione pubblica dalle rivelazioni date da Tommaso Buscetta, uno dei primi mafiosi a cominciare a collaborare con la giustizia durante le inchieste coordinate da Falcone che avevano permesso, per la prima volta, una dettagliata ricostruzione giudiziaria dell'organizzazione e della struttura della criminalità siciliana dando inizio all’epoca del “pentitismo” e al declino del potere mafioso. Associazione criminale di tipo mafioso Cosa Nostra è nata in Sicilia nel 19° secolo e si è sviluppata esponenzialmente dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Strutturata gerarchicamente, nota in tutto il mondo per gli attentati, gli omicidi esemplari e la violenza diretta contro lo Stato italiano con l’eliminazione di uomini politici, poliziotti e magistrati, mantiene il controllo su numerose attività economiche e politiche regionali ed extraregionali per mezzo di reti di fiancheggiatori e dell’inserimento di propri capitali nel settore dei pubblici appalti, della sanità e del turismo, penetrando perfino nei settori della grande distribuzione alimentare, dei mercati ortofrutticoli, nelle attività edili e in quelle di tipo economico-finanziario. L’Organizzazione è divisa in “Famiglie”, ciascuna con un capo, il “rappresentante”, eletto da tutti gli “uomini d’onore” e assistito da un vice-capo e uno o più consiglieri. Tre Famiglie, ognuna organizzata in "'decine" composte da dieci uomini d'onore, i "soldati", coordinati da un "capodecina", costituiscono un "mandamento", la zona di influenza, gestito dal “capo mandamento” anch'esso eletto e che fa parte della "Commissione Provinciale", il massimo organismo dirigente di Cosa Nostra nella provincia, organismo che prende le decisioni più importanti, risolve i contrasti tra le famiglie, espelle gli uomini inaffidabili, controlla tutti gli omicidi, inferiore in quanto a potere soltanto a quella "Regionale". Corruzione e riciclaggio sono il volano che ha permesso a Cosa Nostra di radicarsi, anno dopo anno, sempre di più nel territorio accrescendo il proprio potere in maniera spropositata. Nell’epoca di questo “pentitismo” battezzato da Buscetta, la sentenza di Cassazione che confermava gli ergastoli nel Maxiprocesso per crimini di mafia del 30 gennaio con 360 condanne per complessivi 2.665 anni di carcere e undici miliardi e mezzo di lire di multe da pagare, segnando un grande successo per il lavoro svolto da tutto il pool antimafia, aveva messo in moto una macchina, ormai impossibile da fermare. Progettata dai vertici della Commissione Regionale che aveva riunito i leader delle province di Palermo, Trapani, Agrigento, Caltanissetta ed Enna, incontratisi tra settembre e dicembre dell’anno scorso per diverse settimane in un casolare della provincia di Enna, presieduti da Riina, avevano discusso una strategia di destabilizzazione politica che si sarebbe snodata con l’omicidio di uomini politici e con attentati dinamitardi, un complesso piano di destabilizzazione politica da attuarsi con eventi cruenti avrebbero dovuto dare una spallata al vecchio sistema politico che non offriva più protezione. Questa era effettivamente iniziata dopo il definitivo unanime benestare dei membri della Commissione Regionale e Provinciale in due riunioni distinte svolte nella villetta palermitana di via Margi Faraci di Girolamo Guddo, uomo di spicco delle famiglie palermitane, mafioso di Altarello di Baida e cugino del boss Salvatore Cancemi. Con la prima che aveva visto partecipare i nomi di spicco dell’organizzazione, Salvatore Riina, Matteo Motisi, Giuseppe Farinella, Giuseppe Graviano, Carlo Greco, Pietro Aglieri, Michelangelo La Barbera, Salvatore Cancemi, Giovanni Brusca, Raffaele Ganci, Antonino Giuffrè, Giuseppe Montalto e Salvatore Madonia, e con la seconda che aveva riunito Riina, Biondino Ganci, Brusca, La Barbera e Cancemi, la mattanza era iniziata la mattina del 12 marzo a Palermo con l’omicidio dell’onorevole Salvo Lima, il più potente politico siciliano leader della Democrazia Cristiana nell’isola, ucciso perché non era riuscito a impedire le tante condanne inflitte ai mafiosi al termine del più grande processo penale mai svolto in Italia. Nella villa palermitana di Calascibetta, nel salone dove a giugno si era svolto il "summit" per la sentenza di morte, Riina, manifestando a Biondino, Cancemi e Ganci la propria “premura” di eseguirla evidenziando in particolare a Ganci che la responsabilità sarebbe stata sua ed affidando a Biondino l’incarico di “organizzare tutto e fare in fretta”, aveva rimarcato più volte che l’uccisione di Borsellino avrebbe messo in ginocchio lo Stato. Avrebbe inoltre mostrato a tutti la reale potenza delle Famiglie, e proprio per agevolare la creazione di nuovi contatti politici occorreva eliminare chi come lui avrebbe scoraggiato qualsiasi tentativo di approccio con Cosa Nostra e di arretramento nell’attività di contrasto alla Mafia, levandosi a denunciare anche pubblicamente, dall’alto del suo prestigio professionale e della nobiltà del suo impegno civico, ogni cedimento dello Stato o delle sue componenti politiche. Questo, soprattutto in risposta alla prevedibile reazione dello Stato che, reagendo all’eccidio in cui avevano perso la vita dei suoi nobili servitori, aveva portato all’emanazione l’8 giugno di un decreto legge contenente nuove misure antimafia che introduceva tra l’altro maggiori possibilità di sottoporre a sequestro e confisca i beni dei mafiosi ed ampliava le ipotesi di fermo di polizia, approvazione che in Parlamento sta incontrando seri ostacoli da parte di un folto schieramento trasversale a tutte le forze politiche, che ne critica le conseguenze eccessivamente pregiudizievoli per i diritti di difesa degli indagati per reati di mafia. Il progetto di uccidere Borsellino, più complesso di quello realizzato per Falcone, sarebbe stato anche più sofisticato, sia sotto il punto di vista dell’organizzazione che della realizzazione. Esprimendosi la necessità di procurare una macchina di piccola cilindrata per sbrigare l’urgente faccenda, Giuseppe Graviano aveva affidato a due affiliati della famiglia di Brancaccio guidata da lui e dal fratello Filippo, tramite Cristofaro Cannella, detto Fifetto, uomo d’onore del trapanese, il compito di cercare una Fiat 126 o qualcosa di simile, di piccole dimensioni e che non attirasse l’attenzione. Gaspare Spatuzza e Vittorio Tutino l’avevano trovata la notte tra l’8 e il 9 luglio poco prima della mezzanotte in via Bartolomeo Sirillo, nel quartiere Oreto di Palermo. Color sangue di bue, targata PA 790936 e di proprietà di Maria D’Aguanno, era in uso alla figlia, Pietrina Valenti, che l’aveva ereditata dalla defunta madre. Spatuzza, seduto al posto di guida, dopo che Tutino era riuscito a forzare il bloccasterzo rompendolo ed essersi seduto sul sedile del passeggero, si era accorto che non metteva in moto, tanto da dover scendere e portare il mezzo a spinta dalla traversa che collega via Oreto Nuova e via Fichi d’India, zona di edilizia economico-popolare e di cooperative dov’era parcheggiata, percorrendo via San Ciro, via San Gaetano fino ad un magazzino di Fondo Schifano, nella via Ciprì al civico 19 utilizzato solitamente come deposito veicoli per i reati legati alla Famiglia. Dopo essere stata lì provvisoriamente, la 126 era stata portata in un altro garage, stavolta di Corso Dei Mille, nella zona di Roccella, in affitto a Spatuzza e di proprietà del cugino Gioacchino Alfano per delle riparazioni urgenti delle quali se ne erano occupati Maurizio Costa a Agostino Trombetta, titolari di un’autofficina. Cosa Nostra conosceva già questo tipo di vettura, ne aveva usata una il 29 luglio 1983. Color verde bottiglia e del 1977, era stata utilizzata per l’attentato al Giudice Rocco Chinnici, Direttore dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, ucciso facendola saltare in aria mentre stava per salire a bordo dell’Alfetta 2000 blindata che attendeva il Magistrato con lo sportello aperto davanti allo stabile in cui viveva per accompagnarlo al Palazzo di Giustizia. Dopo aver bruciato dei santini, dei fogli e un ombrello trovati nell’abitacolo e che potevano ricondurre l’auto alla proprietaria, riparati la frizione, l’impianto frenante e il bloccasterzo per avere l’auto in piena efficienza meccanica in modo da scongiurare intoppi di qualsiasi genere, erano state sostituite le targhe con altre due marchiate PA 878659. Le nuove targhe, rubate da Spatuzza e Tutino sabato 18 dall’autocarrozzeria in via Messina Marine num. 94 di proprietà di Giuseppe Orofino, titolare assieme ai cognati Paolo e Gaspare Agliuzza, appartenevano sempre ad una 126 ma di colore bianco e di proprietà di una certa Anna Maria Sferrazza, residente a Palermo, che l’aveva portata lì tramite la Fiat per dei lavori di riparazione. Il furto, compiuto a locale chiuso introducendosi nel locale scavalcando un grosso portone metallico provvisto di inferriata alla quale mancavano delle sbarre, era stato pensato per essere eseguito nelle ore serali in modo che se fosse partita una eventuale denuncia, cosa che poi succederà poiché Orofino, accorgendosi del furto solo domani si recherà dai Carabinieri per denunciare la scomparsa delle targhe, del libretto di circolazione e del tagliando assicurativo, sarebbe stato comunque troppo tardi. Giuseppe Graviano, dopo aver preso in consegna le nuove targhe nel maneggio dell’amico Giuseppe Vitale nella contrada Regia Corte, aveva dato ordine che venissero portate in un garage di via Pietro Villasevaglios, autorimessa in cui il giorno prima era arrivata la 126 color sangue di bue dopo che alle tre del pomeriggio era scivolata per le vie di Palermo con alla guida Spatuzza e Cannella seduto accanto e scortata da una seconda auto con alla guida Antonino Mangano, capo della Famiglia di Roccella, una delle quattro famiglie componenti il mandamento di Brancaccio. Corso dei Mille, poi via Roccella, via Ventisette Maggio, un posto di blocco della Guardia di Finanza evitato in piazza dell’Ucciardone all’altezza del vecchio carcere aggirandolo per il Borgo Vecchio, poi dritti su via Don Orione fino a sparire dentro il garage al civico 17 dove ad attenderli, superato lo scivolo di cemento, il cancello di ferro e la saracinesca, avevano trovato Lorenzo Tinnirello e Francesco Tagliavia. Entrambi del mandamento di Brancaccio ed entrambi a capo della Famiglia di Corso dei Mille, avvisati da Biondino di tenersi liberi che “ci sarebbe stato da fare”, li avevano attesi assieme a 90 chilogrammi di esplosivo ad altissimo potenziale. Tagliavia, dedito solitamente alle estorsioni e al traffico di stupefacenti per cui ha continui contatti con soggetti di spicco delle Famiglie dell’isola, ed esperto nella manipolazione degli esplosivi era lui che la Commissione aveva scelto per l’allestimento dell’autobomba con l’esplosivo recuperato di tre tipologie: il Semtex-H in pani, il Brixia B5 in cartucce e il Trinitrotoluene in involucri artigianali. Cosa Nostra aveva deciso per Borsellino un evento plateale ma chirurgico, con un consumo specifico relativamente basso data la geolocalizzazione del Punto Zero. Il primo esplosivo, il Semtex-H, di tipo plastico, di colore tra l’arancio e il giallo e confezionato in pani color mattone del peso di 2,5 chilogrammi è una delle varianti dell’esplosivo Semtex. Il suo nome sta per SEMTìn, un sobborgo di Pardubice nella attuale Repubblica Ceca, dove il composto era stato prodotto per la prima volta in grandi quantità dalla East Bohemian Chemical Works Synthesia nel 1964, ed EXplosive. Progetto del chimico cecoslovacco Stanislav Brebera era stato sintetizzato negli anni ’50. Questa variante H, prodotta su larga scala dal 1967, destinata all’esportazione, soprattutto per la bonifica di mine terrestri in Vietnam, era stata studiata per impieghi civili e per l’attività estrattiva. Il Semtex-H, molto simile al plastico militare C-4 ma con un diverso colore, è impermeabile e utilizzabile in un campo di temperature più vasto. Esportato in tutto il mondo in grandi quantità fino al 1981 e in quantità ridotte solo nei paesi membri del Patto di Varsavia fino al 1989 con la sospensione delle esportazioni legali, attualmente le grosse organizzazioni terroristiche e criminali ne controllano il traffico e la detenzione. Questo tipo di esplosivo è il prodotto dell’unione di due elementi esplosivi primari: 40.9% in peso di Pentrite, uno degli esplosivi più sensibili potenti, un “super-esplosivo” preparato per la prima volta nel 1891 dal chimico tedesco Bernhard Tollens; 41,2% in peso di RDX, formalmente Ciclotrimetilenetrinitramina, di caratteristiche eccezionali scoperto e brevettato dal chimico e farmacista tedesco Georg Friedrich Henning nel 1898 e codificato con questo nome prima dall’esercito inglese come Royal Demolition eXplosive e poi prodotto in larga scala dagli Stati Uniti nel 1920 come “RD” Research and Development, ricerca e sviluppo, sigla comune a tutti i nuovi prodotti per la ricerca militare, e "X", la classificazione, nata come lettera provvisoria ma rimasta definitiva; il legante gomma Stirene-Butadiene per il 9% in peso, il plastificante n-ottilftalato al 7,9% in peso, lo 0,5% di antiossidante N-fenil-2-naftilammina e lo 0,5% di colorante ne assicurano il riconoscimento e la malleabilità. Il secondo esplosivo invece, il Brixia B5, di non facile reperibilità, non è la prima volta che viene utilizzato dall’organizzazione. È un esplosivo gelatinato per uso civile confezionato in candelotti avvolti in carta cerata con stampigliato il suo nome e delle dimensioni di 250 millimetri di lunghezza per un diametro di 25 contenente un peso di 135 grammi netti di sostanza esplodente. Prodotto tutto italiano, il nome viene dal luogo di provenienza, Brescia, in latino, dov’è stato fabbricato fino al 1985 con avvolgimento color avana nello stabilimento di Ghedi della SEI, la Società Esplosivi Industriali S.p.A., prima che la produzione venisse spostata presso lo stabilimento di Domusnovas, nella provincia di Cagliari, in Sardegna, dove ora viene avvolto in carta cerata color magenta. Questa Gelatina è composta da un 1.5% di Nitroglicole, potentissimo esplosivo sensibile agli shock meccanici prodotto dal chimico belga Louis Henry nel 1870, simile alla Nitroglicerina ma molto più stabile nel tempo e quindi meglio conservabile tanto da venire utilizzato nelle dinamiti perché abbassa il punto di fusione della Nitroglicerina che a temperature prossime agli 0 gradi centigradi inizia a dilatarsi e ad uscire dai candelotti con conseguenze facilmente immaginabili; da un 5% dalla Nitroglicerina sintetizzata dal chimico e medico italiano Ascanio Sobrero nel 1847 dalla Nitrocellulosa, il prodotto scoperto dal chimico tedesco Christian Friedrich Schönbein nel 1846, 2% di Dinitrotoluene; 8% di Trinitrotoluene ed infine la parte più consistente costituita da Nitrato d’Ammonio per una percentuale dell’81%. Questo, fertilizzante scoperto come prodotto esplodente dal chimico e ingegnere svedese Alfred Nobel nel 1870, era stato già intuito come potenziale elemento da Johann Rudolph Glauber, chimico e farmacista tedesco considerato uno dei fondatori della chimica industriale moderna e precursore dell’ingegneria chimica, preparandolo e descrivendolo nel 1659 come “nitrum flammans” per via del colore giallo della sua fiamma. Questo tipo di Gelatina, il Brixia B5, non è altro che una Dinamite, del tipo a base esplosiva, un’evoluzione della Dinamite a base attiva composta da 75% di Nitroglicerina e 25% di segatura e nitrato di sodio, a sua volta evoluzione della prima assoluta brevettata dal chimico e ingegnere svedese Alfred Nobel nel 1867, a base inerte, dove la Nitroglicerina, costituente il 75% della cartuccia, era miscelata con un 25% di farina di roccia silicea sedimentaria di origine organica. Il Brixia è nei magazzini dell’organizzazione da tempo, già nel giugno del 1989 Salvatore Biondino, che reggeva di fatto il mandamento di San Lorenzo in assenza del capo Giuseppe Giacomo Gambino, all’epoca detenuto e sotto le direttive di Salvatore Riina, già capo indiscusso della Commissione Provinciale, aveva chiesto a Giovan Battista Ferrante, uomo d’onore della Famiglia di San Lorenzo, di aiutarlo per reperire un certo quantitativo di esplosivo che doveva essere fornito ad Antonino Madonia, figlio di Francesco Madonia. Per questo, insieme al Biondino, lo stesso si era recato presso il deposito clandestino sito in contrada Malatacca, vicino all’ospedale “Cervello” nel territorio del mandamento, al quale potevano accedere solo loro due e pochi altri. Il Brixia, conservato in un bidoncino di plastica a bocca larga, uno dei tanti utilizzati per lo stoccaggio dell’esplosivo nei numerosi depositi clandestini dell’organizzazione, nel 1985, prima di essere utilizzato la prima volta nell’attentato al Giudice Carlo Palermo il 2 aprile, su incarico di Giuseppe Giacomo Gambino, Ferrante, in compagnia di Salvatore Biondino e dei cugini omonimi Salvatore Biondo, classe 1955 e 1956 chiamati confidenzialmente l’uno “il corto”, l’altro “il lungo” a sottolineare la differenza di statura, si era recato ad un appuntamento a Trapani, nella zona ove finisce l’autostrada per Trapani ed inizia la statale per Erice, per incontrarsi con Bruno Calcedonio, uomo d’onore della famiglia di Mazzara del Vallo, il quale aveva accompagnato il Biondino con la sua Renault 4 in un luogo non lontano per consegnarglielo contenuto in diversi sacchi di plastica e per un quantitativo di circa 200 chilogrammi. Dopo tale consegna, esauritasi in circa quindici minuti dal momento in cui il Biondino si era allontanato con il Calcedonio al momento in cui i palermitani erano ripartiti in direzione di Palermo, il gruppo aveva eseguito il trasporto della merce ricevuta caricandola sull’auto di Biondino ed utilizzando una delle auto come battistrada fino alle Case Ferreri, un complesso di edifici risalenti al Settecento ora adibiti a polveriera, armeria, poligono e deposito libri contabili delle estorsioni della famiglia di San Lorenzo, di cui Ferrante ha il possesso, dove era stato inizialmente custodito non essendo all’epoca disponibile ancora il deposito clandestino di contrada Malatacca in cui successivamente vi era stato trasferito. Ala riservetta di Brixia si era attinto più volte, alcune a scopo intimidatorio, i tre candelotti utilizzati da Ferrante tra il 1989 ed il 1990 per compiere, insieme a Biondino ed ai fratelli Biondo un raid ai danni della ditta CO.GE.MI., di cui il titolare, il dott. Nisticò, non era puntuale nel versare il pizzo, altre invece per uccidere, come l’attentato fallito del 21 giugno del 1989 nei pressi della villa al mare che il Giudice Giovanni Falcone aveva affittato per l'estate nella località palermitana dell'Addaura, dove Salvatore Biondino, Antonio Madonia, Vincenzo e Angelo Galatolo lo avevano atteso con l’intenzione di farlo saltare in aria con 58 candelotti fallendo però a causa della mancata realizzazione del programmato bagno a mare e grazie alla ricognizione degli agenti di scorta che aveva messo in allerta i sicari, o come quello, stavolta riuscito per metà, al Giudice Carlo Palermo dove Baldassarre di Maggio e Antonio Madonia, reggenti dei mandamenti palermitani di San Giuseppe Jato e Resuttana, con l’ultimo, killer spietato con alle spalle l’agguato al Segretario regionale del PCI e parlamentare Pio La Torre e del suo collaboratore, l’agguato al Prefetto di Palermo, il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa e l’attentato dinamitardo al Capo dell’Ufficio Istruzioni della Procura di Palermo, il Giudice Rocco Chinnici, avevano attivato un’autobomba con 200 cartucce di Brixia disintegrando non l’auto del Magistrato ma una seconda che per uno scherzo del destino si era posta tra le due dilaniando una madre coi suoi due bambini. Il terzo esplosivo che costituisce la carica destinata al Giudice Borsellino, il Trinitrotoluene, esplosivo preparato la prima volta nel 1863 dal chimico tedesco Julius Wilbrand, perfezionato dal chimico tedesco Hermann Frantz Moritz Kopp nel 1888 e prodotto industrialmente in Germania un anno dopo col nome di Tritolo o Tnt, arriva invece dai depositi della Famiglia di Brancaccio e anche questo non è la prima volta che viene utilizzato. Giuseppe Graviano, il capo della Famiglia, aveva scomodato Cosimo d’Amato, pescatore di Porticello e cugino proprio del boss palermitano Cosimo Lo Nigro, che per il recupero dell’esplosivo era solito attingere da una vecchia nave colata a picco durante la Seconda Guerra Mondiale e adagiata sul fondale col suo carico intatto nella stiva. Oggetto dei desideri proibiti per numerosissimi appassionati di immersioni e per coloro i quali operano nel settore del turismo subacqueo, questa nave non è solo un’oasi di vita colorata e ricca, spunto per riprese video mozzafiato facilmente raggiungibile dalla costa, ma è anche una gigantesca “Santa Barbara” a disposizione dei clan. Varata il 3 gennaio del 1923 per la Cosulich Società Triestina di Navigazione insieme ai gemelli Ida, Alberta, Clara, Teresa e Lucia, la Laura C. era impiegata assieme a loro sulle linee dell’America Settentrionale. La nave, un piroscafo da carico di 122 metri di lunghezza, 17 di larghezza e 20 mila tonnellate di stazza, era stata confiscata per le sue peculiarità il 29 ottobre 1940 a Trieste dalla Regia Marina per i propri scopi legati al conflitto bellico in corso. Partita da Venezia il 28 giugno 1941 con destinazione Tripoli stivava rifornimenti per le forze dell’Asse operanti in Nordafrica costituenti, oltre un carico di 5.773 tonnellate di materiali tra cui medicinali, scorte alimentari, biciclette, vestiario, macchine da cucire, cavi per linee telefoniche e parti di ricambio per automezzi, anche armi, munizioni e 1.200 tonnellate di Tritolo sistemate nella terza stiva poppiera e costituito da casse contenenti panetti del peso di 200 grammi l’uno. Mentre navigava in convoglio con altri due piroscafi e scortata da un incrociatore e una torpediniera era stata avvistata da un sommergibile britannico Upholder che presso Capo dell’Armi, in Calabria, le aveva lanciato contro tre siluri che avevano fermato i motori, bloccato il timone e allagato le stive. L’equipaggio, deciso a fare incagliare la nave in costa trascinata da due rimorchiatori alla foce della fiumara di Molaro, sulla spiaggia di Saline Ioniche, per salvare la nave o almeno il suo carico, non aveva fatto caso alla configurazione del fondale, molto scosceso, che aveva fatto sì che la Laura C., nel giro di poco più di sette ore scivolasse all’indietro affondando senza spezzarsi alla profondità di 50 metri e a 100 metri dalla spiaggia. Negli anni, mentre parte delle vettovaglie che facevano parte del carico, finite a riva, erano diventate una insperata risorsa per la popolazione locale affamata dai razionamenti imposti dalla guerra, l’esplosivo è stato abbondantemente prelevato dai sub della ‘Ndrangheta calabrese, della Cosa Nostra siciliana, della Camorra campana e della Sacra Corona Unita pugliese con l’obiettivo di confezionare bombe per la loro personale strategia della tensione. La carica di Semtex, esplosivo plastico ad alto potenziale tanto caro all’IRA irlandese e ai terroristi islamici e libici, quella di Brixia B5 tanto richiesta in Italia per utilizzo estrattivo e quella di Tnt, che grazie alla sua facilità al maneggio, la sua assoluta stabilità, la sua buona potenza, ne fanno il migliore degli esplosivi da scoppio conosciuti per usi bellici, erano state stipate con cura nel vano portabagagli anteriore svuotandolo di tutto, perfino della ruota di scorta. L'innesco invece era studiato con un circuito composto da due detonatori elettrici collegati in serie affogati in due cartucce di Gelatina, ciascuno contenente una piccola quantità di esplosivo secondario, Pentrite, innescato a sua volta da uno primario, il sensibilissimo Azoturo di Piombo preparato dalla Curtis's and Harvey Ltd Explosives Factory nel 1890, attivato da un ponticello metallico annegato in una miscela incendiaria reso incandescente dal passaggio della corrente elettrica. I detonatori, tubicini in alluminio versioni moderne di quelli inventati nel 1876 da Julius Smith, provengono da una cava di sabbia, la INCO di Roccamena-Camporeale, nel territorio di Roccamena, nel Belice, da cui la sua famiglia mafiosa si era in passato rifornita per approvvigionarsi per altri attentati, di proprietà di Giuseppe Modesto, un imprenditore molto vicino a Giovanni Brusca. Questo aveva approfittato della sua “amicizia” nonché della parentela con Franco Piedescalzi, l’addetto al maneggio degli esplosivi della cava, qualche mese fa tramite Giuseppe Agrigento, anche lui persona molto vicina a Brusca nonché capofamiglia di San Cipirello, incaricato di recuperarne quanti più possibili assieme ad un ingente quantitativo di esplosivo in previsione di una serie di attentati iniziati con quello al giudice Giovanni Falcone. Questi sarebbero stati innescati a distanza alla vista del Giudice da una batteria e un sistema ricevitore della Telcoma System di San Biagio di Callalta, in provincia di Treviso, commercializzato da venditori specializzati dal 1989. Abbinato all’analogo apparecchio trasmettitore, data la notevole potenza del sistema questo avrebbe consentito l’instaurazione di un ponte radio anche della distanza di venti chilometri. Trattandosi di sistemi piuttosto sofisticati, ad alta affidabilità e di conseguenza molto costosi, questi apparecchi vengono normalmente impiegati per usi industriali quali comando a distanza di apparati elettrici come pompe sommerse, sistemi di allarme e gru. La particolare affidabilità del sistema è data dalla possibilità di stabilire preventivamente un codice, scelto tra 1.024 combinazioni differenti, impostandolo sia nell’apparecchio trasmittente che in quello ricevente in modo tale che quest’ultimo si attivi unicamente con l’invio del segnale codificato dall’apparecchio trasmittente, escludendo in questo modo la possibilità di interferenze. Poiché nell’impiego industriale tali caratteristiche consentono il funzionamento della trasmittente con diverse riceventi attivate con l’invio dei rispettivi codici prefissati, nelle condizioni di impiego presenti in via D’Amelio e per gli scopi dei tecnici, queste sarebbero tornate utili per escludere del tutto l’incidenza di interferenze radio eventualmente presenti nell’ambiente evitando così il rischio di un’attivazione indesiderata del sistema e dunque un innesco involontario dell’ordigno. Il ponte radio fra l’apparecchio trasmittente e quello ricevente sarebbe stato instaurato alla frequenza di 445,025 megahertz, dove all'interno di questa onda portante avrebbe viaggiato un segnale digitale codificato prodotto da una scheda chiamata Codifica, prodotta in Giappone con la sigla 88-21 stando a significare la produzione nella ventunesima settimana dell’anno 1988, che avrebbe consentito di porre in essere una combinazione logica che sarebbe stata ricevuta dal ricevitore che si sarebbe attivato appena avesse riconosciuto il codice mandato tre volte in successione per aumentare le garanzie di successo, operazione che sarebbe avvenuta nell’arco di decimi di secondo. Il sistema, che data la sua complessità aveva la necessità di essere collaudato, era stato portato sabato 11 luglio alle Case Ferreri. Luogo piuttosto isolato e di cui Ferrante ha disponibilità, in stato di completo abbandono è costituito da un edificio padronale, stalle, magazzini, una cappella, tutto contornato da un grande appezzamento di terreno. Attualmente di proprietà della “Livorno Costruzioni” di cui amministratore è Giuseppe Gambino, del mandamento di San Lorenzo, che nel marzo di quest’anno ha dato il via alla costruzione di alcune villette, il complesso di edifici e annessi era stato venduto nel 1983 alla società dal Barone Gabriele Chiaramonte Bordonaro che non se ne era più curato ma che lo aveva lasciato in custodia ad uno zio di Ferrante, Salvatore Bonura, che lo aveva utilizzato fino ai primi anni ‘80 per allevarvi del bestiame prima che il compito di guardiano passasse al padre. Al collaudo preventivo del sistema radio avevano preso parte Ferrante, Salvatore Biondino e i cugini omonimi Biondo. Era stato “il lungo” a portare il sistema da provare, aveva assemblato la ricevente seguendo delle istruzioni riportate su di un foglio di carta, utilizzando come alimentazione la batteria dell’auto de “il corto”, montando il filo con funzione di antenna e collegandola ad un detonatore elettrico tramite una linea di tiro sufficientemente lunga, 40 metri, da scongiurare il pericolo che esplodendo danneggiasse l’apparecchio poggiato sul sedile dell’auto parcheggiata davanti ad uno dei magazzini. Col dare alimentazione alla trasmittente tramite la batteria dell’auto de “il lungo” mediante una presa di corrente posta nell’accendisigari in dotazione, era stato verificato il funzionamento del “ponte radio” fra le due nelle condizioni più estreme: distanza e ostacoli. Con una distanza tra apparato trasmittente e ricevente di 250 metri snodati tra edifici e fitta vegetazione, Ferrante aveva azionato i pulsanti del primo provocando l’esplosione del detonatore chiuso in un barattolo di latta da 20 litri posto sopra di un abbeveratoio, successo confermato da Biondino e “il lungo” rimasti nei pressi della ricevente per le verifiche. Finito il collaudo, il sistema della Telcoma era stato riposto nei rispettivi sacchetti per essere consegnato da “il corto” nelle mani di Tagliavia il giorno dopo con le istruzione per il corretto assemblaggio. L’apparato della Telcoma System fa parte della dotazione della Famiglia di San Lorenzo che dispone in tutto di cinque apparati, tutti uguali, precisamente cinque coppie di apparecchi trasmittente-ricevente contenute in sacchetti legati fra loro a coppie in modo da non confonderli fra loro, di aspetto esteriore quasi identico e perché ciascuna trasmittente è in grado di funzionare unicamente con la ricevente cui è stata accoppiata in fabbrica. Gli apparecchi sono custoditi in un immobile sito in Piazza Maio acquistato con il denaro della Famiglia e intestato a Ferrante, immobile dotato di un locale sotterraneo da cui si accede da una botola nel pavimento del bagno. Gli apparecchi erano stati procurati, per ordine di Salvatore Biondino, da Biondo “il corto” tramite un loro cugino, Giuseppe Biondo, conosciuto e apprezzato all’interno di Cosa Nostra come esperto di elettronica al quale era stato commissionato l’acquisto per conto della Famiglia specificandogli l’esigenza di apparecchi particolarmente affidabili e dunque più sofisticati dei normali telecomandi per cancelli o per modellismo come quello utilizzato per far saltare l’autostrada A29 il 23 maggio. Giuseppe Biondo, capo operaio alla Forestale con l’hobby dell’elettronica, risaputo essere un radioamatore collezionista di apparecchi radio-trasmittenti, non solo è in grado di ripararli ma anche di apportarne modifiche fino a migliorarne le prestazioni. Solito rifornirsi nel negozio di elettronica Migliore di Palermo li aveva acquistati coi fondi della Famiglia di San Lorenzo per un prezzo di 800 mila lire per ogni coppia. Le trasmittenti, opportunamente modificate su richiesta di Biondino in modo da rendere possibile l'azionamento a distanza di cariche esplosive, in materiale plastico approssimativamente alte 5 centimetri, larghe 18 e profonde 13 centimetri, di colore scuro e opaco sono dotate di pulsanti non originali, installati artigianalmente sulla sinistra del frontale, sulla destra del frontale un filo lungo 40 centimetri nero e rosso funge da antenna mentre una piccola lampadina collegata con un filo al frontale ha la funzione di segnalare la chiusura del circuito elettrico. Le riceventi, di materiale, dimensioni e colore analoghi alle trasmittenti, hanno il filo dell’alimentazione in uscita dalla parte bassa pronto per essere collegato ai morsetti della batteria per auto, un secondo che funge da antenna e un terzo per il collegamento alla linea di tiro nel caso la centralina fosse distante dalla carica, o direttamente ai detonatori nel caso la centralina si trovasse a ridosso della carica. Dei quattro sistemi radio rimasti, due erano destinati a Matteo Messina Denaro, due invece alla distruzione per evitare che la Dia, la Direzione Investigativa Antimafia, ne entrasse in possesso poiché l’organismo investigativo interforze con compiti di contrasto alla criminalità organizzata di stampo mafioso in Italia sta tenendo da qualche tempo sotto osservazione Ferrante tanto da avere le sue foto nei propri archivi, foto che Carlo Greco, sostituto capo del mandamento di Santa Maria di Gesù, è riuscito ad avere e  informare Salvatore Biondo “il corto” mettendolo in allerta. I due, assieme agli altri si sarebbero dovuti occupare al più presto, oltre che dei sistemi radio, del resto del materiale compromettente custodito nella casa di Contrada Malatacca. La gran quantità di esplosivo nascosta sarebbe dovuta essere sciolta nell’acqua e riversata nella fogna, la carta oleata di confezionamento e i sistemi radio bruciati e ciò che fosse rimasto preso a martellate e gettato nella spazzatura. All’interno del garage di via Pietro Villasevaglios, Francesco Tagliavia aveva passato la notte ad assemblare la bomba all’interno della Fiat 126 configurandola a strati, col Semtex in pani nella parte inferiore, il Brixia in candelotti nastrati tra loro in quella superiore assieme al Tnt nell’involucro artigianale. L’esplosivo cecoslovacco era stato portato dal magazzino di Fondo Schifano, nella via Ciprì al civico 19, trasferito lì dalla Contrada Malatacca dove proveniente da un acquisto al mercato nero del 1986 era stato sotterrato in fusti di plastica. Confezionato in pani chiusi in sacchi di juta legati con spago in cotone era stato preso in consegna da Spatuzza che si era occupato di disimballarlo e controllarlo, stessa cosa fatta per il Brixia B5. Il Tritolo “giunto dal mare”, che fa parte dello stesso recupero destinato a comporre la gigantesca carica destinata a Giovanni Falcone, arrivava invece da un vecchio casolare di proprietà della zia di Spatuzza, proprio accanto alla proprietà della madre e solitamente usato come deposito. Una volta portato in superficie dalla Laura C. e recuperato al porto dopo essere arrivato in banchina all’interno di fusti cilindrici delle dimensioni di un metro per 50 centimetri di diametro legati con delle funi alle paratie del peschereccio di Cosimo d’Amato, era stato trasportato, nascosto sotto delle reti da pesca nel cassone dell’Ape Piaggio di Cosimo Lo Nigro da Spatuzza, in un capannone al civico 1419/D di Corso dei Mille, a Palermo, luogo sotto l’influenza della famiglia di Roccella capeggiata da Antonino Mangano, una delle quattro famiglie componenti il mandamento di Brancaccio. Lì era rimasto in stallo mezza giornata prima di essere trasferito da Cristofaro Cannella a bordo della sua Wolkswagen Golf nera scortato da Spatuzza in un altro deposito, questa volta nella zona industriale di Brancaccio e di proprietà della VaL. TRANS., ditta di trasporti dove Spatuzza è attualmente impiegato, per essere svuotati del contenuto pronto ad essere deconfezionato. Chiuso in federe di cuscini e poi in sacchi neri della spazzatura, provvisoriamente nascosti in un angolo del piazzale occultato sotto del materiale inerte scarto della lavorazione delle cave, e coperto da teloni, era stato successivamente prelevato e riportato nel rudere della zia di Spatuzza per essere lavorato e stoccato. Mentre la parte più grande era stata lavorata per l’attentato del 23 maggio, la rimanenza, fatta asciugare, deconfezionata e tenuta sfusa dentro sacchi di juta chiusi con dei lacci in cotone, era rimasta lì in attesa del successivo incarico. Il contenuto, a scaglie e di colore giallo chiaro, solidificato per l’azione di acqua e umidità e di varia pezzatura, da pochi centimetri ad alcune decine, era stato portato a Spatuzza che aveva pensato alla sua preparazione finale: la macinazione e il riconfezionamento. Svuotato su di un tavolo poco alla volta, sbriciolato artigianalmente e setacciato con uno scolapasta, operazione ripetuta più volte e che aveva richiesto due giorni, Spatuzza aveva schiacciato pietra dopo pietra con un pestello in ferro in un recipiente in alluminio, lavoro lungo e delicato che aveva ridotto il Tritolo ad una polvere sottile pronta per essere ricompattata. Con la materia prima raffinata conservata in un fusto di metallo aveva poi proceduto al riconfezionamento in un sacco grande nero della spazzatura, pressando il contenuto e avvolgendolo più volte con del nastro largo marrone per imballaggi. A completamento, era stata fissata a lato della carica la centralina ricevente della Telcoma, col primo filo dell’alimentazione serrato ai morsetti della batteria posta accanto, il secondo collegato al circuito dei detonatori annegati nei candelotti di Brixia, il terzo dell’antenna fatto passare esternamente alla vettura, nastrato alla carrozzeria lungo una delle guarnizioni nere in gomma da risultare pressoché invisibile ad un occhio distratto o troppo impegnato ad osservare più cose contemporaneamente. L’autobomba, completa e terribile, dopo che Raffaele Ganci aveva avvisato col benestare dei vertici del gruppo di fuoco Salvatore Cancemi che il Giudice il giorno dopo sarebbe dovuto morire, era finalmente pronta per essere trasportata sul Punto Zero, un evento per cui avevano lavorato incessantemente per intere settimane, ascoltando, seguendo, spiando. Il Giudice Borsellino è solito effettuare spostamenti costanti, che consistono nel recarsi al suo ufficio al Palazzo di Giustizia ogni mattina alle ore 8.00, rimanervi fino alle 14.00 per poi tornare nel pomeriggio tra le 15.30 e le 16.00 trattenendosi fino alle ore 20.00, orario in cui rientra a casa. La sera esce raramente, mentre va con una certa regolarità sia a fare visita alla madre sia la domenica a messa nella chiesa sita di fronte alla sua abitazione. Ha anche l’abitudine, o almeno l’aveva fino all’anno scorso, di trasferirsi per tutto il periodo estivo con la propria famiglia nella casa a Villagrazia di Carini, una frazione di Carini, a 27 chilometri da Palermo, poichè non reputando il posto sicuro aveva deciso di rimanere nel domicilio di tutti i giorni in via Cilea dove è presente un posto fisso di sicurezza affidato alla Polizia di Stato con una macchina e tre agenti che hanno la visuale sia sull’ingresso dello stabile di domicilio, sia sulla parte retrostante la chiesta dove si reca a messa, il cui ingresso non è ubicato sulla via Cilea ma sulla strada parallela a questa. Al servizio di protezione assicurato dai tre uomini addetti stabilmente alla sua scorta, fino a poco tempo fa era affiancata anche una seconda volante che la seguiva negli spostamenti, auto però non sempre disponibile a cui si è risolto relativamente da poco con l’assicurazione di una ulteriore scorta fissa aggiuntiva con altri tre uomini, con la sigla 11/bis, al posto della pattuglia della polizia ma i cui addetti cambiano continuamente. Inoltre, il magistrato ha anche a disposizione un autista tratto dal personale giudiziario ma in servizio unicamente nella mattina dei giorni feriali, cosicché negli spostamenti pomeridiani e in quelli dei giorni festivi Borsellino è costretto a guidare personalmente la propria auto blindata. La scorta, anch’essa su vetture blindate, negli spostamenti si posiziona in chiusura e in apertura del convoglio con la prima in funzione di “staffetta”. Come nel caso di Giovanni Falcone, che lavorando negli uffici di Roma era diventato abitudinario e tutti i fine settimana, rientrando in Sicilia nel suo domicilio a Palermo, faceva sempre lo stesso percorso, anche per Paolo Borsellino la sua abitudine coi mesi è diventata la sua debolezza, debolezza che anche stavolta qualcuno ha notato. Le attenzioni e le cure nei riguardi dell’anziana madre, la signora Maria Lepanto, alla quale è solito fare visita piuttosto spesso, si stanno per trasformare nella sua condanna. Abitando presso la figlia Adele, per stare anche con la seconda figlia, Rita, la signora Lepanto si trasferisce da lei nei fine settimana, in via Mariano D’Amelio, trattenendosi dal venerdì e a volte il sabato fino al martedì successivo. Borsellino va a farle visita tutte le domeniche mattina dopo la messa, non disdegnando di andarci talvolta anche durante la settimana, specialmente quando lei non si sente bene o necessita di qualcosa. E’ andato a trovarla sei volte nel mese di gennaio, di cui tre di domenica; quattro volte nel mese di febbraio; sei volte nel mese di marzo di cui quattro di domenica; cinque volte nel mese di aprile di cui quattro di domenica; cinque volte in maggio di cui due di domenica; tre volte nel mese di giugno coprendo tutte le domeniche; una volta a luglio. Gli uomini di Cosa Nostra, che avevano osservato con cura questi spostamenti, avevano notato che a partire dalla visita fatta nel giorno di domenica 31 maggio tutte le altre erano avvenute dalla sorella Rita in via D’Amelio, con le visite infrasettimanali in giorni sempre diversi e in orario pomeridiano, mentre quelle domenicali, ad eccezione di quella avvenuta il primo di marzo, erano state di mattina tra le ore 9.00 e le 10.00. Gli appostamenti in via D’Amelio erano cominciati dalla prima settimana di luglio, Giuseppe Graviano e Fabio Tranchina, il suo uomo di fiducia, si erano occupati dei sopralluoghi e dei pedinamenti, osservando e a volte seguendo il convoglio dal punto di partenza a quello di arrivo analizzandone i percorsi, i punti critici e il modus operandi degli uomini della scorta. Pertanto, erano state tante le valutazioni che gli uomini di Cosa Nostra avevano compiuto per la progettazione dell’azione stragista, in rapporto alle abitudini del magistrato e all’individuazione del luogo più adatto per colpirlo e nonostante gli spostamenti fossero abituali e negli stessi orari, l’attuazione dell’attentato lungo il percorso era stata ostacolata dal fatto che l’itinerario seguito per lo spostamento venisse continuamente variato: dunque, l’incertezza sul percorso che il magistrato avrebbe compiuto avrebbe comportato l’utilizzo di un numero di uomini maggiore di quello altrimenti necessario, incrementato il rischio di un fallimento dell’impresa, senza considerare che l’esecuzione nei punti di partenza e di arrivo del percorso sarebbe stata ulteriormente ostacolata dall’esistenza di “zone rimozione” e dalla presenza continuativa degli agenti di scorta, specialmente sul percorso per la chiesa il cui il tragitto è sempre uguale. Inoltre, non potendosi considerare abituale la frequentazione dell’abitazione di Villagrazia di Carini, l’esecuzione di un attentato in quel luogo o lungo il percorso che il magistrato avrebbe seguito per recarvisi non era parso assolutamente attuabile. La frequentazione di quella della sorella in via D’Amelio, invece, si era prestata allo scopo: abitudini e spostamenti facilmente osservabili anche a corta distanza, e cosa fondamentale, nessuna “zona rimozione”, nonostante fosse stata redatta più di una relazione con le quali era stata chiesta alle autorità competenti, invano, per questioni di sicurezza davanti all’abitazione di Rita Borsellino, appartamento dove Cosa Nostra si era preoccupata anche di mettere sotto controllo il telefono inviando due dei suoi uomini, Pietro Scotto e Alfonso Brusca, poichè mettessero le mani nella cassetta di derivazione posta nel pianerottolo. I due, che lavorano per la Elte, una ditta che si occupa per conto della SIP delle installazioni dell’impianto fra l’apparecchio dell’abbonato e l’armadio di derivazione, avevano creato una rudimentale intercettazione eseguita mediante la predisposizione di circuiti di “parallelamento” e di “deviazione” necessari per l’installazione di un “terminale remoto” di ascolto clandestino, manomissione eseguita sia al pianerottolo che nell’armadio di derivazione posto al piano terreno. Venerdì 17, dopo essere rientrato da Roma nel pomeriggio, Borsellino si era sentito telefonicamente con la madre che non stava bene. Avrebbe dovuto accompagnare da lei, sabato, un suo amico medico cardiologo, il dottor Pietro Di Pasquale, che l’avrebbe visitata immediatamente ma che a causa di un guasto improvviso all’auto si dovette rimandare alla domenica pomeriggio, ad oggi, con appuntamento direttamente nel suo studio. I mafiosi delle Famiglie della Noce, San Lorenzo e Porta Nuova, in movimento dalle ore 07:00 di stamattina sono in osservazione intorno a via Mariano D’Amelio e a via Cilea. E proprio uno di questi, Domenico Ganci, appena visto il Giudice uscire dalla sua abitazione con la figlia Lucia per raggiungere a Villagrazia la moglie Agnese Leto e il figlio Manfredi, aveva avvertito telefonicamente Fifetto Cannella che il bersaglio si era messo in movimento. Con un susseguirsi di telefonate tra Ganci e Ferrante gli uomini si erano spostati, posizionati e avevano atteso, un’attesa snervante durata tutto il giorno che aveva messo a dura prova i nervi di ognuno. Con stretta necessità che fosse istituita una efficace e rapida comunicazione affidata, ai mezzi più idonei e affidabili, i telefoni cellulari, i partecipanti alle operazioni erano stati divisi in due gruppi: il primo, che avrebbe curare il pattugliamento nella zona di via D’Amelio con la funzione di osservare gli spostamenti della vittima, li avrebbe segnalati al secondo, che in attesa del suo arrivo nella via pronto ad entrare in azione quando il magistrato fosse stato in procinto di raggiungerla, avrebbe avuto la funzione di attivare l’esplosione nel momento ritenuto utile a colpirlo assieme alla sua scorta. Ciò, che avrebbe comportato la necessità di avere una buona visuale della zona antistante l’ingresso dello stabile sito al civico 19, per le necessità operative conseguenti alla sua funzione il secondo gruppo era stato studiato per essere composto da due persone: l’addetto alle comunicazioni, che avrebbe risposto alle chiamate, e colui che avrebbe avuto il compito di attivare l’esplosione azionando il radiocomando. Sono le ore 16:42: il primo gruppo, Biondino in auto con Biondo “il corto”, Ganci in auto con Cancemi, Ferrante da solo e a piedi, si muovono da ore, incessantemente, a volte incrociandosi e mai fermandosi a parlare, limitandosi a scambiare sguardi d’intesa, attendendo; Il secondo gruppo, Giuseppe Graviano e Fabio Tranchina, sono dietro un muretto, nel giardino in fondo alla via, anche loro aspettano, il primo ha in mano il radiocomando, lo guarda mentre in lontananza si vedono i lampeggianti blu, è il convoglio delle blindate che sta arrivando. La scorta, che aveva preso servizio alle ore 12.45 con l’ordine di portarsi presso l’abitazione estiva di Borsellino dove il Giudice aveva pranzato con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia, era arrivata con Antonio Vullo insieme a Claudio Traina e Vincenzo Li Muli, raggiunti alle ore 16:00 dagli altri, Walter Eddie Cosina, Agostino Catalano e Emanuela Loi. Dopo la chiamata di Borsellino ai due capipattuglia, Traina e il Catalano, con la quale aveva comunicato che avrebbe dovuto recarsi in via D’Amelio e dove aveva dato loro le indicazioni occorrenti per raggiungerla, il corteo di autovetture era partito per la destinazione. Questo, costituito da tre Fiat Croma 2.0 Turbo, le ammiraglie della casa, corazzate e del peso di due tonnellate ciascuna, la prima, di “staffetta”, di colore celeste guidata dal Vullo e con a bordo Li Muli e Traina, la centrale color carta da zucchero condotta da Borsellino che si trova da solo, e la terza, di coda, di colore azzurro con Catalano, la Loi e Cosina, avevano dato comunicazione via radio alla sala operativa sulla destinazione finale subito dopo la partenza, come da protocollo. Una volta percorsa l’autostrada dallo svincolo di Carini, viaggiando a velocità piuttosto sostenuta fino alla circonvallazione dove erano uscite prendendo lo svincolo di via Belgio, imboccano via dei Nebrodi in direzione del centro cittadino entrando nella zona d’osservazione di Ferrante che da solo sta pattugliando l’area delimitata dalla via Principe di Paternò fino all’incrocio con via Sciuti e viale delle Alpi, spostandosi alcune volte a piedi e altre in auto. Avvistate le tre blindate, che non hanno le sirene accese ma solo i lampeggianti, l’uomo d’onore della Famiglia di San Lorenzo compone il numero di telefono di Cannella datogli da Biondino, prima dal cellulare, poi da un telefono pubblico posto sull’altro lato della strada non essendo sicuro che la prima chiamata fosse andata a buon fine. Il convoglio del Giudice, proseguendo fino a via delle Alpi e svoltando in viale Lazio, dopo aver percorso via Massimo D’Azeglio fino alla via Autonomia Siciliana arriva in Via D’Amelio, strapiena di auto. Nella via c’è un silenzio tombale, il rombo dei motori a giri altissimi rimbomba lungo i palazzi facendo rientrare in casa chi è affacciato sul terrazzo. Prima che Vullo e Traina abbiano il tempo di prendere qualsiasi decisione, Borsellino li sorpassa e posteggia la propria autovettura al centro della carreggiata, davanti al cancelletto posto sul marciapiede dello stabile. Vullo fa scendere dall’auto Traina e Li Muli col preciso compito di bonifica al portone dello stabile prima di spostarsi in corrispondenza della fine della via al fine di impedire l’accesso ad altre persone. Borsellino, seguito da Catalano e dalla Loi, va a premere il campanello del cancelletto e fermandosi un istante si accende una sigaretta tallonato da Catalano e dalla Loi che non gli si staccano da dosso nemmeno un secondo. Traina, già davanti al portone, raggiunto dal magistrato torna indietro incrociando Li Muli sulla strada. Vullo, fermo all’inizio della via esce dalla vettura pistola alla mano guardandosi attorno per avere la certezza che tutto sia normale. La sua visuale, un po’ coperta dal fogliame, non gli permette di vedere né il magistrato né i colleghi della scorta sul portone, vede però Cosina vicino alla propria vettura accendersi una sigaretta. Mentre al civico 19 Borsellino e i due agenti che lo seguono entrano all’interno del piccolo cortile in direzione del portone, Vullo decide di avvicinare l’auto alle altre girandola in moto da metterla in posizione per ripartire, col davanti verso la fine della strada. Sono le ore 16:55, da dietro il muretto in fondo qualcuno sorride, conscio che le settimane di appostamenti e la pianificazione accurata abbiano messo il Giudice in una posizione di inferiorità. 57 giorni dopo la strage del 23 maggio nella quale Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani sono stati fatti saltare in aria, il Magistrato che porta con sé l’eredità morale di Falcone e, con il suo eroico impegno, rappresenta un pesantissimo ostacolo alla realizzazione dei disegni criminali non soltanto dell’associazione mafiosa, ma anche di molteplici settori del mondo sociale, dell’economia e della politica compromessi con Cosa Nostra, con una sentenza che sta per essere eseguita, proprio come 57 giorni fa, su un territorio per cui non ci saranno dubbi che a colpirlo sia la stessa mano che ha portato via il collega e amico fraterno, entra nel cono visivo del commando che da dietro quel lontano muretto ha gli occhi puntati sul convoglio fermo in mezzo alla strada con gli sportelli aperti. Il radiocomando è accesso, il dito è sul pulsante. Mentre la staffetta si sta posizionando al centro della carreggiata davanti alle altre due, immobili così come arrivate, da dietro quel muro il primo pulsante viene premuto attivando l’impulso radio. Con Borsellino che dopo aver sfiorato l’auto della morte si guarda attorno alzando il braccio per tendere il dito verso il campanello, Giuseppe Graviano non esita premendo anche il secondo bottone. La lampadina si accende, l’impulso radio attraversa il parcheggio arrivando alla ricevente dentro quella macchina piccola e anonima col muso sul marciapiede. La batteria, chiuso il circuito, rilascia la scarica di corrente che percorrendo i fili per tutta la lunghezza entra nei detonatori infiammando la miscela incendiaria. In un decimo di secondo l’Azoturo di Piombo di ogni detonatore arma la Pentrite che innesca il Brixia B5 e quindi il Tnt e il Semtex-H. Sono le ore 16:58, con una velocità di 8 chilometri al secondo la gigantesca carica detona disintegrando la Fiat 126 color sangue di bue che schizza in aria in mille pezzi. Mentre i membri del commando si allontanano in auto verso il centro città, il boato sordo e della durata di un battito di ciglia squarcia l’aria. L’esplosione, velocissima, devastante, attraversa come un lampo la via, distrugge le auto blindate, investe quelle parcheggiate e impatta sui palazzi. La strada trema, la potenza distruttiva della carica combinata maciulla i corpi del Giudice e degli agenti con le parti dei corpi che volano per aria schiantandosi in fiamme sull’asfalto e sulle facciate. I palazzi vibrano, si muovono, gli intonaci vengono giù dal decimo piano, le finestre scoppiano e le saracinesche si gonfiano. Il sole si oscura, intere famiglie si riversano per strada coi piedi nudi che si aprono al passaggio su di un tappeto di vetri. L’asfalto è disseminato di ferro, pietre, sangue e vetro, e nell’aria il rumore degli allarmi incessanti delle automobili nelle vie parallele copre le urla di chi è in strada e cerca di allontanarsi da un paesaggio lunare incandescente disseminato di parti umane. Una mano carbonizzata, “saltando” i dodici piani del palazzo, è atterrata dietro un edificio di via D'Amelio; un braccio è appeso ad una finestra al primo piano e dei brandelli di carne sono spalmati su altri quattro. Il corpo dilaniato del magistrato è lì, vicino al portone dove era fermo a suonare il citofono, all'interno del giardinetto antistante. È completamente irriconoscibile, ha uno spianamento del torace con fratture costali multiple e la deformazione del profilo dell’addome con squarci profondi dovuti anche alla penetrazione di numerosi frammenti metallici di varie dimensioni. Gli mancano il braccio destro ed entrambi gli arti inferiori, è ustionato su buona parte dell’addome nonché sul viso dove profonde ferite all’arcata sopraciliare destra, il distacco del padiglione auricolare destro, l’esposizione del cranio e la frattura delle ossa nasali ne hanno cancellato la fisionomia. Accanto c’è il corpo martoriato di Emanuela Loi, la prima donna a far parte di una scorta e appena rientrata dalle vacanze nella sua Sardegna. Della donna non resta che una figura nera, carbonizzata, priva dell’avambraccio destro e degli arti inferiori all’altezza del femore, con la calotta cranica schiacciata, lo sfacelo delle parti molli, fratture costali multiple e lo squasso di tutti i visceri toracici con l’eviscerazione completa della massa intestinale. Agostino Catalano, il caposcorta, non è ridotto meglio. Il corpo semi carbonizzato, con ampie e profonde ferite dovute alla perforazione di schegge metalliche che lo segnano da parte a parte, è depezzato con la mancanza degli arti inferiori e del braccio sinistro. Il cranio, squarciato e schiacciato con la fuoriuscita di materia cerebrale, si trova vicino a Vincenzo Li Muli, anche lui carbonizzato, mancante dell’avambraccio e della mano sinistra, dell’arto inferiore sinistro e della gamba destra, lo sfacelo della regione pelvica e un ambio squarcio nel cranio con l’esposizione dei piani ossei sottostanti completamente distrutti. Claudio Traina è a qualche metro, sulla sinistra, è tra quelli ridotti peggio. Completamente carbonizzato è privo dell’arto superiore sinistro. Lo sfacelo completo di parte del cranio e dell’arto superiore destro, l’ampio squarcio dell’addome e del distretto pelvico con l’eviscerazione della matassa intestinale si sommano agli arti inferiori distrutti, così come le costole e le clavicole e gli organi interni maciullati, parti dei quali sono fuoriusciti e si trovano accanto al corpo di Walter Cusina. Il cranio di questo è frantumato, deformato, con la frattura della mandibola, delle ossa nasali e un ampio squarcio alla regione anteriore del collo, da un angolo all’altro della mandibola da cui protrude un grosso frammento metallico proveniente dalla carrozzeria di una Alfa Romeo Giulietta penetrato fino alla cavità orale. Una profonda ferita nella regione sternale continua per tutto il tronco, lo sfacelo delle parti molli, della coscia destra e la deformazione della sinistra con aumento di volume ne rendono il corpo praticamente irriconoscibile. Sorprendentemente, a pochi metri tra il fumo, il sangue e le fiamme, una figura si muove, è Antonio Vullo, ancora vivo, intontito, incredulo e dolorante. Strofinandosi gli occhi impastati di lacrime e polvere cerca di mettere a fuoco le immagini. Lo scenario che gli si apre davanti è infernale, cerca di capire cosa è successo prima di svenire. Accenna qualche passo, urta pezzi di lamiera incandescente, barcolla, calpesta qualcosa di morbido: è un piede. Gli occhi si chiudono, le forze lo abbandono e si accascia su quello che è effettivamente il Punto Zero. Per un raggio di 8 metri non c’è più niente e ai piedi di una lunga colonna di fumo nero levatasi alta nel cielo c’è solo sangue. Con un potenza inimmaginabile la carica combinata di esplosivo ha generato un muro d’aria che ha proiettato la porzione posteriore della Fiat 126 indietro di 15 metri, accartocciato ad una decina di metri la Fiat Panda e la Seat Ibiza parcheggiate accanto, ne ha schiacciato alcune e rovesciate su un fianco altre. In un’area confinata come è la via D’Amelio gli effetti dell’esplosione nei riguardi degli edifici sono stati maggiori di quanto si avrebbe avuto nel caso la carica fosse detonata contro un unico edificio, ma all’aperto. L’onda di sovrappressione e di gas di esplosione hanno subito notevoli riflessioni che hanno determinato l’impiego della maggior parte dell’energia in attività di tipo demolitivo, con una palla di fuoco che ha raggiunto una temperatura di 3.600 gradi centigradi espandendosi per un diametro di 18 metri. Il vialetto, il muro perimetrale, la ringhiera, l’ingresso, le scale, sono spariti. La violenza scatenata dalle decine di chilogrammi della carica ha spazzato via tutto. I detriti sono sparsi per un raggio di 160 metri con la maggior parte verso gli edifici ubicati sul lato destro di via D'Amelio. Sul lato destro della via erano posizionate diciotto autovetture parcheggiate a pettine contro il marciapiede, ventisei sul lato sinistro anch’esse a pettine contro il marciapiede, sei al centro assieme alle tre blindate, e infine, a ridosso del muro in fondo alla via, altre due. L’esplosione ha provocato la demolizione completa delle autovetture parcheggiate accanto alla Fiat 126, alcune delle quali, a causa della sollecitazione ricevuta, sono state proiettate a diversi metri, col carburante che incendiandosi si è sparso nell’area circostante incendiando a sua volta un notevole numero di autovetture andate completamente distrutte. Sull’edificio coi civici 19 e 21 si ha un abbattimento, per un tratto di circa nove metri, del muretto che delimita il giardino condominiale e la distruzione della relativa inferriata, la distruzione completa del cancello d’ingresso e delle strutture di sostegno e corredo, oltre la distruzione quasi totale dell’edificio adibito a portineria retrostante il cancello d’ingresso e quella parziale delle scale di accesso. Il muro dell’immobile al piano terreno, in corrispondenza del punto di scoppio è pressochè sparito assieme all’appartamento, agli atrii e, con entità decrescente dal basso verso l’alto, dei muri della facciata, con la demolizione parziale delle strutture interne degli appartamenti. Gli edifici ubicati sul lato destro di via D’Amelio invece hanno subito la devastazione degli infissi e delle strutture interne dei locali ubicati al piano terreno, in particolare, in quelli siti in corrispondenza del punto di scoppio. I soccorsi, che non tardano ad arrivare, si muovono come ombre tra i fumi e l’odore di carne bruciata. Cercando di non urtare le carcasse delle 37 auto ancora in fiamme, guardano verso l’alto soffermandosi sulle facciate crivellate come dopo un bombardamento aereo, e in basso, dove scorgendo un braccio, poi una gamba, in uno scenario spettrale che peggiora metro dopo metro. Dopo alcuni metri tra le macchine ecco il buco, una fossa davanti al cancello del civico 21 dove era parcheggiata la 126 volata via e che ora si trova per metà con le ruote aggrappate al muretto del giardino di limoni. Il cratere, a cavallo tra il manto stradale e il marciapiede e con gli strati superficiali del terreno che non presentano una disgregazione significava, è il risultato di un’onda d'urto sprigionata da un’esplosione non a contatto col suolo, che esplodendo ad un’altezza del piano stradale di 40 centimetri ha attraversato strati d'aria e involucri resistenti non operando immediatamente con tutta la sua forza dirompente sul terreno. Presenta una forma di calotta sferica, leggermente ellittica, con diametri di 230 centimetri in direzione dell’asse stradale, 215 centimetri perpendicolarmente a questo, una profondità di 34 centimetri e un volume equivalente a 70 centimetri cubi. Osservano il cratere, si guardano intorno, non hanno dubbi, un’auto è saltata in aria portandosi via le vite di sei persone. L’intransigente difesa della Legge, lo straordinario coraggio, l’eccezionale capacità investigativa in cui in questo momento storico si stanno concentrando le speranze di un Paese duramente colpito dall’aggressione mafiosa, sono appena stati annientati da quello che ha assunto caratteri di un attacco terroristico finalizzato a piegare alla volontà dell’organizzazione mafiosa un Paese che, invece, in uno dei momenti più drammatici della sua storia, sta riuscendo a ricostruire una propria forte identità attorno alle idee e all’esempio personale e professionale di questi Magistrati che hanno scelto di compiere il proprio dovere fino in fondo, pienamente coscienti dei gravissimi rischi che ciò avrebbe comportato per la propria vita. E questo attacco terroristico, a poco a poco, mentre il quartiere esce dalla coltre di fumo, si svela ai soccorritori in tutta la sua chiarezza. Mentre ancora qualcuno fugge via in una corsa affannosa tra polvere e vetri, qualcun’altro urla ancora a terra vicino alle auto, c’è gente che si sta dirigendo verso di loro, verso la nuvola nera, forse per dare una mano o forse solo per curiosità, una curiosità che si trasforma subito in turbamento con centinaia di persone che si trovano faccia a faccia con la morte. Tra loro c’è anche Manfredi, il figlio più grande del Giudice, arrivato di corsa accompagnato da un amico dopo aver sentito la notizia al telegiornale. Mentre vaga per le auto con gli occhi pieni di rabbia, da qualche altra parte qualcuno sta festeggiando, ancora, per un’operazione ben riuscita che lascerà il Paese in uno stato di totale sgomento, ancora una volta.

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