01 marzo, 2023

Volgograd, Autobus linea 29, 21 ottobre 2013


TIPOLOGIA: attentato
CAUSE: attacco suicida
DATA:
21 ottobre 2013
STATO: Russia
LUOGO: Volgograd, Autobus linea 29
MORTI:
7
FERITI:
37

Analisi e ricostruzione a cura di Luigi Sistu

È il 21 ottobre 2013, è una mattinata gelida questo lunedì e a Volgograd, la ex Stalingrado, a 650 chilometri a nord-est del Caucaso settentrionale con oltre un milione di abitanti e capoluogo dell'Oblast' omonima nella Russia europea lungo le rive del fiume Volga, gli studenti stanno facendo rientro a casa. L’autobus della linea 29 ne ha appena raccolto alcuni, lo attendevano alla fermata ormai da decine di minuti. Il freddo è pungente, i passeggeri hanno solo voglia di tornare a casa al caldo e il loro sguardo si perde oltre i finestrini appannati. Seduta sul retro del mezzo, accanto al bigliettaio, c’è una donna, indossa un velo scuro, è calma, riservata e anche lei ha lo sguardo verso l’esterno. Si chiama Naida Sirazhudinovna Asiyalova, è salita da poco, qualcuno dei 56 passeggeri l’ha notata, attirato dalla lunga sciarpa verde che indossa in forte contrasto col velo scuro avvolto attorno al capo. Conosciuta col nome di "Amaturahman" Naida Asiyalova ha 30 anni, è cresciuta nell'insediamento montuoso di Gunib, nella repubblica del Daghestan, una parte della Russia che si trova sul Mar Caspio. È una Vedova Nera, un elemento caratteristico della campagna di terrore islamico ceceno. Spesso segnate dalla tragedia di aver perso mariti, figli e parenti nella Prima Guerra Russo-Cecena del ’94-’96, queste donne disposte a diventare martiri delle loro convinzioni e dei loro cari perduti hanno raggiunto la triste fama internazionale dopo aver preso parte all’incursione nel teatro Dubrovka di Mosca nel 2002 durante il secondo atto dello spettacolo teatrale Nord-Ost in corso la sera del 23 ottobre. Quella sera 42 membri di un commando di militanti armati ceceni composto principalmente da donne aveva fatto irruzione prendendo in ostaggio 850 persone rivendicando fedeltà al movimento separatista ceceno e chiedendo il ritiro immediato delle forze russe dalla Cecenia e di conseguenza la fine della Seconda Guerra iniziata nel 1999. Destando meno sospetti e consce che il martirio al femminile ottenga maggiore risonanza mediatica ed effetto psicologico, dal 2000 decine di donne si sono fatte esplodere in Russia mietendo centinaia di vittime, per lo più civili, facendosi saltare in aria all’interno di  aeroporti, nei concerti, assaltando edifici scolastici fino a lanciarsi a tutta velocità con camion pieni di esplosivo contro le caserme della polizia. Secondo la retorica ufficiale fanno parte di una rete terroristica internazionale legata ad al-Qaida, il movimento fondamentalista islamista sunnita paramilitare terroristico nato nel 1988 durante la Guerra in Afghanistan e guidato dal milionario saudita Osāma bin Lāden, 17esimo dei 57 figli dell’immobiliarista yemenita Mohammed bin Awad bin Lāden, che avvalso della guida ideologica di Ayman al-Zawāhirī, scrittore, poeta e medico de Il Cairo appartenente ad una famiglia di dotti religiosi e di magistrati, aveva deciso di utilizzare soldi e macchinari della propria impresa di costruzioni per aiutare la resistenza dei mujaheddin durante l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Questa rete ha come obiettivo la destabilizzazione della Russia, un Paese che, proprio come gli Stati Uniti d’America, si trova in prima linea nella lotta alla jihad globale. La realtà è molto più complessa, è vero che il Caucaso sia meta di fondi e militanti dal mondo arabo, come è altresì vero che gli jihadisti stranieri abbiano influenzato i terroristi musulmani russi, ma Naida Asiyalova, come le tante altre “vedove nere” e i loro comandanti, non sono parte della rete globale di al-Qaida di cui parla tanto. Non sono mosse né dall’odio verso l’Occidente né da quello per Israele, si preoccupano poco di quello che succede in Iraq, in Pakistan, in Afghanistan o in Palestina, i loro bersagli non sono mai occidentali ma sempre e solo russi con rivendicazioni di ispirazione locale. Selezionate con cura, vulnerabili, facilmente influenzabili e, ovviamente, profondamente religiose, sono donne portate a diventare “Shahīd”, martiri, spinte ad agire, usate con cinismo e viltà dagli estremisti di sesso maschile che le indottrinano e lavano loro il cervello col potere manipolatorio della religione. Ma la fede fanatica nel martirio spiega solo in parte il fenomeno delle Vedove Nere, che trova radici e alimento in una brutalità di un conflitto cominciato in Cecenia e diffusosi nel frattempo anche alle repubbliche dell’Inguscezia e del Daghestan, dove le normali regole di ingaggio non valgono nulla. Rapimenti, torture, mutilazioni, decapitazioni ed esecuzioni sommarie, è questa violenza indicibile che trasforma le parenti femmine degli estremisti uccisi in radicali religiose. Ed è proprio questa violenza a generare una sete insaziabile di vendetta poiché i metodi brutali usati dai russi per reprimere i ribelli islamici hanno, oltre a decimare il loro esercito, radicalizzato ulteriormente gli estremisti fino a trasformare queste donne in fredde macchine vendicative senza emozioni. Naida Asiyalova si era recata nel cuore della foresta del Daghestan da giovane e solitaria naufraga. Nata da una famiglia di Dagetsani musulmani sunniti e allevata in una famiglia dignitosa che disapprovava indossare l’hijab, il velo tradizionale islamico allacciato sotto la gola utilizzato dalle donne per coprire il capo e le spalle, era stata cresciuta per lo più da sua nonna. Dopo aver lasciato presto il suo villaggio per trasferirsi a Makhchkala, la Capitale, nel 2010 aveva iniziato a convivere con un uomo di nazionalità russa, Dmitri Sokolov, di 8 anni più giovane e incontrato quello stesso anno all’Università, sposandolo e indottrinandolo con l’islam radicale in cui aveva iniziato a credere poco prima di incontrarlo. Interrompendo i contatti con la sua famiglia nel luglio 2012 non aver più fatto ritorno a casa dai corsi di lingua araba che stava frequentando in una moschea di Mosca, si era unito assieme alla moglie ai gruppi ribelli della repubblica russa meridionale del Daghestan convertendosi all’islam con il nome di Abduldzhabbar, punto di partenza per la carriera di esperto costruttore di bombe e futura guida della guerriglia caucasica. È proprio lui ad aver costruito a Naida Asiyalova la “bomberpilot Jacket” che indossa sotto gli abiti questa mattina del 21 ottobre, un giubbotto caricato con 600 grammi di esplosivo ad alto potenziale, il Semtex-H. Di tipo plastico, di colore tra l’arancio e il giallo e solitamente confezionato in pani color mattone del peso di 2,5 chilogrammi è una delle varianti dell’esplosivo Semtex. Il suo nome sta per SEMTìn, un sobborgo di Pardubice nella attuale Repubblica Ceca, dove il composto era stato prodotto per la prima volta in grandi quantità dalla East Bohemian Chemical Works Synthesia nel 1964, ed EXplosive. Progetto del chimico cecoslovacco Stanislav Brebera, era stato sintetizzato negli anni ’50. Questa variante H, prodotta su larga scala dal 1967, destinata all’esportazione, soprattutto per la bonifica di mine terrestri in Vietnam, era stata studiata per impieghi civili e per l’attività estrattiva. Il Semtex, molto simile al plastico militare C-4 ma con un diverso colore, è impermeabile e utilizzabile in un campo di temperature più vasto. Esportato in tutto il mondo in grandi quantità fino al 1981 e in quantità ridotte solo nei paesi membri del Patto di Varsavia fino al 1989 con la sospensione delle esportazioni legali, attualmente le grosse organizzazioni terroristiche e criminali ne controllano il traffico e la detenzione. Il Semtex-H è il prodotto dell’unione di due elementi esplosivi primari: 40.9% in peso di Pentrite, uno degli esplosivi più sensibili potenti, un “super-esplosivo” preparato per la prima volta nel 1891 dal chimico tedesco Bernhard Tollens; 41,2% in peso di RDX, formalmente Ciclotrimetilenetrinitramina, di caratteristiche eccezionali scoperto e brevettato dal chimico e farmacista tedesco Georg Friedrich Henning nel 1898 e codificato con questo nome prima dall’esercito inglese come Royal Demolition eXplosive e poi prodotto in larga scala dagli Stati Uniti nel 1920 come “RD” Research and Development, ricerca e sviluppo, sigla comune a tutti i nuovi prodotti per la ricerca militare, e "X", la classificazione, nata come lettera provvisoria ma rimasta definitiva; il legante gomma Stirene-Butadiene per il 9% in peso, il plastificante n-ottilftalato al 7,9% in peso, lo 0,5% di antiossidante N-fenil-2-naftilammina e lo 0,5% di colorante ne assicurano il riconoscimento e la malleabilità. Dopo averle fatto indossare il giubbotto e averglielo stretto ai fianchi, Sokolov ha armato i panetti di esplosivo con un circuito di 4 detonatori elettrici collegati in serie, ciascuno contenente una piccola quantità di esplosivo secondario, la Pentrite, innescato a sua volta da uno primario, l’Azoturo di Piombo, sensibilissimo ad urti e calore, preparato dalla Curtis's and Harvey Ltd Explosives Factory nel 1890, attivato da una sostanza infiammabile accesa da un ponticello arroventato dal passaggio della corrente elettrica. I detonatori, versioni moderne di quelli inventati nel 1876 da Julius Smith, sono attivati da un interruttore a pressione collegato a delle batterie. Il quantitativo di esplosivo ad alto potenziale contenuta nel giubbotto è stata studiata, oltre che per avere un effetto immediatamente distruttivo, per uno secondario propellente in grado di sparare a gran velocità una grossa quantità di chiodi, viti e bulloni nastrati ai panetti al fine di massimizzarne la capacità distruttiva anche sulla lunga distanza. Questo tipo di dispositivo ha origini “antiche”, inventato dalle Tigri Tamil, un gruppo paramilitare di stampo terroristico di ideologia comunista e nazionalista Tamil presente nella zona nordorientale dello Sri Lanka, è stato utilizzato per la prima volta nel 1991, ironia della sorte, proprio da una donna, Thenmuli Rajaratnam, immolatasi in pubblicamente assassinando il Primo Ministro indiano Rajiv Gandhi. Naida Asiyalova è sempre lì, silenziosa, indebolita dalla malattia alle ossa che la perseguita e la rende schiava di tranquillanti e antidolorifici, passeggera di un mezzo che sta percorrendo le vie periferiche della città e con addosso il giubbotto armato pronto a scatenare il suo carico di morte. Ma la linea 29 non è altro che un ripiego, il piano B di uno originario con destinazione Mosca rivelatosi all’ultimo troppo rischioso. Sono giorni che le agenzie di sicurezza russe monitorano gli spostamenti dei daghestani, perquisizioni e posti di blocco ovunque hanno reso la tratta per la Capitale impossibile da percorrere. Ha ancora in borsa il biglietto comprato a Makhachkala ma il piano B è appena diventato il piano A e non si torna più indietro. Sono le ore 14:04, l’autobus è pieno, sta costeggiando una fila di alberi procedendo a velocità costante sulla Azure Street a tre corsie. Sono passate tre fermate da quando la Asiyalova è salita e distogliendo lo sguardo dal finestrino infila la mano nella tasca della giacca. Il pulsante viene premuto, il circuito elettrico si chiude, la scarica di corrente percorre i cavi elettrici dalle batterie ai detonatori. I ponticelli si arroventano, la miscela incendiaria si accende dando il via alla reazione a catena. In una frazione di secondo l’Azoturo di Piombo di ogni detonatore attiva la Pentrite che innesca il Semtex-H. Il mezzo si illumina con un boato. Con una velocità di 8.100 metri al secondo la donna-bomba-suicida esplode dilaniando l’interno dell’autobus. Il suo corpo viene disintegrato, le vetrate si frantumano, le lamiere si deformano, sedili e passeggeri sono catapultati in avanti mentre i pezzi di metallo a contatto con le cariche sono trasformati in lame affilate sparate ovunque che investono e trafiggono. Una nuvola di fumo riempie l’autobus che si arresta qualche decina di metri più avanti con le fiancate crivellate e lo scheletro messo a nudo. Qualcuno si lancia fuori dal vuoto lasciato dai finestrini lasciandosi dietro un tappeto di distruzione e il sangue di 37 persone che urlano, imprecano, piangono, supplicano aiuto immersi in una soffocante nuvola grigia che odora di carne bruciata, così fitta da ricoprire i corpi maciullati dai chiodi e dai bulloni, resi irriconoscibili da abiti anneriti fusi con la pelle. Di chi era seduto nelle file posteriori non resta che qualche pezzo di carne dilaniato da schegge volanti, smembrato dall’onda d’urto, carbonizzato dalla fiammata di 3.500 gradi centigradi che dopo averlo investito ha sfogato verso l’esterno. In 7 non torneranno mai a casa. Dmitry Sokolov, quello che è stato il marito di una martire, l’amore di una donna, il punto di riferimento di un’anima persa, ora è in fuga mentre i resti di chi pendeva dalle sue labbra sono spalmati gocciolanti sul tetto in lamiera della linea 29. Questo di Amaturahman, assieme a quello del 29 marzo del 2010 nella metropolitana di Mosca dove una doppia esplosione provocata da due donne aveva ucciso 40 persone, segna l’ennesimo episodio che si inserisce in una serie di attacchi sferrati da attentatrici suicide provenienti dal Daghestan. Nel suo caso però, manca la componente biografica che di solito le persone sulle missioni suicide condividono: il motivo della vendetta. La sua assenza indica una tendenza emergente a questo tipo di terrorismo, che non può più essere definito come un atto di rimborso per una perdita o una forma radicale di patriottismo, ma il modo più conveniente di condurre una guerra col terrore, una donna trasformata in arma, scelta per la sua debolezza e per la facilità con cui è stata manipolata. L’esatto contrario di ciò che aveva spinto un’altra donna, Malizha Mutaeva, 30 anni, che aveva perso la casa di famiglia a causa dei raid aerei russi nella regione della Cecenia, a farsi saltare in aria nel 2004 durante il micidiale assedio al Teatro Dubrovka di Mosca. Le bombe russe avevano fatto esplodere tutto ciò che possedeva: la casa, i suoi averi, le foto di famiglia, ogni cosa, ogni ricordo. Aveva un rancore da sopportare, così grande da trasformarsi in odio e col tempo in furia omicida. Ma Naida Asiyalova non aveva un motivo apparente, non era in lutto per la perdita di una persona cara, la Russia non l'aveva privata della sua casa o della sua possibilità di vivere in modo dignitoso, lei era solo indebolita, fisicamente e moralmente, quella debolezza che mese dopo mese era riuscita a renderla un'arma utile e sacrificabile nella guerra di qualcun altro.

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01 febbraio, 2023

Jersey City, Porto, 30 luglio 1916


TIPOLOGIA: sabotaggio
CAUSE: carica occultata
DATA:
30 luglio 1916
STATO: New Jersey
LUOGO:
Jersey City, Porto
MORTI:
4
FERITI:
173

Analisi e ricostruzione a cura di Luigi Sistu

Sono passati due anni dall'inizio della Prima Guerra Mondiale e l'area metropolitana di New York è diventata il centro nevralgico dell'industria bellica americana. Il 75% delle munizioni e degli armamenti spediti dagli Stati Uniti d’America verso l’Europa escono da Black Tom, il più importante centro di stoccaggio, assemblaggio e spedizione in America per le munizioni e gli esplosivi inviate agli stati alleati sul fronte europeo, e probabilmente anche il punto di stallo dell'arsenale più ampio al di fuori della zona di guerra. Di proprietà della Lehigh Valley Railroad Company, dopo la bonifica e la creazione di un’isola artificiale di 10 ettari nel 1880, la compagnia aveva successivamente bonificato e colmato il vuoto annettendola alla terraferma di Jersey City, dove prima era collegata solo tramite una ferrovia e una strada sopraelevata. Il suo nome si dice venga da un pescatore nero che aveva vissuto sull'isola per molti anni. Inizialmente utilizzato come cantiere e deposito della National Dock and Storage Company il molo si trova di fronte alla Statua della Libertà, nel porto di New York nella sezione di Greenville. Negli immensi magazzini di Black Tom sostano quotidianamente i materiali “di guerra” fabbricati negli stati nord-orientali, dove rimangono per qualche giorno prima di essere imbarcati e inviati alle Potenze Alleate d'Inghilterra, Francia, Italia e Russia. Mentre questi sono impegnati nel conflitto contro le Potenze Centrali, la Germania e l'Austria-Ungheria, il Presidente Woodrow Wilson ha dichiarato la propria neutralità, ma i diritti americani alla "libertà dei mari" sono lesi dal controllo britannico delle strade marittime atlantiche. Quella che gli Stati Uniti d’America non vedono è una guerra parallela segreta che la Germania Imperiale sta combattendo proprio sul loro territorio atta ad impedire la ricezione britannica del munizionamento dagli Stati Uniti d’America. Educati, industriosi e ben vestiti, ai tedesco-americani è permesso di integrarsi nella società con pochi attriti iniziali rispetto ad altri gruppi etnici. Uno di questi nuovi arrivati in America è il Conte Johann Heinrich von Bernstorff, ambasciatore tedesco a Washington. Era arrivato nel 1908 con al seguito non un personale diplomatico ma con preparati ed addestrati operatori d’intelligence. Aveva portato con sè il Barone Franz Joseph Hermann Michael Maria von Papen, arrivato dal Messico dove aveva combattuto per il Generale Victoriano Huerta, il responsabile per le questioni navali in Nord America Karl Boy-Ed e dei suoi collaboratori Heinrich Friedrich Albert, funzionario, diplomatico, politico, uomo d'affari e avvocato, e Felix Sommerfeld e Horst von der Goltz, entrambi agenti del controspionaggio tedesco. Con un fondo nero di milioni di dollari von Bernstoff e le sue spie miravano ad assistere gli sforzi bellici tedeschi oltreoceano con ogni mezzo necessario, finanziando azioni di sabotaggio in tutto il paese, boicottando e facendo ostruzionismo. In questi anni Von Bernstorff non solo ha contribuito ad ottenere i passaporti per i cittadini tedeschi che volevano eludere il blocco alleato, ma ha finanziato il fallito attentato dinamitardo del Canale di Welland del 1914, quello riuscito allo stabilimento Roebling Wire and Cable a Trenton del 1915, l’affondamento di una nave mercantile americana per il trasporto del grano in Gran Bretagna nello stesso anno e l’attentato dinamitardo al ponte ferroviario di Saint Croix-Vanceboro nel 1916. Ha tra le sue migliori spie il Capitano Franz Dagobert Johannes von Rintelen, ufficiale dell’intelligence navale arrivato negli Stati Uniti nel 1915 presentandosi come uomo d'affari e fondando subito una società fittizia chiamata Bridgeport Projectile Company, attraverso la quale ha cercato di acquistare il maggiore quantitativo di esplosivo possibile per poi distruggerlo. Il suo obiettivo è sia quello di creare delle carenze sul mercato americano al fine di impedire che l’Europa acquisti munizioni, sia quello di sabotare le navi americane da trasporto. Assieme al chimico tedesco Walter Scheel, von Rintelen ha messo punto la versione definitiva di una bomba incendiaria tascabile ad orologeria: “la bomba matita”. Il prototipo era costituito da un cilindro cavo di piombo delle dimensioni di un grosso sigaro. Al centro del tubo era pressato e saldato un disco circolare di rame che lo divideva in due camere separate. Una di queste camere era riempita con Acido Picrico, composto organico scoperto dal chimico tedesco Johann Rudolph Glauber nel 1742, finito di sintetizzare correttamente nel 1841 e scoperto come esplosivo nel 1873 dal chimico anglo-tedesco Hermann Sprengel, mentre la seconda era riempita con acido solforico. Un robusto tappo di cera da una parte e un semplice tappo di piombo dall’altra rendevano entrambe le estremità ermetiche. Lo spessore del disco di rame era invece variabile a seconda della temporizzazione voluta. Per un disco spesso i due acidi impiegavano molto tempo ad unirsi, per uno sottile la mescolanza avveniva entro pochi giorni, trasformando a tutti gli effetti il disco di rame in una spoletta a tempo sicura ed affidabile. Il Capitano von Rintelen durante la progettazione della bomba matita aveva istruito due elementi d’elitè per le operazioni di sabotaggio: il 21enne Lothar Witzkem, ufficiale della marina tedesca, spia e sabotatore arrivato sotto falso nome a San Francisco dopo essere scappato da una prigione cilena, e il 34enne Kurt Jahnke, cittadino tedesco naturalizzato americano e agente dei servizi segreti. Von Rintelen aveva inoltre richiesto l’appoggio logistico della SS Friendrich Der Grosse, un transatlantico di una delle più importanti compagnie di navigazione tedesche, la Norddeutshcher Lloyd, ormeggiato nel porto di New York e trasformato provvisoriamente in laboratorio adibito alla fabbricazione del primo lotto del nuovo tipo di ordigni incendiari. Come banco di prova per testare l’efficacia del congegno era stata scelta la nave da trasporto italiana SS Phoebus. Il bastimento di 3.100 tonnellate aveva preso fuoco in mare costringendo la nave da battaglia classe King Geoge V, l’HMS Ajax, a rimorchiarlo nel porto di Liverpool. Con i nuovi ordigni incendiari tascabili, Lothar Witzkem e Kurt Jahnke si sono addestrati per infiltrarsi nel complesso Black Tom come guardie notturne in modo da guadagnarsi col tempo la fiducia dei colleghi e avere libero accesso a tutta l'area. Con l’ausilio di un contatto all’interno, dopo settimane di preparazione, il piano messo a punto in un appartamentino di New York al civico 123 della Quindicesima strada era pronto. Si sono serviti di un certo Michael Kristoff, un immigrato austriaco di 23 anni che lavora per la Tidewater Oil Company a Bayonne, non lontano dal molo di carico degli armamenti. Kristoff è un volto familiare e non avrebbe avuto problemi ad introdurre delle facce nuove senza destare sospetti. È un fanatico sociopatico ma è motivato nel voler fermare una guerra che va avanti ormai da troppo tempo, ed è proprio per queste caratteristiche che è stato studiato per settimane e scelto dai sabotatori tedeschi per il compimento della missione. La notte tra il 29 e il 30 luglio è una notte scura, è da poco passata la mezzanotte e Kristoff, accompagnato da Witzkem e Jahnke, sta percorrendo il molo. Sono silenziosi, sono armati, oggi tutto deve finire. Arrivati al centro dell’impianto, con il favore del buio i tre si dividono, posizionano alcuni ordigni incendiari sulla chiatta, altri sul convoglio in stallo sulle rotaie e gli ultimi nei magazzini. Le bombe sono attive, gli acidi all’interno stanno corrodendo da ore il disco di rame che li separa. Mentre i due sabotatori si allontanano con un barchino salpato dal molo della National Docks and Storage Company e il terzo si dilegua a piedi, il sabato sera si è ormai trasformato in domenica mattina. Sono da poco passate le due, è ancora buio e le otto guardie sono nel pieno del loro turno. È un’afosa nottata e milioni di zanzare non cessano di martoriarli. Per cercare un po’ di tranquillità hanno acceso da qualche ora dei piccoli focolari in modo da poterle tenere a bada col fumo. Attorno a loro, nel gigantesco Black Tom, lo stoccaggio è immenso. I depositi sono al limite della capienza, all’interno ci sono 12 Tonnellate di Balistite e 25 tonnellate di Cordite in botti. La Balistite era stata ottenuta per la prima volta dal chimico e ingegnere svedese Alfred Nobel nel 1887 ed è costituita da un 10% di canfora, un 45% della Nitrocellulosa scoperta dal chimico tedesco Christian Friedrich Schönbein nel 1846 e da un 45% di Nitroglicerina, il prodotto sintetizzato dal chimico e medico italiano Ascanio Sobrero nel 1847 dalla Nitrocellulosa. La Cordite era stata ottenuta in Gran Bretagna immediatamente dopo, sostanzialmente una variazione della Balistite. Il chimico britannico Sir Frederick Abel assieme al fisico e chimico Sir James Dewar avevano brevettato nel 1889 una sua formula modificata composta da 58% di Nitroglicerina, 37% di Nitrocellulosa e 5% di vaselina. Accanto, impilate l’una sull’altra, ci sono 229 tonnellate di alto esplosivo in cariche di artiglieria di vario calibro per obici, cannoni per carri, artiglieria ferroviaria, artiglieria campale media, pesante e superpesante, tutte prive di spolette, i congegni di innesco ad urto, chimici e ad orologeria da avvitare sul naso delle granate prima dell’uso. Queste sono ordinate in file per calibro: le prime sono le granate da 155 millimetri con ogiva in ghisa acciaiosa dal peso di 43,1 chilogrammi e armate con una carica di 10,3 chilogrammi di esplosivo di due tipologie. La prima è l’Amatolo 60/40, una miscela esplosiva creata durante le prime fasi della guerra dalle forze armate britanniche e costituita da 60% in peso di Nitrato d'Ammonio, il fertilizzante preparato dal chimico e farmacista tedesco Rudolph Glauber nel 1659 che lo aveva chiamato “nitrum flammans” per via del colore giallo della sua fiamma e scoperto come prodotto esplodente dal chimico e ingegnere svedese Alfred Nobel nel 1870, e 40% in peso di Trinitrotoluene, il Tritolo, esplosivo preparato la prima volta nel 1863 dal chimico tedesco Julius Wilbrand. La seconda è la Melinite, una variazione dell’Acido Picrico, variazione adottata dal governo francese del 1885 aggiungendo al composto la Nitrocellulosa. Immediatamente dopo ci sono le granate da 220 millimetri con ogiva in acciaio del peso di 188 chilogrammi e armate con una carica da 32 chilogrammi di Melinite. Ci sono anche le granate da 305 millimetri con ogiva in acciaio, alcune hanno un peso di 445 chilogrammi e sono armate con una carica di 114 chilogrammi di Trinitrotoluene, altre hanno un peso di 295 chilogrammi e sono armate con una carica da 85 chilogrammi di Nougat, una miscela composta da una percentuale del 70% di Tritolo e 39% di Schneiderite, prodotto francese di recente invenzione costituito da un 87,40% di Nitrato d’Ammonio e da un 12,60% di binitronaftalina, altre ancora hanno un peso di 340,5 chilogrammi e sono armate con 97 chilogrammi di Lyddite, una ulteriore variazione dell’Acido Picrico inventata nel 1888 a Lydd, nella regione del Kent, in Gran Bretagna, dove si erano aggiunte al composto vaselina e di dinitrobenzolo. In fondo, le più grandi di tutte, sono impilate le granate da 340 millimetri con ogiva in ghisa del peso di 760 chilogrammi e armate con una carica da 148 chilogrammi di Schneiderite. Fuori dai magazzini, fermi sulle rotaie, 87 vagoni merci sono in attesa delle operazioni di scarico. All’interno sono stipate 30 mila casse di Dinamite a base attiva del peso complessivo di 900 tonnellate. Questa, fortemente esplosiva, brevettata dal chimico e ingegnere svedese Alfred Nobel nel 1867 e composta dalla Nitroglicerina sintetizzata dal chimico e medico italiano Ascanio Sobrero nel 1847 dalla Nitrocellulosa, e miscelata con Nitrocellulosa ad alto contenuto di azoto, è solo una parte del carico. Gli ultimi vagoni sono dedicati al Trinitrotoluene in casse per un peso di 250 tonnellate per la versione secca e 438 per quella umida. A pochi metri c’è il molo, ormeggiata alla banchina c’è la Johnson Barge No 17, una chiatta in fase di immagazzinamento, la sua stiva, piena per il 20%, contiene 46 tonnellate di Trinitrotoluene e 417 casse di miccia detonante, la nuova miccia esplosiva messa a punto negli stabilimenti David Bickford nel 1914 con l’anima in Pentrite, uno degli esplosivi più potenti, preparata per la prima volta nel 1891 dal chimico tedesco Bernhard Tollens. Questo è uno stoccaggio eccezionale anche per gli standard del Black Tom, 1.900 tonnellate tra cariche di munizionamento ed esplosivo sfuso sono decisamente troppe per i protocolli di sicurezza portuali. Sono le ore 01:00, mentre gli otto guardiani sono ancora rannicchiati attorno ai fuochi tenendo lontane le zanzare, i dischi di rame all’interno delle bombe matita sono consumati. Il primo si apre, gli acidi si incontrano, una fiamma silenziosa e intensa lunga 30 centimetri divampa da entrambe le estremità sciogliendo in pochi secondi l’involucro di piombo. L’ordigno, studiato e occultato in modo da creare in pochissimo tempo il peggiore degli incendi, ha innescato una reazione a catena che è impossibile fermare. Una delle guardie scorge del fumo provenire da uno dei vagoni ferroviari, si avvicina, magari è una delle tante lanterne accese, ma la lanterna è al suo posto, il fumo viene da dietro le casse. Uno sguardo di terrore lo impietrisce, corre a chiamare gli altri, ma non fa in tempo ad avvisarli, un secondo vagone inizia a fumare, poi un terzo, e un quarto. Le guardie non sanno cosa fare, si guardano, c’è dell’altro fumo che proviene dai magazzini, una dopo l’altra le bombe si sono attivate, anche la chiatta ha preso fuoco. Black Tom è perduto, in un disperato tentativo viene fatto suonare l’allarme antincendio collegato col Dipartimento dei Vigili del Fuoco di Jersey City ma le fiamme sono già alte, minuto dopo minuto gli incendi diventano sempre più grandi, l’intero stoccaggio è diventato una bomba ad orologeria. Sono le ore 01:20, i Vigili del Fuoco di Jersey City arrivano ma non c’è più niente da fare, l’unica possibilità è scappare e cercare di salvare più vite possibili accendendo le sirene per svegliare la popolazione. Anche i rimorchiatori, arrivati per agganciare le navi in modo da allontanarle dal molo, invertono la rotta. È finita. Sono le ore 02:08, il carico della Johnson Barge destinato a fornire munizioni alla Russia per sei mesi raggiunge il punto critico, la chiatta salta in aria spazzando via il molo e investendo in un decimo di secondo i magazzini e i convogli. Un terremoto di magnitudo 5,5 scuote la terra fino a Philadelphia. Il terreno si solleva, si apre, le banchine vengono vaporizzate, il deposito del Black Tom con i suoi veicoli di carico, ferrovie, magazzini, chiatte, rimorchiatori e pontili viene cancellato, le imbarcazioni vengono affondate. L’aria diventa rossa, incandescente. Le superfici friggono, fumano, nei cimiteri, lapidi e monumenti si rovesciano e le tombe si scoperchiano fuori dal terreno, i residenti di Jersey City vengono svegliati dal gigantesco boato seguito da un’onda d’urto che viaggiando a 7.300 metri al secondo si inoltra nell’entroterra per 150 chilometri. Chi dorme viene buttato giù dal letto, un bambino di 10 settimane muore sul colpo sbalzato dalla culla e scaraventato contro la parete della camera da letto. La parete esterna del municipio di Jersey City crolla, la torre dell’orologio del Jersey Journal a Journal Square si ferma, il Ponte di Brooklyn oscilla, le vetrate della chiesa di San Patrizio sono fatte a pezzi e la gonna, il braccio e la torcia della Statua della Libertà si aprono. Dall'altra parte del fiume, i telai delle finestre esplodono, le porte si scardinano, i pali dell’alta tensione si piegano, quelli delle linee telefoniche si strappano, le edicole in legno vengono appiattite. Il cielo è illuminato a giorno, fino a 90 chilometri di distanza saltano le finestre, le strade di Lower Manhattan, Times Square, Staten Island, Brooklyn, Philadelphia sono bombardate da una pioggia di vetro. Mentre in alto continua a sollevarsi una palla di fuoco seguita da un fungo di polvere, detriti e fumo, in basso i convogli ferroviari, 13 magazzini e sei moli sono un ricordo. Il cratere di 110 metri di lunghezza e 50 di larghezza, fulcro di quella spaventosa esplosione diventa in un minuto e mezzo un laghetto disseminato di rottami fumanti. In pochi minuti i residenti di Jersey City si riversano in strada in preda al terrore. C’è chi in ginocchio prega e chi fugge senza una meta. I mezzi di emergenza che pian piano arrivano sul posto non hanno la minima idea di quello che li aspetta. Altre esplosioni scandiscono le timide operazioni di soccorso, la città è nel panico e l’interruzione delle linee telefoniche ha creato un totale blackout informativo. I feriti sono a decine, in 173 vengono trasportati negli ospedali, l’intera zona è inghiottita dal fuoco. Gli immigrati in stallo ad Ellis Island sono evacuati, 553 persone che vivevano sulle case galleggianti rimangono senza una casa. Grazie all’ora tarda il numero dei decessi sarà basso, un bambino, due agenti di polizia e un comandante a bordo della sua chiatta a poche decine di metri dalla Johnson Barge. I sabotatori hanno vinto in silenzio l’equivalente di una battaglia importante inaugurando il primo grande attacco terroristico sul suolo degli Stati Uniti d’America da parte di un potere straniero.

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01 gennaio, 2023

Atlanta, Centennial Olympic Park, 27 luglio 1996

 

TIPOLOGIA: attentato
CAUSE: carica occultata
DATA:
27 luglio 1996
STATO: Georgia
LUOGO: Atlanta, Centennial Olympic Park
MORTI:
2
FERITI:
111

Analisi e ricostruzione a cura di Luigi Sistu

“Dichiaro aperti i Giochi di Atlanta che celebrano la ventiseiesima olimpiade dell'era moderna”. Con queste parole il presidente Bill Clinton ha strappato una lunga ovazione agli 83 mila spettatori presenti alla cerimonia d'apertura. Per la quarta volta in meno di un secolo gli Stati Uniti celebrano i riti dei cinque cerchi. La fiaccola per accendere il tripode è stata affidata, con un sapiente colpo di teatro, alle mani tremanti e malate di uno degli esponenti più popolari dello sport americano, Muhammad Alì, vincitore con il nome di Cassius Clay del titolo olimpico dei pesi massimi a Roma '60. Con la partecipazione di 197 paesi, 12 dei quali ex URSS ufficialmente presenti come stati indipendenti, queste di Atlanta sono le prime Olimpiadi a numero chiuso dove gli atleti hanno conquistato sul campo, in difficili selezioni preolimpiche, il diritto di gareggiare nei Giochi. Dal 19 luglio 1996 la capitale dello stato della Georgia ha cambiato volto, è diventata internazionale. Il Centennial Olympic Park, progettato come la "piazza della città" delle Olimpiadi, costituisce il punto di aggregazione di questa internazionalità, una internazionalità che la città avrebbe pagato a caro prezzo. È la notte del 26 luglio e la città, finito di cenare è uscita di casa. È passata la mezzanotte, è una serata calda, appiccicosa, in migliaia sono riuniti al parco per il concerto gratuito dei Jack Mack and the Heart Attack, band soul e R&B nata nel 1980 a Los Angeles, in California. I Giochi Olimpici si stanno festeggiando nel grande parco con musica e danze e questa è una di quelle notti in cui anche l’America nera di Atlanta sente di poter partecipare, per una volta, alla grande festa, al grande sogno americano, un sogno americano che Eric Robert Rudolph ha pianificato con accortezza criminale affinché finisca proprio oggi. Poco prima della mezzanotte, da una cabina pubblica tra Becker e Spring Street una telefonata ha allertato il 911 della presenza di una bomba proprio al Centennial Park quando sul prato, ignare di tutto, migliaia di persone, intere famiglie, si stanno godendo questa magica serata. In queste occasioni le segnalazioni di mitomani o semplici scherzi sono frequenti ma nei pressi del palco qualcosa non va, un’unica nota stonata di quella musica che sta facendo ballare tutti. È un tizio biondiccio e corpulento, sudaticcio, con la divisa della sicurezza, ha appena iniziato a dare di matto, sbracciare facendosi largo tra la folla, un po’ incuriosita, un po’ attonita. È Richard Jewell, è una guardia privata in servizio alla AT&T, la ditta incaricata della sicurezza del padiglione Global Olympic Village. Con un'esperienza da vicesceriffo della contea di Habersham e alle spalle un corso di esplosivistica di base dove ha imparato a dubitare di qualsiasi contenitore lasciato incustodito in un luogo sensibile, sta cercando di tenere tutti lontani da uno zaino che ha attirato la sua attenzione. Lo ha notato mentre andava in bagno durante una pausa, fermandosi a riprendere un gruppo di ragazzi ubriachi che stava sporcando l’area con delle lattine di birra. Preoccupato per quella posizione insolita, ha tempestivamente avvertito i funzionari dell'Ufficio investigativo della Georgia che preoccupati dall’atteggiamento nervoso di Jewell hanno allertato la Squadra Artificieri dell'ATF, il Bureau of Alcohol, Tobacco, Firearms and Explosives, e dell'FBI, il Federal Bureau of Investigation, affichè prendessero in consegna lo zaino. I tecnici, arrivati sul posto, un po’ scettici poiché abituati a continui falsi allarme, si chinarono sulla borsa, aprendola. Sbiancano. Dalla chiusura lampo dello zaino, un modello “Alice” da campo, fanno capolino tre tubi bomba artigianali lunghi 25 centimetri e larghi 5 innescati elettricamente. Questi fungono da cannone per centinaia di chiodi da muro da 7,6 centimetri puntati ad ombrello in direzione della folla mediante una piastra direzionale in acciaio. I membri della squadra gridano ai presenti di allontanarsi all’istante mentre di corsa cercano di mettere più metri possibili tra loro e la bomba. Non è sufficiente, mentre la folla non è ancora resa conto di ciò che sta succedendo un meccanismo a tempo libera una molla che mette in comunicazione due capi di un circuito elettrico alimentato da una batteria di pile alcaline. Il circuito si chiude, la sorgente di energia fornisce la corrente necessaria affinché un accenditore elettrico, un fusibile, si riscaldi incendiando una carica esplosiva dove è annegato. L’esplosivo contenuto in ognuno degli involucri, le “pipe-bombs”, è la Polvere Nera industriale, un esplosivo costituito da 74,65% di nitrato di potassio, 13,50% di carbone e 11,85% di zolfo, una ricetta arrivata fino ai giorni nostri grazie al monaco e scienziato Ruggero Bacone nel 1249 modificando quella comparsa per la prima volta in un'opera di Wu Ching Toung Yao nel 1044. In ciascuno di essi, sigillato alle estremità, i gas si riscaldano e si espandono così rapidamente verso l'esterno da generare dei gas ad altissima pressione e temperatura creando una pressione sufficiente da superare la resistenza del rivestimento metallico e imprimendo la stessa velocità di reazione all'involucro che permette di ottenere effetti devastanti con poco esplosivo e di scarsa qualità. La combustione, veloce ma graduale, fa alzare la pressione usando l’energia sviluppata come forza propellente. In una frazione di secondo lo zaino esplode con una velocità di 1.400 metri al secondo creando una fiammata di 2.700 gradi centigradi che squarcia l’aria, investe la torre e genera una rosata di proiettili sparati ad oltre 900 chilometri orari. Il turista californiano Robert Gee, prima di cadere a terra immortala con la sua videocamera quell’attimo in cui la porta dell’inferno si spalanca liberando tutta la sua furia. Quando questa si placa resta solo il silenzio, un momentaneo nulla assoluto prima che pianti e lamenti diventino i nuovi protagonisti. Sono necessari 30 secondi perché il fumo bianco e caldo si diradi verso l’alto lasciando nella zona nord-est del parco un pavimento di corpi mitragliati. In 111 si muovono ancora, annaspando in pozze di sangue che zampillando dai fori lacerati lasciati dal passaggio delle schegge di metallo rovente, si impasta con la polvere. Alcuni cercano di alzarsi da soli, altri aspettano i soccorsi, in due invece rimangono immobili. Loro non aspettano nessuno. Il cameraman turco Melih Uzunyol, 34 anni, con due figlie che seguono i Giochi da casa, è corso sul posto più in fretta che ha potuto, troppo. Un dolore al petto lo ha stroncato sul colpo. Sopravvissuto alle guerre in Azerbaijan, Bosnia e Golfo Persico, si è accasciato sul prato di un evento di pace. Poco più avanti, Alice Hawthorne, una signora nera di 44 anni, è a faccia in giù, un chiodo le ha trapassato il cranio. Atlanta è in ginocchio, e con lei tutti gli Stati Uniti, Eric Robert Rudolph ha raggiunto lo scopo. Prima di allontanarsi ha posizionato lo zaino vicino ad uno degli impianti di amplificazione, accanto alla torre sonora NBC da 13 metri di altezza, sotto una panchina, posizione non casuale ma scelta con cura. La sua “punizione” doveva creare il maggior danno possibile. Rudolph non è uno sprovveduto, è addestrato, preparato, determinato. Nato a Merritt Island, in Florida, il 19 settembre del 1966, dopo aver perso il padre a 15 anni con la madre e i fratelli si è trasferito a Nantahala, un piccolo paese della Contea di Macon, nella Carolina del Nord. La madre è una seguace del survivalismo, un movimento culturale nato durante la Guerra Fredda e caratterizzato dalla volontà di essere pronti ad affrontare una catastrofe imminente. Non essendo riuscito a completare gli studi ha trovato lavoro come carpentiere insieme a suo fratello prima di essere ammesso nel 1984 alla Western Carolina University di Cullowhee riuscendo a frequentare solo due anni. Ritiratosi dalla Western Carolina University si è arruolato nell’esercito nella 101ª Divisione Aviotrasportata di stanza a Fort Campbell in Kentucky, frequentando la Air Assault School per la conduzione di operazioni con aerei ed elicotteri d'assalto prima di venire espulso nel 1989 per possesso di droga. Tornato nella società civile, ha stabilito dei rapporti con un movimento ultracristiano militante nel Missouri, il Christian Identity, noto come Chiesa d’Israele, un gruppo che professa una militanza attiva, aggressiva, anche con tecniche di guerriglia. Esponente del movimento "supremazia bianca", militante dell'"Esercito di Dio" contro i gay, l'aborto, gli ebrei, gli stranieri, la sua volontà è stata colpire "gli ideali del socialismo globale" rappresentati dalle Olimpiadi e supportati dal "regime di Washington", perfettamente espressi nella canzone “Imagine” di John Lennon, inno proprio di questi Giochi. L'obiettivo? Confondere, far arrabbiare e imbarazzare il governo di Washington agli occhi del mondo per il suo abominevole ruolo nella somministrazione dell'aborto su richiesta, cancellare i Giochi, boicottare le Olimpiadi come luogo ecumenico di fratellanza, creare uno tale stato di insicurezza da svuotare le strade intorno all'evento in modo da colpire i grandi capitali investiti. Ma tutto ciò non accadrà, i Giochi andranno avanti e in lui si accenderà una follia omicida seriale che lo appenderà nelle bacheche degli uffici governativi come uno dei dieci latitanti più ricercati. Ma non ora. Per la bomba di Atlanta le indagini verranno ufficialmente assunte dal Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti e dall’FBI e tra quattro giorni Richard Jewell, inizialmente considerato un eroe, verrà indicato come “persona di interesse”. Non essendoci altre piste i media si concentreranno in modo aggressivo su di lui, accanendosi, indagando sulla sua vita privata e indicandolo come presunto colpevole. Jewell si considera un tutore della legge, lo fa da tutta una vita, in realtà svolge per lo più lavoretti di sorveglianza. La sua missione, proteggere gli altri ad ogni costo, lo ha trasformato nell’eroe che ha sempre sognato di essere. Ma la sua celebrità, arrivata così all’improvviso, gli si rivolterà contro facendolo precipitare dal sogno all'incubo, inghiottendolo in uno dei processi mediatici più famosi della storia. 

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