01 ottobre, 2018

Palermo, Via Federico Giuseppe Pipitone, 29 luglio 1983


TIPOLOGIA: attentato
CAUSE: autobomba
DATA:
29 luglio 1983
STATO: Italia
LUOGO: Palermo, via Federico Giuseppe Pipitone
MORTI:
4
FERITI:
29

Analisi e ricostruzione a cura di Luigi Sistu

Sono le ore 08:03 di venerdì 29 luglio 1983 e in via Federico Giuseppe Pipitone, nella Palermo residenziale nata dall’espansione edilizia dissennata e abnorme degli anni Sessanta-Settanta, è tutto tranquillo, o almeno apparentemente. Non troppo distante, qualcuno nascosto sul rimorchio di un camion ribaltabile ha gli occhi puntati su un palazzo da dove tra pochi minuti il Giudice Rocco Chinnici scenderà le scale, si tratterrà qualche secondo nell’androne dello stabile con il portiere e varcherà il portone in direzione dell’Alfetta 2000 che lo aspetterà fuori con lo sportello aperto per accompagnarlo al Palazzo di Giustizia. Nel percorso, tra il portone e la blindata, c’è un’automobile, è di piccole dimensioni, è anonima, è una Fiat 126 verde oliva del 1977 ed è parcheggiata lì apposta per lui. Quel qualcuno non molto lontano, vestito da muratore e accucciato tra latte di calce e travi di legno si chiama Antonino Madonia, ha in mano un telecomando e un dito su una leva. Fondatore del Pool Antimafia assieme ai Giudici Giovanni Falcone, Giuseppe Di Lello, Antonio Caponnetto e Paolo Borsellino, Chinnici è alla direzione dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, incarico affidatogli a seguito dell’omicidio del Dottor Cesare Terranova, particolarmente distintosi per la tenacia dimostrata nella lotta al fenomeno mafioso soprattutto nella organizzazione imperante tra gli anni 1960 e 1970 ai cui vertici si trovava pro tempore Luciano Leggio. Raccogliendone professionalmente l’eredità spirituale, continuando l’attività giudiziaria con lo stesso impegno profuso dal suo predecessore, era diventato un bersaglio. Le risultanze processuali acclaravano, infatti, che sotto la sua gestione le istruttorie concernenti i più gravi fatti criminosi verificatisi a Palermo negli ultimi anni avevano ricevuto un incalzante e decisivo impulso tradottosi in concreti risultati, fra cui la emissione di numerose ordinanze di rinvii a giudizio adottate addirittura in difformità delle richieste di proscioglimento avanzate dalla Procura, di numerosi mandati di cattura a carico di alcuni personaggi di spicco di Cosa Nostra, fra cui quelli nei confronti degli esponenti di vertice, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, capi mandamento di Corleone, e Salvatore Montalto, capo mandamento di Villabate. Ad un significativo salto di qualità delle indagini aveva inoltre contribuito l’adozione di metodi di lavoro innovativi sia in punto di organizzazione degli uffici, con la predisposizione di moduli operativi tali da consentire lo scambio di informazioni tra i titolari dei vari procedimenti, che in tema di coordinamento delle indagini, mirate a cogliere la connessione fra i vari fatti delittuosi, solo apparentemente autonomi, ed individuare gli intrecci ed i collegamenti operativi tra i gruppi che, secondo gli equilibri di questi tempi, costituiscono i gangli vitali dell’Organizzazione. Associazione criminale di tipo mafioso Cosa Nostra è nata in Sicilia nel 19° secolo e si è sviluppata esponenzialmente dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Strutturata gerarchicamente, nota in tutto il mondo per gli attentati, gli omicidi esemplari e la violenza diretta contro lo Stato italiano con l’eliminazione di uomini politici, poliziotti e magistrati, mantiene il controllo su numerose attività economiche e politiche regionali ed extraregionali per mezzo di reti di fiancheggiatori e dell’inserimento di propri capitali nel settore dei pubblici appalti, della sanità e del turismo, penetrando perfino nei settori della grande distribuzione alimentare, dei mercati ortofrutticoli, nelle attività edili e in quelle di tipo economico-finanziario. L’Organizzazione è divisa in “Famiglie”, ciascuna con un capo, il “rappresentante”, eletto da tutti gli “uomini d’onore” e assistito da un vice-capo e uno o più consiglieri. Tre Famiglie, ognuna organizzata in "'decine" composte da dieci uomini d'onore, i "soldati", coordinati da un "capodecina", costituiscono un "mandamento", la zona di influenza, gestito dal “capo mandamento” anch'esso eletto e che fa parte della "Commissione Provinciale", il massimo organismo dirigente di Cosa Nostra nella provincia, organismo che prende le decisioni più importanti, risolve i contrasti tra le famiglie, espelle gli uomini inaffidabili, controlla tutti gli omicidi, inferiore in quanto a potere soltanto a quella "Regionale". Corruzione e riciclaggio sono il volano che ha permesso a Cosa Nostra di radicarsi, anno dopo anno, sempre di più nel territorio accrescendo il proprio potere in maniera spropositata. In due riunioni collegiali quasi plenarie, una a maggio e una a giugno, presiedute dal 63enne supercapo di Cosa Nostra Salvatore Riina, dove aveva riunito la Commissione Provinciale in Contrada D’ammusi e a Piano dell’Occhio, nel comune di Monreale, non solo era stata deliberata la sentenza di morte, ma erano anche state definite le parti coinvolte nella fase esecutiva, questa affidata a uomini d’onore appartenenti a più mandamenti, quello di Resuttana, quello della Noce, Ciaculli, Corleone e San Giuseppe Jato. Per l’esecuzione, un agguato mediante metodi tradizionali, armi da fuoco di grosso calibro, si era pensato inizialmente alla casa di campagna del Giudice, a Salemi, nel trapanese, luogo apparentemente perfetto in cui il dottor Chinnici possiede una villetta ove è solito trascorrere parte del periodo estivo. Si tratta di un’abitazione a due livelli, un piano terra e primo piano in una località relativamente distante dalla strada pubblica, circa 300 metri, ubicata all’interno di un fondo arretrato rispetto ad essa. Mentre la sua famiglia solitamente ci soggiorna dai primi di agosto trattenendovisi anche per gran parte del mese di settembre, il Giudice, passato agosto in settembre si limita a qualche giorno oltre a saltuarie domeniche nel periodo della vendemmia. Scartata praticamente subito l’ipotesi di colpire Chinnici nella casa di campagna perché la presenza del presidio fisso di sorveglianza dei Carabinieri e le labirintiche stradine di campagna avrebbero reso complicato il lavoro del commando sia durante l’attacco che nella fuga, si era optato per un agguato davanti all’abitazione di residenza, sempre con metodi tradizionali. Per questo motivo erano state fatte delle prove di sfondamento di un vetro blindato montato su un telaio e testato da Antonino Madonia, secondogenito del boss Francesco Madonia, capo storico del mandamento di Resuttana, e Giovanni Brusca e Baldassare Di Maggio, entrambi della famiglia di San Giuseppe Jato, con un primo tentativo a distanza media utilizzando un fucile d’assalto sovietico AKM, automatico e di calibro 7,62 millimetri, presso una cava abusiva di proprietà della famiglia di quest’ultimo sita in San Giuseppe Jato, e con un secondo tentativo da parte di Bernardo Brusca, il padre di Giovanni, a distanza ravvicinata con un fucile semiautomatico in calibro 12, a contrada Dammusi, entrambi con esito positivo. L’apparato di sicurezza predisposto per la tutela di Chinnici però, organizzato in modo tale da impedire, di fatto, un avvicinamento del Giudice, avrebbe certamente reso pericoloso, se non temerario, predisporre un agguato con questa modalità. Anche se l’affidabilità del fucile d’assalto era già stata testata con successo il 3 settembre dell’anno scorso quando una sventagliata di colpi avevano crivellato l’Autobianchi A112 beige con a bordo il Prefetto di Palermo, il Generale dei Carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa e la moglie Emanuela Setti Carraro, e l’Alfa Romeo Alfetta dell’agente di scorta della Polizia Domenico Russo, l’inevitabilità di un conflitto a fuoco con gli addetti alla tutela del Magistrato, copertura approntata ogni mattina, avrebbe reso molto difficile tentare una sortita, armi in pugno, per cogliere di sorpresa la scorta, uccidendo l’obiettivo. A seguito degli opportuni pedinamenti e dei controlli effettuati era stato deciso di mutare il progetto adottando una forma più eclatante e invasiva che avrebbe sortito un effetto intimidatorio anche più efficace: una bomba. Madonia si era ispirato, per la sua proposta ai vertici della Commissione, a fatti avvenuti nella questione napoletana dove Vincenzo Casillo, luogotenente di Raffaele Cutolo, capo della Nuova Camorra Organizzata, un’organizzazione criminale di stampo camorristico creata da lui stesso negli anni ’70 in Campania, nonché tra le figure criminali più potenti e controverse operanti nella seconda metà del XX secolo, era saltato in aria con una autobomba mentre si trovava latitante a Roma. Di lì era nata quindi l’esigenza di privilegiare modalità esecutive differenti e, dato che attualmente non esiste una zona rimozione davanti all’abitazione del Giudice, il sistema più idoneo ad assicurare una buona riuscita dell’agguato sarebbe stato effettivamente quello della collocazione di un congegno esplosivo da azionare a mezzo di un telecomando, a vista e non a orologeria, in quanto, pur essendo accertato che Magistrato sia notoriamente abitudinario, scendendo dalla sua abitazione ogni mattina per recarsi al lavoro verso le ore 8.00, non si sarebbe certo mai potuto prevedere il momento esatto in cui sarebbe uscito da casa. La realizzazione di questo piano avrebbe previsto anch’esso dei margini di aleatorietà in quanto il buon esito sarebbe potuto essere assicurato solo con il passaggio del Giudice, mentre si trovava ancora fuori dell’auto blindata, e dunque nel momento di sua massima vulnerabilità, nel punto più vicino alla bomba. L’attentato sarebbe stato il frutto di un meditato programma operativo che avrebbe attentamente valutato tutti questi aspetti con la sistemazione di questa in un’auto, anche di piccole dimensioni, e quest’ultima in una posizione davvero strategica con la creazione di un punto di passaggio obbligato proprio dinanzi ad essa, al suo cofano, unitamente alla predisposizione di uno spazio che avrebbe consentito alla blindata d’ordinanza di parcheggiarle proprio il più vicino possibile. Di qui la assoluta esigenza, per gli organizzatori, di “conquistare“ un posto macchina più ampio rispetto a quello necessario per il parcheggio della piccola utilitaria destinata all’esplosione per poter disporre, al momento del suo posizionamento, di margini di manovra più ampi e poter creare un varco obbligato di transito pedonale proprio dinanzi al portone di casa Chinnici. L’operazione così descritta avrebbe richiesto dunque, preliminarmente ad ogni altra attività, la indispensabile occupazione del posto macchina proprio dinanzi al portone, con l’ulteriore accorgimento sopra descritto, onde reperire un parcheggio più ampio a quello necessario per una piccola utilitaria. Con questo progetto, approvato da Riina e di conseguenza da Bernardo Brusca, l’ordine di progettare l’ordigno e reperirne i materiali per la realizzazione era stato dato al figlio. Questo si era immediatamente mosso facendo richiesta a Baldassare Di Maggio di procurargli una bombola di gas tagliandone la superficie all’altezza della saldatura e di creare una cerniera al fine di richiuderla in maniera ermetica, e di preparargli anche una cassetta in ferro. Mentre la prima non era stata mai materialmente ritirata per motivi di ingombro, la scatola era stata invece prelevata una settimana prima del 29. Per il lavoro Di Maggio si era servito del cugino, tale Salvatore Prestigiacomo, che nella sua officina si occupa delle saldature, facendogli assemblare la cassetta metallica con un foro su di un lato del diametro di almeno 10 centimetri. Per quanto riguarda l’esplosivo e gli inneschi avevano deciso di utilizzare ogni aggancio possibile, avanzando la richiesta ad un parente di Brusca, Franco Piedescalzi, fochino presso la cava di sabbia INCO di Roccamena-Camporeale, nel territorio di Roccamena, nel Belice, di proprietà di Giuseppe Modesto, un imprenditore molto vicino a Brusca e persona a disposizione già da tempo dell’organizzazione mafiosa, che aveva provveduto a consegnaglielo personalmente. L’esplosivo, che assieme a due detonatori era stato trasportato in due sacchi in juta sintetica, è di tipo granuloso, pulvirulento, di colore bianco scuro tendente al giallo. Del peso di 30 chilogrammi per sacco si tratta di un Amatolo per uso civile, una miscela esplosiva creata durante la Prima Guerra Mondiale dalle forze armate britanniche e costituita in questo caso da 78% in peso di Nitrato d'Ammonio e 21% in peso di Trinitrotoluene e un 1% di additivi e confezionato in sacchi dal produttore. Mentre il primo è un fertilizzante, scoperto come prodotto esplodente dal chimico e ingegnere svedese Alfred Nobel nel 1870 e chiamato “nitrum flammans” per via del colore giallo della sua fiamma da Johann Rudolph Glauber, chimico e farmacista tedesco considerato uno dei fondatori della chimica industriale moderna e precursore dell’ingegneria chimica che lo aveva preparato e descritto nel 1659, il secondo è un esplosivo preparato la prima volta nel 1863 dal chimico tedesco Julius Wilbrand, perfezionato nel 1888 dal chimico tedesco Hermann Frantz Moritz Kopp e prodotto industrialmente in Germania un anno dopo col nome di Tritolo o Tnt. I detonatori, di tipo elettrico, necessari all’avvio di questa particolare miscela, sono degli artifizi esplosivi primari versione moderne di quello elettrico inventato nel 1876 da Julius Smith. All’interno dell’involucro d’alluminio, un piccolo tubicino cilindrico, contengono una piccola quantità di esplosivo secondario, la Pentrite, uno degli esplosivi più potenti preparata per la prima volta nel 1891 dal chimico tedesco Bernhard Tollens, innescata a sua volta da pochissimo esplosivo primario, l’Azoturo di Piombo, preparato dalla Curtis's and Harvey Ltd Explosives Factory nel 1890, e da una miscela incendiaria che lo avrebbe acceso tramite un ponticello diventato incandescente dal passaggio di una corrente elettrica generata da una o più batterie collegate ad una centralina ricevente. Di questa come dell’apparecchio trasmittente se ne era occupato Madonia. La ricevente, completamente artigianale, era combinata in una cassetta, una scatola di legno di forma rettangolare larga 15 centimetri e alta 10 dove sulla base era stato imbullonato un motorino elettrico per modellismo dinamico, quello classico per la movimentazione dello sterzo delle automobili, che faceva girare una levetta con fissato ad essa un chiodo che una volta mosso, ruotando di 90 gradi andava a fare contatto con un secondo chiodo a chiudere un circuito elettrico parallelo costituito da un cavo più lungo, la linea di tiro posta esterna alla scatola, che una volta collegata al detonatore, la capsula di innesco, gli avrebbe dato corrente. Le batterie, due serie da 1,5 Volt, necessarie sia per il funzionamento del motorino sia per l’alimentazione del detonatore i cui circuiti avrebbero lavorato separatamente, erano state nastrate accanto mentre l’antenna, che non era altro che un filo sottilissimo di colore nero, si sarebbero preoccupati di farla fuoriuscire dallo sportello dell’auto all’ultimo momento fissandola in qualche modo alla carrozzeria. Predisposto il congegno, per cui, anche se amatoriale e moderatamente complesso, non erano state necessarie particolari capacità tecniche ma era stata sufficiente una media cultura elettronica ed elettrotecnica, avevano pensato all’apparato trasmittente: il radiocomando. Di medie dimensioni e di colore scuro, anche esso utilizzato nel modellismo, era un GIG NIKKO “r/c systems full function” modello del 1980, facilmente reperibile in un qualsiasi negozio di giocattoli, dotato di antenna telescopica in metallo e munito della doppia leva ognuna con due gradi di libertà, su-giù e sinistra-destra. Per verificarne il corretto funzionamento erano state necessarie delle prove, effettuate a Contrada Dammusi in presenza di Giovanni Brusca, Antonino Madonia, Raffaele Ganci, capo del mandamento di Della Noce, e Giuseppe Giacomo Gambino, capo della Famiglia di San Lorenzo facente parte del mandamento guidato da Rosario Riccobono, membro attivo della Commissione. Madonia, dopo essersi allontanato assieme a Salvatore Lazio, della Famiglia di San Giuseppe Jato, ponendosi a 300 metri di distanza quasi a ridosso con la proprietà limitrofa Campione, aveva mosso la leva del radiocomando mentre i Brusca, Gambino e Ganci avevano constatato che il detonatore, uno dei due recuperati da Piediscalzi e collegato alla ricevente tramite un cavo lungo 25 metri, fosse esploso correttamente a seguito dell’impulso proveniente dalla trasmittente. L’esigenza di recuperare un’auto in modo da occupare il minor posto possibile nel parcheggio affinché il Giudice avesse il percorso obbligato accanto ad essa per raggiungere la blindata che lo avrebbe atteso in strada, aveva fatto sì che gli organizzatori si mettessero alla ricerca di un’auto di piccole dimensioni. La scelta era caduta sulle Fiat 500 e sulle Fiat 126, molto comuni e abbastanza semplici da rubare. Calogero Ganci, figlio di Raffaele Ganci, era stato incaricato qualche settimana prima del giorno della consumazione della strage, sia dal padre che da Gambino, di mettersi a disposizione di Madonia e di provvedere a reperirgliela. Dopo questo colloquio, avvenuto nella macelleria di via Lancia di Brolo gestita assieme al fratello Stefano, alla presenza del terzo fratello Domenico, del padre, nonché del cugino Francesco Paolo Anzelmo, Calogero aveva contattato Madonia che lo aveva accompagnato dinanzi all’abitazione del Giudice dandogli disposizione di tenere occupato costantemente con un’autovettura “pulita“ lo spazio antistante la portineria dello stabile di via Pipitone impegnata già quello stesso giorno da una delle sue e che era stata subito spostata dando inizio alla sequenza di scambi che sarebbe durato per 10 giorni, fino al 28, giorno in cui con lo scambio finale, l’auto designata per Chinnici avrebbe trovato posto. Gli scambi, che sarebbero avvenuti almeno due-tre volte al giorno per evitare che vi sostasse troppo tempo la stessa auto, sarebbero dovuti avvenire ad orari diversi in modo da non insospettire sia il portiere dello stabile che gli addetti al servizio di scorta che giornalmente vanno a prelevare a casa il Consigliere Istruttore. All’alternanza del parcheggio delle autovetture, affidata alla famiglia Ganci, vi avrebbero provveduto i componenti della Famiglia Della Noce, oltre a Calogero e al cugino Anzelmo, anche i suoi fratelli Domenico e Stefano ed il padre Raffaele. Mentre da quel momento si erano messi alla ricerca della macchina da rubare, nei giorni successivi, dopo avere tentato invano di posteggiare una delle loro macchine davanti al civico 59, poichè gli spazi erano sempre occupati da altre autovetture, Calogero Ganci era riuscito ad ottenerlo con uno stratagemma: aveva telefonato al numero indicato sul fianco del furgone di una ditta di trasporti con sede in una traversa di via Pipitone che in quel momento si trovava posteggiato proprio nel luogo per loro ottimale, richiedendo il trasporto di una lavatrice da prelevare presso il negozio “Migliore” sito vicino alla Stazione Notarbartolo. La donna con cui aveva parlato al telefono aveva approvato il trasporto tanto che dopo pochi minuti il furgone era stato effettivamente spostato dando la possibilità a Raffaele Ganci di posizionare una propria autovettura nel posto rimasto libero, raccomandandosi di continuare ad occupare permanentemente lo spazio antistante la portineria con un’autovettura a quattro sportelli in modo da riempire il maggiore spazio possibile, ciò per potere poi al momento della sostituzione con l’autobomba lasciare davanti a quest’ultima uno spazio idoneo al fine di consentire il passaggio del Consigliere. Nel frattempo, dopo 8 giorni di ricerca dell’”auto perfetta” l’occasione si era finalmente presentata: una Fiat 126 del 1977. Color verde bottiglia, coi doppi comandi, sempre aperta e con le chiavi inserite nel cruscotto era in uso ad un’autoscuola. Con targa PA 372067 e di proprietà di Andrea Ribaudo, poiché tra una lezione e l’altra incorrevano solitamente pochi minuti era parcheggiata sempre in doppia fila nella via Mariano Migliaccio, nel Quartiere Uditore, condizione sufficiente assieme alle chiavi inserite perché Ganci, il giorno 27 alle ore 11:05, in pochi secondi la portasse via assieme ad Anzelmo che gli aveva fatto da staffetta. Dopo il furto era stata parcheggiata per 20 minuti in via Generale Eugenio di Maria, il tempo necessario che un certo Giuseppe Di Napoli, parente di Raffaele Ganci e proprietario di un’officina da elettrauto sita in via Damiano Almeida, fosse condotto sul posto per occuparsi dello smontaggio delle tabelle con la scritta “scuola guida” imbullonate nei paraurti affinchè, una volta anonimata, fosse consegnata dopo un successivo stallo di mezza giornata davanti all’abitazione a Fondo Pipitone di Vincenzo Galatolo, boss dell'Acquasanta, zona nord di Palermo, appartenente al mandamento di Resuttana, nel pomeriggio ad Antonino Madonia in un garage di via Porretti al civico 5. Percorsa la traversa di via Ammiraglio Rizzo, procedendo dalla Fiera del Mediterraneo verso il mare, all’altezza di uno spartitraffico in prossimità di alcune palme, la 126 aveva svoltato a destra dove dopo una cinquantina di metri era sparita dietro una saracinesca alla fine di uno scivolo e dove ad attenderla c’erano una bombola, una scatola di metallo e due sacchi di esplosivo. Nel garage di via Porretti, nella disponibilità di Madonia quanto di Vincenzo Galatolo che ne possedevano le chiavi, costituente una indispensabile base operativa di gran parte delle azioni criminali compiute durante le guerre di mafia tra cui l’eclatante omicidio del Generale Dalla Chiesa, nel primo pomeriggio di ieri sono stati eseguiti i preparativi dell’autobomba. Con un lavoro durato sei ore se ne erano occupati Giovanni Brusca e Antonio Madonia alla presenza di Vincenzo Galatolo e Paolo Anzelmo. La bombola, diversa da quella realizzata dal cugino di Baldassare Di Maggio, era più piccola, da 10 chilogrammi, di 65 centimetri d’altezza e 25 di diametro, reperita in un garage di contrada Dammusi e da cui aveva svitato il rubinetto, bombola scelta appositamente di queste dimensioni poiché l’unica allocabile nel baule della 126. La scatola di metallo invece era esattamente quella costruita da Prestigiacomo: lunga 40 centimetri e alta 20 e col foro di entrata del diametro di 10 centimetri come esplicitamente richiesto, arrivata sul posto assieme alla bombola e all’esplosivo a bordo di una Volkswagen Golf guidata da Brusca e scortata da Di Maggio sulla sua Fiat Uno. Dopo aver eliminato i doppi comandi nell’auto e tolto via la ruota di scorta dal vano portabagagli, Brusca, aiutato da Di Maggio, aveva prima riempito la bombola di esplosivo aiutandosi con un imbuto preoccupandosi di compattare la polvere di tanto in tanto in modo da creare una massa compatta, uniforme, priva di vuoti, riuscendo a farcene stare 32 chilogrammi e chiudendo il foto con una palla di scotch, poi si era occupato della scatola, collocandovi dentro la rimanenza ben compattata, 16 chilogrammi, e chiudendola ermeticamente con un tappo a cerniera. La quantità complessiva di sostanza esplodente, 48 chilogrammi, era stata chiusa negli involucri metallici poiché i tecnici sapevano bene che conseguentemente all’esplosione gli effetti derivanti dall’inserimento delle cariche in un contenitore metallico sarebbero stati, essendo queste intasate, più dirompenti. Questo poiché i gas, riscaldandosi ed espandendosi rapidamente verso l'esterno avrebbero generato altissima temperatura e un aumento di pressione tale da superare la resistenza del rivestimento metallico e imprimendo in questo modo la stessa velocità di reazione all'involucro. Quella stessa sera, finita la prima parte dell’allestimento dell’auto, Raffale Ganci, accompagnato da Madonia si era preoccupato di rubare, da un’altra 126 color amaranto nei pressi di via San Polo intorno alle tre del mattino, le targhe. Di proprietà di Salvatore Santocito, titolare di un panifico ubicato in Via Imperatore Federico, targata PA 426847 e nella disponibilità del figlio Giacomo, era stata parcheggiata da lui quella stessa sera sotto la propria abitazione in via Vincenzo Fuxa al civico 16 dopo le ore 23:00. Alle ore 03:00 di ieri notte, presso l’abitazione di Galatolo a fondo Pipitone, Raffaele Ganci aveva dato appuntamento ad Anzelmo e al figlio Calogero, dove li aspettavano Madonia e Brusca, per l’ultimo briefing e gli ultimi test sull’apparato radio ancora da collegare. A questo ci aveva pensato Brusca che dopo aver verificato l’effettivo funzionamento del radiocomando e del motorino, si era spostato al garage assieme a Ganci per assemblare la centralina all’interno dell’auto e rivettare le nuove targhe. Una volta nastrato il detonatore alla linea di tiro, il cavo collegato al motorino, l’apparato ricevente era stato sistemato sul lato passeggero, appena sotto il sedile, col coperchio non ancora fissato, i due pacchi batteria scollegati e due tubicini di gomma messi a tappo dei chiodi, un meccanismo di sicurezza per evitare falsi contatti o sorprese premature. I cavi elettrici, ben nascosti sotto il cruscotto, finivano nel vano portabagagli dove il detonatore, armato ma ancora separato dalla carica, era stato fissato provvisoriamente con dello scotch alla carrozzeria e coperto con della gomma al riparo da elettricità statica che avrebbe potuto innescarlo. Questa mattina del 29, erano tutti operativi da presto presso Fondo Pipitone e Brusca, chiuso nel garage di via Porretti dalle ore 06:00, dopo aver effettuato l’ennesimo controllo totale del veicolo si era messo al volante per ordine del padre. Formatosi un corteo di macchine, con Galatolo che aveva sollevato la saracinesca la Fiat 126 era uscita scortata da Madonia davanti e Calogero Ganci in un’auto dietro mentre Raffaele Ganci si era separato avviandosi verso l’abitazione del Giudice per iniziare la sequenza di ronde. Il corteo delle auto, partito dalla Fiera del Mediterraneo e con l’obiettivo di arrivare a destinazione prima delle ore 07:00, ovvero prima che la portineria dello stabile aprisse, era arrivato in via Federico Pipitone con una sosta temporanea nella traversa prima dell’edificio dove Brusca era sceso, aveva aperto il cofano, aveva liberato il detonatore dalla protezione e infilato, aiutandosi con una stecca di legno per arrivare più in profondità, nella bocca della bombola annegandolo nell’esplosivo dopo aver tolto il tappo provvisorio di scotch. Con Calogero Ganci che aveva provveduto a spostare una Volkswagen Golf bianca che aveva occupato lo spazio antistante il portone di ingresso dell’abitazione del Consigliere, la 126 era entrata, in posizione orizzontale andando a parcheggiarsi non proprio dinnanzi al portone ma leggermente verso la sinistra, posteggiata non perfettamente in linea col marciapiede ma un po’ obliquamente e con la parte anteriore rivolta verso il portone curando di essere sistemata sì in posizione orizzontale rispetto al marciapiede ma di lasciare uno spazio di passaggio per le persone in direzione della parte anteriore del mezzo, soffermandosi poi all’interno del mezzo per tre minuti, utilizzati per effettuare gli ultimi collegamenti. Dopo aver stretto i morsetti delle batterie ai due circuiti, quello del motorino e quello dell’innesco, rimosso il dispositivo di sicurezza sui chiodi, chiuso la scatola della ricevente prima di nasconderla sotto i sedili preoccupandosi di occultare bene i cavi sotto il tappetino del passeggero e sotto il cruscotto, Brusca aveva tolto l’antenna scoprendola per 5 centimetri fuori dall’auto per poi uscire richiudendo lo sportello, appoggiandolo, senza sbatterlo. Avuto cura di eliminare eventuali impronte passando una pezzuola sullo sportello e sulla maniglia, si era allontanato verso la Chiesa di San Michele per salire sull’auto di Ganci che lo aveva accompagnato verso la via Libertà dove aveva cambiato auto salendo su quella di Madonia che nel frattempo era salito a bordo di quella pulita per spostarsi e cambiare mezzo. Anzelmo, che nel frattempo si era mosso per la zona dell’attentato per aggiungersi alla squadre che stavano facendo le ronde, aveva incrociato Brusca sull’auto di Madonia, un certo Pino Greco e Vincenzo Puccio a bordo di una Simca Talbot, Enzo Galatolo a bordo di una Lancia Betà coupè e Giovan Battista Ferrante, uomo di onore della famiglia di San Lorenzo, autotrasportatore e titolare di una impresa individuale, che reclutato da Giuseppe Giacomo Gambino solo il giorno prima, si trova a bordo di un camion modello Fiat Leoncino ribaltabile. Il camion recava sul cassone fusti in lamiera contenenti calce e dei materiale per l’edilizia. Il mezzo era arrivato in città scortato da Gambino e su cui aveva preso posto sul sedile del passeggero, dopo aver abbandonato la Golf in un parcheggio poco distante, Antonino Madonia, vestito da muratore, con canottiera e pantaloncini corti, che teneva il telecomando avvolto in carta di giornale e infilato in una busta di plastica. Il camion, condotto da Ferrante e seguito da Raffaele Ganci e Gambino, si stava parcheggiando, con direzione Via Libertà-Chiesa di San Michele, all’angolo con la via Pirandello, vicino ad una pasticceria, alla distanza di circa 150 metri dall’autobomba, sul lato opposto, accostato ad un’impalcatura e leggermente distaccato rispetto al marciapiede mentre Anzelmo, Calogero Ganci, Raffaele Ganci, Gambino e lo stesso Anzelmo, una volta terminati gli ultimi giri di perlustrazione si sarebbero posizionati sulla parte più alta della gradinata della chiesa di San Michele, distante circa 270 metri dalla Fiat 126. Sono le ore 07:56, uscito dalla cabina del camion e montato sul cassone con in mano il sacchetto di plastica è nascosto dietro alcune assi in legno. Al civico 59 la portineria è aperta e poco più avanti, a qualche centinaio di metri, una squadra di agenti è ferma lì davanti. L’apparato di sicurezza predisposto per gli spostamenti del Giudice Chinnici è costituito dall’autovettura blindata del Ministero della Giustizia condotta dall’autista, addetto al trasporto del Magistrato e della persona deputata alla sua tutela, diversa a seconda della turnazione, e da una seconda auto su cui viaggia la scorta composta oltre che dall’autista, dal caposcorta e da un altro agente dell’Arma dei Carabinieri. Quasi ogni giorno, a richiesta del caposcorta, viene anche fornito l’ausilio di una terza macchina, una Alfa Romeo Alfetta del Nucleo Radiomobile dei Carabinieri il cui equipaggio ha il compito di bloccare il traffico, nei momenti immediatamente precedenti l’uscita dall’abitazione del Giudice, all’incrocio di via Pipitone con la via Prati, la più vicina alla portineria verso via Libertà. L’auto blindata viene solitamente parcheggiata in posizione vicina all’ingresso dello stabile in modo che il Magistrato debba percorrere soltanto qualche metro a piedi prima di salire, il più presto possibile, sull’auto che viene fatta trovare già con gli sportelli aperti per essere poi scortata sino al Palazzo di Giustizia. Questa mattina, così come del resto avviene quotidianamente, l’autovettura blindata guidata dall’autista giudiziario Giovanni Paparcuri e con a bordo l’addetto alla tutela l’Appuntato Salvatore Bartolotta è posizionata al centro della strada, proprio nello spazio antistante portone d’ingresso, con gli sportelli anteriori e posteriori sul lato destro entrambi aperti, in attesa che il Consigliere Chinnici scenda e preda posto sul sedile posteriore con Bartolotta che occuperà quello anteriore. L’autovettura di scorta, una Alfa Romeo Alfa Sud questa mattina guidata da Cesare Calvo, effettivo alla Sezione di Polizia Giudiziaria di Palermo come addetto al servizio scorte, e con a bordo l’Appuntato Alfonso Amato e il caposcorta il Maresciallo Mario Trapassi, Carabinieri in servizio alla Polizia Giudiziaria di Palermo, si è collocata all’altezza di via di Villa Sperlinga per bloccare il traffico veicolare che sopraggiunge da quella via. Amato è posizionato all’esterno dell’autovettura davanti ad essa mentre Calvo è in piedi dietro all’auto. L’altra Alfetta di appoggio, la “Gazzella 1800”, che non è ancora arrivata e con a bordo il personale di turno composto dai Marescialli del Nucleo Radiomobile di Palermo Antonino Lo Nigro e Ignazio Pecoraro, si fermerà invece all’altezza di via Prati. Quando Paparcuri è arrivato a bordo dell’auto blindata, verso le ore 07:55, Bartolotta si trovava già dinanzi alla abitazione del Giudice, in piedi davanti alla Fiat 126, l’Alfa Sud, anch’essa arrivata prima, era invece all’altezza di via di Villa Sperlinga con a bordo Calvo, Trapassi e Amato, con la parte anteriore rivolta verso la chiesa di San Michele, lì dopo aver preso un caffè alla Pasticceria Lombardo all’angolo fra la via Pipitone e la via Pirandello. Sono le ore 08:05 ed ecco che l’Alfa Romeo Alfetta arriva da dietro la via andando immediatamente a prendere posizione, ad una distanza di 20 metri. Paparcuri scende dall’auto, si sposta davanti alla 126 con in mano il giornale per leggere sbrigativamente qualche riga quando Bartolotta gli chiede di prendere la ricetrasmittente nella vettura di scorta e di portarla in quella blindata per poi restarci all’interno, in attesa. Cesare Calvo è vicino all’autista, spalle al portone che tiene d’occhio il collega poco distante e controlla l’altro incrocio per eventualmente fermare qualche macchina aiutandosi con l’Alfetta a monte. È il momento, Trapassi si avvicina alla portineria, sul lato destro del portone e con Bartolotta che si sposta subito sul lato sinistro in direzione dell’Alfetta gli fa cenno che il Consigliere sta scendendo, sono le ore 08:10. Tutti si mettono in all’erta, armi in pugno e occhi puntati in tutte le direzioni. Chinnici esce dall’ascensore, si sentono i passi nell’androne. Calvo, spalle alla macchina e con la schiena poggiata sulla carrozzeria in modo da sentire lo sportello chiudersi e dare il via alla partenza è concentrato sui tetti dei palazzi. Il Giudice, trattenutosi qualche secondo a parlare col portiere varca la soglia del portone con passo svelto in direzione dell’Alfetta 2000 blindata facendo un cenno di saluto ai membri della scorta che lo attendono. Il percorso obbligato studiato dal gruppo di fuoco di Cosa Nostra ha funzionato, Chinnici passa accanto alla Fiat 126 verde oliva del 1977, in quella strettoia obbligata, quel patibolo che da 150 metri stavano aspettando che venisse attraversato. Dal semirimorchio ribaltabile del Fiat Leoncino parcheggiato all’angolo con la via Pirandello il dito di Madonia, l’esecutore materiale il 30 aprile dell’anno scorso dell’omicidio del Segretario Regionale del Partito Comunista Italiano e parlamentare Pio La Torre e del suo collaboratore Rosario di Salvo, spinge la leva del telecomando verso destra. All’interno della 126, sotto il sedile del passeggero la centralina riceve il segnale attivando il motorino al suo interno che muove un chiodo verso l’altro chiudendo la linea. Le batterie del secondo circuito scaricano la corrente sulla linea di tiro attraversando come un fulmine l’abitacolo entrando nel baule portabagagli fino al detonatore nella bombola annegato nell’esplosivo. All’interno dei bossoli in alluminio il ponticello si arroventa al passaggio dell’elettricità incendiando la sostanza infiammabile che innesca la carica di Azoturo di Piombo e di conseguenza la Pentrite. Con una velocissima reazione a catena il detonatore si innesca attivando la carica del primo involucro metallico e quindi del secondo. Col sistema esplosivo ad alto contenuto energetico i gas prodotti dalla reazione, a causa delle altissime temperature raggiunte nell'esplosione, occupano volumi enormemente superiori a quelli corrispondenti alla sostanza di partenza e quindi, considerando che la velocità di detonazione aumenta se la carica di esplosivo è confinata entro un materiale resistente anziché essere libera nell'aria, quella quantità di esplosivo, detonando racchiusa in quell’ambiente ristretto, in una reazione esotermica più completa i gas provocano sulle pareti una pressione istantanea ed elevatissima che ne moltiplica gli effetti. Con una velocità di oltre 6 chilometri al secondo l’Amatolo detona disintegrando l’auto e quello che le sta vicino. I vetri dello stabile esplodono, un terzo della via Pipitone va in pezzi mentre un tuono sveglia la città. Due figure, ancora in pigiama e senza neanche affacciarsi al balcone scendono precipitosamente dal terzo piano giù per le scale ritrovandosi in pochi secondi catapultati in strada correndo per inerzia dietro quel boato terrificante. Il tempo e lo spazio, per Giovanni ed Elvira, 24 e 19 anni, si fermano. Nella via l’aria calda è irrespirabile, l’atmosfera rarefatta, surreale. Una gigantesca coltre di fumo, di polvere e gas avvolge tutto: la scala, l’androne, il palazzo, la loro casa. In strada, dove non ci sono più l’asfalto, i marciapiedi, le auto parcheggiate, quelle che di solito cominciano a transitare, i pedoni che camminano, è tutto informe, tutto è fuso assieme. Al centro c’è un cratere largo 70 centimetri e profondo 15 e tutto intorno, un groviglio di lamiere, calcinacci, vetri, macerie, pezzi di cose indefinite, gli fanno da cornice. Dentro questo inferno, dove qualcuno è stato dilaniato o sta esalando l’ultimo respiro e altri miracolosamente scampano alla morte, c’è il Giudice Rocco Chinnici, il loro padre. 200 metri più lontano il camion è ripartito, ha imboccato una traversa per consentire a Madonia di scendere e saltare a bordo della sua auto guidata da Brusca. Giovanni ed Elvira invece sono vicino al cratere, il Punto Zero, attoniti si guardano attorno. Ci sono fiamme, fumo, non si vede niente, è da lì che si è scatenato l’inferno. Sono attoniti, annichiliti, sono soli in questo scenario di morte, soli per un tempo che sembra loro infinito. È agghiacciante, quasi da far richiamare alla mente le devastanti immagini della città di Beirut: vetri in frantumi, persone morte e ferite distese a terra, l’androne dello stabile con l’annesso servizio di portineria praticamente distrutto, infissi scardinati, saracinesche di negozi accartocciate e divelte, lamiere, schegge di vario tipo. Una Fiat 127, una 500, una 850, una Lancia, una Mini 90 e una Jaguar sono distrutte, in fiamme, alcune sono rivoltate mentre ad altre mancano dei pezzi, frammenti di carrozzeria che sono sparsi per metri e che hanno, fra l’altro, gravemente danneggiato le strutture in laterizio delle abitazioni circostanti. L’asfalto presenta un grosso avvallamento con la formazione di una depressione nella parte sottostante il marciapiede. Sul tratto della via in direzione della saracinesca contrassegnata con il civico 57, a circa cinque metri dalla buca e a 4,40 metri dal prospetto dell’immobile contrassegnato con il numero 59, ci sono i resti dell'autobomba. Dell'auto è rimasta solo la parte posteriore sbalzata all'indietro e, precisamente, il pezzo di scocca che sorreggeva le ruote posteriori ed il motore. Il resto del mezzo, rivolto verso la saracinesca al numero 57, è stato disintegrato e proiettato a 5 metri di distanza. Numerosi frammenti di lamiere e di parti meccaniche della Fiat 126 sono sul marciapiede davanti alla saracinesca fra i civici 66 e 70, oltre che sul piano attico al sesto piano. La potenza della detonazione è stata devastante al punto che il tettuccio dell’auto è stato proiettato all’interno di un pozzo luce del condominio di via Villa Sperlinga numero 21, alto ben 26 metri, situato a 12 metri dallo stabile dove abitava il Giudice, mentre una pioggia di schegge strappate dalle auto parcheggiate ha crivellato le facciate degli edifici circostanti, anche a notevole distanza. I due ragazzi sono sotto shock, più si guardano attorno e più prendono coscienza di ciò che è realmente successo: per chi al momento della detonazione si è trovato all’esterno e nell’immediato raggio di azione della bomba non vi è stata nessuna via di scampo. Sul marciapiede compreso tra lo stipite sinistro del civico 59 e quello destro del civico 61, c’è il cadavere del Giudice, ha i vestiti lacerati su tutto il corpo, la testa in direzione dello stipite sinistro del civico 61 e i piedi rivolti verso la depressione dell’asfalto, il volto è sfigurato da uno squarcio che ne deforma completamente i lineamenti. Accanto al cadavere c’è un piccolo albero su cui sono andati a incastrarsi i pezzi bruciacchiati degli abiti. A pochi centimetri c’è la sua borsa di cuoio piena di documenti. Le lastre di marmo che ricoprono il muro davanti sono coperte di sangue sino all’altezza di 2 metri e mezzo con intensità decrescente dal basso verso l’alto e col quadrante inferiore destro completamente ricoperto. La visione è atroce. Sul tratto di asfalto a monte della depressione, a distanza di circa 4,5 metri e a un metro dal bordo del marciapiede c’è il cadavere dell’Appuntato Salvatore Bartolotta. È parzialmente mutilato, con la testa rivolta verso lo stipite sinistro del civico 61, i piedi rivolti verso la parte opposta e con sotto il corpo la pistola calibro 9 parabellum in dotazione. Nella adiacente via di Villa Sperlinga, sul tratto di marciapiede compreso fra i numeri 23 e 25, c’è il corpo esanime di Stefano Li Sacchi, portiere dello stabile dove viveva il Magistrato, portato lì da alcuni parenti nell’intento di soccorrerlo e che giace supino con la testa rivolta verso via Pipitone e i piedi in direzione della strada opposta. All’interno dell’androne si trova il cadavere del capo-scorta, il Maresciallo Trapassi. Il suo corpo giace supino con la testa rivolta verso la soglia d’ingresso, parzialmente mutilato, con l’arto inferiore tranciato in prossimità dell’inguine e scivolato a 30 centimetri di distanza. Sul marciapiede, a circa 40 centimetri dal portone c’è la sua pistola. 19 persone sono ferite, sorprese dall’esplosione in strada e nelle abitazioni più vicine. I Carabinieri Lo Nigro, Amato, Calvo e Pecoraro, i componenti dell’equipaggio del Nucleo Radiomobile di rinforzo alla scorta, sono miracolosamente scampati all’agguato, l’onda d’urto, che si è propagata per 150 metri, li ha solo sfiorati proseguendo la sua corsa dopo avere impattato sull’Alfetta 2000 blindata del Consigliere Istruttore a bordo della quale si trovava, in attesa dell’arrivo del Giudice, l’autista giudiziario Paparcuri. La forza dell’onda di pressione ha piegato verso l’interno la carrozzeria che ne ha assorbito parzialmente la furia ma investendolo e mandandolo in coma. Con questo gesto, Cosa Nostra inizia a passare ad un livello successivo, quello in cui si crede invincibile e padrona del mondo.

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