TIPOLOGIA: attentato
CAUSE: autobomba
DATA: 29 luglio 1983
STATO: Italia
LUOGO: Palermo, via Federico
Giuseppe Pipitone
MORTI: 4
FERITI: 29
Analisi e ricostruzione a cura di Luigi Sistu
Sono le ore 08:03 di venerdì 29 luglio 1983 e in via Federico Giuseppe
Pipitone, nella Palermo residenziale nata dall’espansione edilizia dissennata e
abnorme degli anni Sessanta-Settanta, è tutto tranquillo, o almeno
apparentemente. Non troppo distante, qualcuno nascosto sul rimorchio di un
camion ribaltabile ha gli occhi puntati su un palazzo da dove tra pochi minuti
il Giudice Rocco Chinnici scenderà le scale, si tratterrà qualche secondo
nell’androne dello stabile con il portiere e varcherà il portone in direzione
dell’Alfetta 2000 che lo aspetterà fuori con lo sportello aperto per accompagnarlo
al Palazzo di Giustizia. Nel percorso, tra il portone e la blindata, c’è
un’automobile, è di piccole dimensioni, è anonima, è una Fiat 126 verde oliva
del 1977 ed è parcheggiata lì apposta per lui. Quel qualcuno non molto lontano,
vestito da muratore e accucciato tra latte di calce e travi di legno si chiama
Antonino Madonia, ha in mano un telecomando e un dito su una leva. Fondatore
del Pool Antimafia assieme ai Giudici Giovanni Falcone, Giuseppe Di Lello,
Antonio Caponnetto e Paolo Borsellino, Chinnici è alla direzione dell’Ufficio
Istruzione del Tribunale di Palermo, incarico affidatogli a seguito
dell’omicidio del Dottor Cesare Terranova, particolarmente distintosi per la
tenacia dimostrata nella lotta al fenomeno mafioso soprattutto nella
organizzazione imperante tra gli anni 1960 e 1970 ai cui vertici si trovava pro
tempore Luciano Leggio. Raccogliendone professionalmente l’eredità spirituale,
continuando l’attività giudiziaria con lo stesso impegno profuso dal suo predecessore,
era diventato un bersaglio. Le risultanze processuali acclaravano, infatti, che
sotto la sua gestione le istruttorie concernenti i più gravi fatti criminosi
verificatisi a Palermo negli ultimi anni avevano ricevuto un incalzante e
decisivo impulso tradottosi in concreti risultati, fra cui la emissione di
numerose ordinanze di rinvii a giudizio adottate addirittura in difformità
delle richieste di proscioglimento avanzate dalla Procura, di numerosi mandati
di cattura a carico di alcuni personaggi di spicco di Cosa Nostra, fra cui
quelli nei confronti degli esponenti di vertice, Salvatore Riina e Bernardo
Provenzano, capi mandamento di Corleone, e Salvatore Montalto, capo mandamento
di Villabate. Ad un significativo salto di qualità delle indagini aveva inoltre
contribuito l’adozione di metodi di lavoro innovativi sia in punto di
organizzazione degli uffici, con la predisposizione di moduli operativi tali da
consentire lo scambio di informazioni tra i titolari dei vari procedimenti, che
in tema di coordinamento delle indagini, mirate a cogliere la connessione fra i
vari fatti delittuosi, solo apparentemente autonomi, ed individuare gli
intrecci ed i collegamenti operativi tra i gruppi che, secondo gli equilibri di
questi tempi, costituiscono i gangli vitali dell’Organizzazione. Associazione
criminale di tipo mafioso Cosa Nostra è nata in Sicilia nel 19° secolo e si è
sviluppata esponenzialmente dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
Strutturata gerarchicamente, nota in tutto il mondo per gli attentati, gli
omicidi esemplari e la violenza diretta contro lo Stato italiano con
l’eliminazione di uomini politici, poliziotti e magistrati, mantiene il
controllo su numerose attività economiche e politiche regionali ed
extraregionali per mezzo di reti di fiancheggiatori e dell’inserimento di
propri capitali nel settore dei pubblici appalti, della sanità e del turismo,
penetrando perfino nei settori della grande distribuzione alimentare, dei
mercati ortofrutticoli, nelle attività edili e in quelle di tipo
economico-finanziario. L’Organizzazione è divisa in “Famiglie”, ciascuna con un
capo, il “rappresentante”, eletto da tutti gli “uomini d’onore” e assistito da
un vice-capo e uno o più consiglieri. Tre Famiglie, ognuna organizzata in
"'decine" composte da dieci uomini d'onore, i "soldati",
coordinati da un "capodecina", costituiscono un
"mandamento", la zona di influenza, gestito dal “capo mandamento”
anch'esso eletto e che fa parte della "Commissione Provinciale", il
massimo organismo dirigente di Cosa Nostra nella provincia, organismo che
prende le decisioni più importanti, risolve i contrasti tra le famiglie,
espelle gli uomini inaffidabili, controlla tutti gli omicidi, inferiore in
quanto a potere soltanto a quella "Regionale". Corruzione e riciclaggio
sono il volano che ha permesso a Cosa Nostra di radicarsi, anno dopo anno,
sempre di più nel territorio accrescendo il proprio potere in maniera
spropositata. In due riunioni collegiali quasi plenarie, una a maggio e una a
giugno, presiedute dal 63enne supercapo di Cosa Nostra Salvatore Riina, dove
aveva riunito la Commissione Provinciale in Contrada D’ammusi e a Piano
dell’Occhio, nel comune di Monreale, non solo era stata deliberata la sentenza
di morte, ma erano anche state definite le parti coinvolte nella fase
esecutiva, questa affidata a uomini d’onore appartenenti a più mandamenti,
quello di Resuttana, quello della Noce, Ciaculli, Corleone e San Giuseppe Jato.
Per l’esecuzione, un agguato mediante metodi tradizionali, armi da fuoco di
grosso calibro, si era pensato inizialmente alla casa di campagna del Giudice,
a Salemi, nel trapanese, luogo apparentemente perfetto in cui il dottor
Chinnici possiede una villetta ove è solito trascorrere parte del periodo estivo.
Si tratta di un’abitazione a due livelli, un piano terra e primo piano in una località
relativamente distante dalla strada pubblica, circa 300 metri, ubicata
all’interno di un fondo arretrato rispetto ad essa. Mentre la sua famiglia
solitamente ci soggiorna dai primi di agosto trattenendovisi anche per gran parte
del mese di settembre, il Giudice, passato agosto in settembre si limita a qualche
giorno oltre a saltuarie domeniche nel periodo della vendemmia. Scartata
praticamente subito l’ipotesi di colpire Chinnici nella casa di campagna perché
la presenza del presidio fisso di sorveglianza dei Carabinieri e le
labirintiche stradine di campagna avrebbero reso complicato il lavoro del
commando sia durante l’attacco che nella fuga, si era optato per un agguato
davanti all’abitazione di residenza, sempre con metodi tradizionali. Per questo
motivo erano state fatte delle prove di sfondamento di un vetro blindato
montato su un telaio e testato da Antonino Madonia, secondogenito del boss
Francesco Madonia, capo storico del mandamento di Resuttana, e Giovanni
Brusca e Baldassare Di Maggio, entrambi della famiglia di San Giuseppe Jato, con
un primo tentativo a distanza media utilizzando un fucile d’assalto sovietico
AKM, automatico e di calibro 7,62 millimetri, presso una cava abusiva di
proprietà della famiglia di quest’ultimo sita in San Giuseppe Jato, e con un
secondo tentativo da parte di Bernardo Brusca, il padre di Giovanni, a distanza
ravvicinata con un fucile semiautomatico in calibro 12, a contrada
Dammusi, entrambi con esito positivo. L’apparato di sicurezza predisposto per
la tutela di Chinnici però, organizzato in modo tale da impedire, di fatto, un
avvicinamento del Giudice, avrebbe certamente reso pericoloso, se non
temerario, predisporre un agguato con questa modalità. Anche se l’affidabilità
del fucile d’assalto era già stata testata con successo il 3 settembre
dell’anno scorso quando una sventagliata di colpi avevano crivellato
l’Autobianchi A112 beige con a bordo il Prefetto di Palermo, il Generale dei
Carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa e la moglie Emanuela Setti Carraro, e
l’Alfa Romeo Alfetta dell’agente di scorta della Polizia Domenico Russo,
l’inevitabilità di un conflitto a fuoco con gli addetti alla tutela del
Magistrato, copertura approntata ogni mattina, avrebbe reso molto difficile
tentare una sortita, armi in pugno, per cogliere di sorpresa la scorta,
uccidendo l’obiettivo. A seguito degli opportuni pedinamenti e dei controlli
effettuati era stato deciso di mutare il progetto adottando una forma più
eclatante e invasiva che avrebbe sortito un effetto intimidatorio anche più
efficace: una bomba. Madonia si era ispirato, per la sua proposta ai vertici
della Commissione, a fatti avvenuti nella questione napoletana dove Vincenzo Casillo,
luogotenente di Raffaele Cutolo, capo della Nuova Camorra Organizzata,
un’organizzazione criminale di stampo camorristico creata da lui stesso negli
anni ’70 in Campania, nonché tra le figure criminali più potenti e controverse
operanti nella seconda metà del XX secolo, era saltato in aria con una
autobomba mentre si trovava latitante a Roma. Di lì era nata quindi l’esigenza
di privilegiare modalità esecutive differenti e, dato che attualmente non
esiste una zona rimozione davanti all’abitazione del Giudice, il sistema più
idoneo ad assicurare una buona riuscita dell’agguato sarebbe stato effettivamente
quello della collocazione di un congegno esplosivo da azionare a mezzo di un
telecomando, a vista e non a orologeria, in quanto, pur essendo accertato che
Magistrato sia notoriamente abitudinario, scendendo dalla sua abitazione ogni
mattina per recarsi al lavoro verso le ore 8.00, non si sarebbe certo mai
potuto prevedere il momento esatto in cui sarebbe uscito da casa. La
realizzazione di questo piano avrebbe previsto anch’esso dei margini di
aleatorietà in quanto il buon esito sarebbe potuto essere assicurato solo con
il passaggio del Giudice, mentre si trovava ancora fuori dell’auto blindata, e
dunque nel momento di sua massima vulnerabilità, nel punto più vicino alla
bomba. L’attentato sarebbe stato il frutto di un meditato programma operativo
che avrebbe attentamente valutato tutti questi aspetti con la sistemazione di
questa in un’auto, anche di piccole dimensioni, e quest’ultima in una posizione
davvero strategica con la creazione di un punto di passaggio obbligato proprio
dinanzi ad essa, al suo cofano, unitamente alla predisposizione di uno spazio
che avrebbe consentito alla blindata d’ordinanza di parcheggiarle proprio il
più vicino possibile. Di qui la assoluta esigenza, per gli organizzatori, di “conquistare“
un posto macchina più ampio rispetto a quello necessario per il parcheggio
della piccola utilitaria destinata all’esplosione per poter disporre, al
momento del suo posizionamento, di margini di manovra più ampi e poter creare
un varco obbligato di transito pedonale proprio dinanzi al portone di casa
Chinnici. L’operazione così descritta avrebbe richiesto dunque, preliminarmente
ad ogni altra attività, la indispensabile occupazione del posto macchina
proprio dinanzi al portone, con l’ulteriore accorgimento sopra descritto, onde
reperire un parcheggio più ampio a quello necessario per una piccola
utilitaria. Con questo progetto, approvato da Riina e di conseguenza da
Bernardo Brusca, l’ordine di progettare l’ordigno e reperirne i materiali per
la realizzazione era stato dato al figlio. Questo si era immediatamente mosso
facendo richiesta a Baldassare Di Maggio di procurargli una bombola di gas tagliandone
la superficie all’altezza della saldatura e di creare una cerniera al fine di richiuderla
in maniera ermetica, e di preparargli anche una cassetta in ferro. Mentre la
prima non era stata mai materialmente ritirata per motivi di ingombro, la
scatola era stata invece prelevata una settimana prima del 29. Per il lavoro Di
Maggio si era servito del cugino, tale Salvatore Prestigiacomo, che nella sua
officina si occupa delle saldature, facendogli assemblare la cassetta metallica
con un foro su di un lato del diametro di almeno 10 centimetri. Per quanto
riguarda l’esplosivo e gli inneschi avevano deciso di utilizzare ogni aggancio
possibile, avanzando la richiesta ad un parente di Brusca, Franco Piedescalzi,
fochino presso la cava di sabbia INCO di Roccamena-Camporeale, nel territorio
di Roccamena, nel Belice, di proprietà di Giuseppe Modesto, un imprenditore molto
vicino a Brusca e persona a disposizione già da tempo dell’organizzazione
mafiosa, che aveva provveduto a consegnaglielo personalmente. L’esplosivo, che
assieme a due detonatori era stato trasportato in due sacchi in juta sintetica,
è di tipo granuloso, pulvirulento, di colore bianco scuro tendente al giallo.
Del peso di 30 chilogrammi per sacco si tratta di un Amatolo per uso civile,
una miscela esplosiva creata durante la Prima Guerra Mondiale dalle forze
armate britanniche e costituita in questo caso da 78% in peso di Nitrato
d'Ammonio e 21% in peso di Trinitrotoluene e un 1% di additivi e
confezionato in sacchi dal produttore. Mentre il primo è un fertilizzante, scoperto
come prodotto esplodente dal chimico e ingegnere svedese Alfred Nobel nel 1870
e chiamato “nitrum flammans” per via del colore giallo della sua fiamma da Johann
Rudolph Glauber, chimico e farmacista tedesco considerato uno dei fondatori
della chimica industriale moderna e precursore dell’ingegneria chimica che lo
aveva preparato e descritto nel 1659, il secondo è un esplosivo preparato la
prima volta nel 1863 dal chimico tedesco Julius Wilbrand, perfezionato nel 1888
dal chimico tedesco Hermann Frantz Moritz Kopp e prodotto industrialmente in
Germania un anno dopo col nome di Tritolo o Tnt. I detonatori, di tipo
elettrico, necessari all’avvio di questa particolare miscela, sono degli
artifizi esplosivi primari versione moderne di quello elettrico inventato nel
1876 da Julius Smith. All’interno dell’involucro d’alluminio, un piccolo
tubicino cilindrico, contengono una piccola quantità di esplosivo secondario,
la Pentrite, uno degli esplosivi più potenti preparata per la prima volta nel
1891 dal chimico tedesco Bernhard Tollens, innescata a sua volta da pochissimo
esplosivo primario, l’Azoturo di Piombo, preparato dalla Curtis's and Harvey
Ltd Explosives Factory nel 1890, e da una miscela incendiaria che lo avrebbe
acceso tramite un ponticello diventato incandescente dal passaggio di una
corrente elettrica generata da una o più batterie collegate ad una centralina
ricevente. Di questa come dell’apparecchio trasmittente se ne era occupato Madonia.
La ricevente, completamente artigianale, era combinata in una cassetta, una
scatola di legno di forma rettangolare larga 15 centimetri e alta 10 dove sulla
base era stato imbullonato un motorino elettrico per modellismo dinamico, quello
classico per la movimentazione dello sterzo delle automobili, che faceva girare
una levetta con fissato ad essa un chiodo che una volta mosso, ruotando di 90
gradi andava a fare contatto con un secondo chiodo a chiudere un circuito elettrico
parallelo costituito da un cavo più lungo, la linea di tiro posta esterna alla
scatola, che una volta collegata al detonatore, la capsula di innesco, gli
avrebbe dato corrente. Le batterie, due serie da 1,5 Volt, necessarie sia per il
funzionamento del motorino sia per l’alimentazione del detonatore i cui
circuiti avrebbero lavorato separatamente, erano state nastrate accanto mentre
l’antenna, che non era altro che un filo sottilissimo di colore nero, si
sarebbero preoccupati di farla fuoriuscire dallo sportello dell’auto all’ultimo
momento fissandola in qualche modo alla carrozzeria. Predisposto il congegno, per
cui, anche se amatoriale e moderatamente complesso, non erano state necessarie
particolari capacità tecniche ma era stata sufficiente una media cultura elettronica
ed elettrotecnica, avevano pensato all’apparato trasmittente: il radiocomando.
Di medie dimensioni e di colore scuro, anche esso utilizzato nel modellismo, era
un GIG NIKKO “r/c systems full function” modello del 1980, facilmente
reperibile in un qualsiasi negozio di giocattoli, dotato di antenna telescopica
in metallo e munito della doppia leva ognuna con due gradi di libertà, su-giù e
sinistra-destra. Per verificarne il corretto funzionamento erano state
necessarie delle prove, effettuate a Contrada Dammusi in presenza di Giovanni
Brusca, Antonino Madonia, Raffaele Ganci, capo del mandamento di Della Noce, e
Giuseppe Giacomo Gambino, capo della Famiglia di San Lorenzo facente parte del
mandamento guidato da Rosario Riccobono, membro attivo della Commissione.
Madonia, dopo essersi allontanato assieme a Salvatore Lazio, della Famiglia di
San Giuseppe Jato, ponendosi a 300 metri di distanza quasi a ridosso con la
proprietà limitrofa Campione, aveva mosso la leva del radiocomando mentre i
Brusca, Gambino e Ganci avevano constatato che il detonatore, uno dei due
recuperati da Piediscalzi e collegato alla ricevente tramite un cavo lungo 25
metri, fosse esploso correttamente a seguito dell’impulso proveniente dalla
trasmittente. L’esigenza di recuperare un’auto in modo da occupare il minor
posto possibile nel parcheggio affinché il Giudice avesse il percorso obbligato
accanto ad essa per raggiungere la blindata che lo avrebbe atteso in strada,
aveva fatto sì che gli organizzatori si mettessero alla ricerca di un’auto di
piccole dimensioni. La scelta era caduta sulle Fiat 500 e sulle Fiat 126, molto
comuni e abbastanza semplici da rubare. Calogero Ganci, figlio di Raffaele
Ganci, era stato incaricato qualche settimana prima del giorno della
consumazione della strage, sia dal padre che da Gambino, di mettersi a
disposizione di Madonia e di provvedere a reperirgliela. Dopo questo colloquio,
avvenuto nella macelleria di via Lancia di Brolo gestita assieme al fratello
Stefano, alla presenza del terzo fratello Domenico, del padre, nonché del
cugino Francesco Paolo Anzelmo, Calogero aveva contattato Madonia che lo aveva
accompagnato dinanzi all’abitazione del Giudice dandogli disposizione di tenere
occupato costantemente con un’autovettura “pulita“ lo spazio antistante la
portineria dello stabile di via Pipitone impegnata già quello stesso giorno da
una delle sue e che era stata subito spostata dando inizio alla sequenza di
scambi che sarebbe durato per 10 giorni, fino al 28, giorno in cui con lo
scambio finale, l’auto designata per Chinnici avrebbe trovato posto. Gli
scambi, che sarebbero avvenuti almeno due-tre volte al giorno per evitare che
vi sostasse troppo tempo la stessa auto, sarebbero dovuti avvenire ad orari
diversi in modo da non insospettire sia il portiere dello stabile che gli
addetti al servizio di scorta che giornalmente vanno a prelevare a casa il
Consigliere Istruttore. All’alternanza del parcheggio delle autovetture,
affidata alla famiglia Ganci, vi avrebbero provveduto i componenti della
Famiglia Della Noce, oltre a Calogero e al cugino Anzelmo, anche i suoi
fratelli Domenico e Stefano ed il padre Raffaele. Mentre da quel momento si
erano messi alla ricerca della macchina da rubare, nei giorni successivi, dopo
avere tentato invano di posteggiare una delle loro macchine davanti al civico
59, poichè gli spazi erano sempre occupati da altre autovetture, Calogero Ganci
era riuscito ad ottenerlo con uno stratagemma: aveva telefonato al numero
indicato sul fianco del furgone di una ditta di trasporti con sede in una
traversa di via Pipitone che in quel momento si trovava posteggiato proprio nel
luogo per loro ottimale, richiedendo il trasporto di una lavatrice da prelevare
presso il negozio “Migliore” sito vicino alla Stazione Notarbartolo. La donna
con cui aveva parlato al telefono aveva approvato il trasporto tanto che dopo
pochi minuti il furgone era stato effettivamente spostato dando la possibilità
a Raffaele Ganci di posizionare una propria autovettura nel posto rimasto
libero, raccomandandosi di continuare ad occupare permanentemente lo spazio
antistante la portineria con un’autovettura a quattro sportelli in modo da riempire
il maggiore spazio possibile, ciò per potere poi al momento della sostituzione
con l’autobomba lasciare davanti a quest’ultima uno spazio idoneo al fine di consentire
il passaggio del Consigliere. Nel frattempo, dopo 8 giorni di ricerca dell’”auto
perfetta” l’occasione si era finalmente presentata: una Fiat 126 del 1977. Color
verde bottiglia, coi doppi comandi, sempre aperta e con le chiavi inserite nel
cruscotto era in uso ad un’autoscuola. Con targa PA 372067 e di proprietà di
Andrea Ribaudo, poiché tra una lezione e l’altra incorrevano solitamente pochi
minuti era parcheggiata sempre in doppia fila nella via Mariano Migliaccio, nel
Quartiere Uditore, condizione sufficiente assieme alle chiavi inserite perché Ganci,
il giorno 27 alle ore 11:05, in pochi secondi la portasse via assieme ad
Anzelmo che gli aveva fatto da staffetta. Dopo il furto era stata parcheggiata
per 20 minuti in via Generale Eugenio di Maria, il tempo necessario che un certo
Giuseppe Di Napoli, parente di Raffaele Ganci e proprietario di un’officina da
elettrauto sita in via Damiano Almeida, fosse condotto sul posto per occuparsi dello
smontaggio delle tabelle con la scritta “scuola guida” imbullonate nei paraurti
affinchè, una volta anonimata, fosse consegnata dopo un successivo stallo di
mezza giornata davanti all’abitazione a Fondo Pipitone di Vincenzo Galatolo,
boss dell'Acquasanta, zona nord di Palermo, appartenente al mandamento di
Resuttana, nel pomeriggio ad Antonino Madonia in un garage di via Porretti al
civico 5. Percorsa la traversa di via Ammiraglio Rizzo, procedendo dalla Fiera
del Mediterraneo verso il mare, all’altezza di uno spartitraffico in prossimità
di alcune palme, la 126 aveva svoltato a destra dove dopo una cinquantina di
metri era sparita dietro una saracinesca alla fine di uno scivolo e dove ad
attenderla c’erano una bombola, una scatola di metallo e due sacchi di
esplosivo. Nel garage di via Porretti, nella disponibilità di Madonia quanto di
Vincenzo Galatolo che ne possedevano le chiavi, costituente una indispensabile
base operativa di gran parte delle azioni criminali compiute durante le guerre
di mafia tra cui l’eclatante omicidio del Generale Dalla Chiesa, nel primo
pomeriggio di ieri sono stati eseguiti i preparativi dell’autobomba. Con un
lavoro durato sei ore se ne erano occupati Giovanni Brusca e Antonio Madonia
alla presenza di Vincenzo Galatolo e Paolo Anzelmo. La bombola, diversa da
quella realizzata dal cugino di Baldassare Di Maggio, era più piccola, da 10
chilogrammi, di 65 centimetri d’altezza e 25 di diametro, reperita in un garage
di contrada Dammusi e da cui aveva svitato il rubinetto, bombola scelta
appositamente di queste dimensioni poiché l’unica allocabile nel baule della
126. La scatola di metallo invece era esattamente quella costruita da
Prestigiacomo: lunga 40 centimetri e alta 20 e col foro di entrata del diametro
di 10 centimetri come esplicitamente richiesto, arrivata sul posto assieme alla
bombola e all’esplosivo a bordo di una Volkswagen Golf guidata da Brusca e
scortata da Di Maggio sulla sua Fiat Uno. Dopo aver eliminato i doppi comandi
nell’auto e tolto via la ruota di scorta dal vano portabagagli, Brusca, aiutato
da Di Maggio, aveva prima riempito la bombola di esplosivo aiutandosi con un
imbuto preoccupandosi di compattare la polvere di tanto in tanto in modo da
creare una massa compatta, uniforme, priva di vuoti, riuscendo a farcene stare
32 chilogrammi e chiudendo il foto con una palla di scotch, poi si era occupato
della scatola, collocandovi dentro la rimanenza ben compattata, 16 chilogrammi,
e chiudendola ermeticamente con un tappo a cerniera. La quantità complessiva di
sostanza esplodente, 48 chilogrammi, era stata chiusa negli involucri metallici
poiché i tecnici sapevano bene che conseguentemente all’esplosione gli effetti derivanti
dall’inserimento delle cariche in un contenitore metallico sarebbero stati, essendo
queste intasate, più dirompenti. Questo poiché i gas, riscaldandosi ed
espandendosi rapidamente verso l'esterno avrebbero generato altissima
temperatura e un aumento di pressione tale da superare la resistenza del
rivestimento metallico e imprimendo in questo modo la stessa velocità di
reazione all'involucro. Quella stessa sera, finita la prima parte
dell’allestimento dell’auto, Raffale Ganci, accompagnato da Madonia si era
preoccupato di rubare, da un’altra 126 color amaranto nei pressi di via San
Polo intorno alle tre del mattino, le targhe. Di proprietà di Salvatore Santocito,
titolare di un panifico ubicato in Via Imperatore Federico, targata PA 426847 e
nella disponibilità del figlio Giacomo, era stata parcheggiata da lui quella
stessa sera sotto la propria abitazione in via Vincenzo Fuxa al civico 16 dopo
le ore 23:00. Alle ore 03:00 di ieri notte, presso l’abitazione di Galatolo a
fondo Pipitone, Raffaele Ganci aveva dato appuntamento ad Anzelmo e al figlio
Calogero, dove li aspettavano Madonia e Brusca, per l’ultimo briefing e gli
ultimi test sull’apparato radio ancora da collegare. A questo ci aveva pensato
Brusca che dopo aver verificato l’effettivo funzionamento del radiocomando e
del motorino, si era spostato al garage assieme a Ganci per assemblare la
centralina all’interno dell’auto e rivettare le nuove targhe. Una volta
nastrato il detonatore alla linea di tiro, il cavo collegato al motorino,
l’apparato ricevente era stato sistemato sul lato passeggero, appena sotto il
sedile, col coperchio non ancora fissato, i due pacchi batteria scollegati e
due tubicini di gomma messi a tappo dei chiodi, un meccanismo di sicurezza per
evitare falsi contatti o sorprese premature. I cavi elettrici, ben nascosti
sotto il cruscotto, finivano nel vano portabagagli dove il detonatore, armato
ma ancora separato dalla carica, era stato fissato provvisoriamente con dello
scotch alla carrozzeria e coperto con della gomma al riparo da elettricità
statica che avrebbe potuto innescarlo. Questa mattina del 29, erano tutti
operativi da presto presso Fondo Pipitone e Brusca, chiuso nel garage di via
Porretti dalle ore 06:00, dopo aver effettuato l’ennesimo controllo totale del
veicolo si era messo al volante per ordine del padre. Formatosi un corteo di
macchine, con Galatolo che aveva sollevato la saracinesca la Fiat 126 era
uscita scortata da Madonia davanti e Calogero Ganci in un’auto dietro mentre
Raffaele Ganci si era separato avviandosi verso l’abitazione del Giudice per
iniziare la sequenza di ronde. Il corteo delle auto, partito dalla Fiera del
Mediterraneo e con l’obiettivo di arrivare a destinazione prima delle ore
07:00, ovvero prima che la portineria dello stabile aprisse, era arrivato in
via Federico Pipitone con una sosta temporanea nella traversa prima
dell’edificio dove Brusca era sceso, aveva aperto il cofano, aveva liberato il
detonatore dalla protezione e infilato, aiutandosi con una stecca di legno per
arrivare più in profondità, nella bocca della bombola annegandolo
nell’esplosivo dopo aver tolto il tappo provvisorio di scotch. Con Calogero
Ganci che aveva provveduto a spostare una Volkswagen Golf bianca che aveva
occupato lo spazio antistante il portone di ingresso dell’abitazione del
Consigliere, la 126 era entrata, in posizione orizzontale andando a
parcheggiarsi non proprio dinnanzi al portone ma leggermente verso la sinistra,
posteggiata non perfettamente in linea col marciapiede ma un po’ obliquamente e
con la parte anteriore rivolta verso il portone curando di essere sistemata sì in
posizione orizzontale rispetto al marciapiede ma di lasciare uno spazio di
passaggio per le persone in direzione della parte anteriore del mezzo,
soffermandosi poi all’interno del mezzo per tre minuti, utilizzati per effettuare
gli ultimi collegamenti. Dopo aver stretto i morsetti delle batterie ai due
circuiti, quello del motorino e quello dell’innesco, rimosso il dispositivo di
sicurezza sui chiodi, chiuso la scatola della ricevente prima di nasconderla
sotto i sedili preoccupandosi di occultare bene i cavi sotto il tappetino del
passeggero e sotto il cruscotto, Brusca aveva tolto l’antenna scoprendola per 5
centimetri fuori dall’auto per poi uscire richiudendo lo sportello,
appoggiandolo, senza sbatterlo. Avuto cura di eliminare eventuali impronte passando
una pezzuola sullo sportello e sulla maniglia, si era allontanato verso la
Chiesa di San Michele per salire sull’auto di Ganci che lo aveva accompagnato
verso la via Libertà dove aveva cambiato auto salendo su quella di Madonia che
nel frattempo era salito a bordo di quella pulita per spostarsi e cambiare
mezzo. Anzelmo, che nel frattempo si era mosso per la zona dell’attentato per
aggiungersi alla squadre che stavano facendo le ronde, aveva incrociato Brusca
sull’auto di Madonia, un certo Pino Greco e Vincenzo Puccio a bordo di una
Simca Talbot, Enzo Galatolo a bordo di una Lancia Betà coupè e Giovan Battista
Ferrante, uomo di onore della famiglia di San Lorenzo, autotrasportatore e
titolare di una impresa individuale, che reclutato da Giuseppe Giacomo Gambino
solo il giorno prima, si trova a bordo di un camion modello Fiat Leoncino
ribaltabile. Il camion recava sul cassone fusti in lamiera contenenti calce e
dei materiale per l’edilizia. Il mezzo era arrivato in città scortato da
Gambino e su cui aveva preso posto sul sedile del passeggero, dopo aver
abbandonato la Golf in un parcheggio poco distante, Antonino Madonia, vestito
da muratore, con canottiera e pantaloncini corti, che teneva il telecomando
avvolto in carta di giornale e infilato in una busta di plastica. Il camion,
condotto da Ferrante e seguito da Raffaele Ganci e Gambino, si stava parcheggiando,
con direzione Via Libertà-Chiesa di San Michele, all’angolo con la via
Pirandello, vicino ad una pasticceria, alla distanza di circa 150 metri
dall’autobomba, sul lato opposto, accostato ad un’impalcatura e leggermente distaccato
rispetto al marciapiede mentre Anzelmo, Calogero Ganci, Raffaele Ganci, Gambino
e lo stesso Anzelmo, una volta terminati gli ultimi giri di perlustrazione si
sarebbero posizionati sulla parte più alta della gradinata della chiesa di San
Michele, distante circa 270 metri dalla Fiat 126. Sono le ore 07:56, uscito
dalla cabina del camion e montato sul cassone con in mano il sacchetto di
plastica è nascosto dietro alcune assi in legno. Al civico 59 la portineria è aperta
e poco più avanti, a qualche centinaio di metri, una squadra di agenti è ferma
lì davanti. L’apparato di sicurezza predisposto per gli spostamenti del Giudice
Chinnici è costituito dall’autovettura blindata del Ministero della Giustizia
condotta dall’autista, addetto al trasporto del Magistrato e della persona
deputata alla sua tutela, diversa a seconda della turnazione, e da una seconda auto
su cui viaggia la scorta composta oltre che dall’autista, dal caposcorta e da
un altro agente dell’Arma dei Carabinieri. Quasi ogni giorno, a richiesta del
caposcorta, viene anche fornito l’ausilio di una terza macchina, una Alfa Romeo
Alfetta del Nucleo Radiomobile dei Carabinieri il cui equipaggio ha il compito
di bloccare il traffico, nei momenti immediatamente precedenti l’uscita dall’abitazione
del Giudice, all’incrocio di via Pipitone con la via Prati, la più vicina alla
portineria verso via Libertà. L’auto blindata viene solitamente parcheggiata in
posizione vicina all’ingresso dello stabile in modo che il Magistrato debba
percorrere soltanto qualche metro a piedi prima di salire, il più presto
possibile, sull’auto che viene fatta trovare già con gli sportelli aperti per
essere poi scortata sino al Palazzo di Giustizia. Questa mattina, così come del
resto avviene quotidianamente, l’autovettura blindata guidata dall’autista
giudiziario Giovanni Paparcuri e con a bordo l’addetto alla tutela l’Appuntato
Salvatore Bartolotta è posizionata al centro della strada, proprio nello spazio
antistante portone d’ingresso, con gli sportelli anteriori e posteriori sul
lato destro entrambi aperti, in attesa che il Consigliere Chinnici scenda e
preda posto sul sedile posteriore con Bartolotta che occuperà quello anteriore.
L’autovettura di scorta, una Alfa Romeo Alfa Sud questa mattina guidata da Cesare
Calvo, effettivo alla Sezione di Polizia Giudiziaria di Palermo come addetto al
servizio scorte, e con a bordo l’Appuntato Alfonso Amato e il caposcorta il
Maresciallo Mario Trapassi, Carabinieri in servizio alla Polizia Giudiziaria di
Palermo, si è collocata all’altezza di via di Villa Sperlinga per bloccare il
traffico veicolare che sopraggiunge da quella via. Amato è posizionato
all’esterno dell’autovettura davanti ad essa mentre Calvo è in piedi dietro all’auto.
L’altra Alfetta di appoggio, la “Gazzella 1800”, che non è ancora arrivata e
con a bordo il personale di turno composto dai Marescialli del Nucleo
Radiomobile di Palermo Antonino Lo Nigro e Ignazio Pecoraro, si fermerà invece all’altezza
di via Prati. Quando Paparcuri è arrivato a bordo dell’auto blindata, verso le
ore 07:55, Bartolotta si trovava già dinanzi alla abitazione del Giudice, in
piedi davanti alla Fiat 126, l’Alfa Sud, anch’essa arrivata prima, era invece all’altezza
di via di Villa Sperlinga con a bordo Calvo, Trapassi e Amato, con la parte
anteriore rivolta verso la chiesa di San Michele, lì dopo aver preso un caffè alla
Pasticceria Lombardo all’angolo fra la via Pipitone e la via Pirandello. Sono
le ore 08:05 ed ecco che l’Alfa Romeo Alfetta arriva da dietro la via andando
immediatamente a prendere posizione, ad una distanza di 20 metri. Paparcuri
scende dall’auto, si sposta davanti alla 126 con in mano il giornale per
leggere sbrigativamente qualche riga quando Bartolotta gli chiede di prendere
la ricetrasmittente nella vettura di scorta e di portarla in quella blindata
per poi restarci all’interno, in attesa. Cesare Calvo è vicino all’autista, spalle
al portone che tiene d’occhio il collega poco distante e controlla l’altro
incrocio per eventualmente fermare qualche macchina aiutandosi con l’Alfetta a
monte. È il momento, Trapassi si avvicina alla portineria, sul lato destro del
portone e con Bartolotta che si sposta subito sul lato sinistro in direzione
dell’Alfetta gli fa cenno che il Consigliere sta scendendo, sono le ore 08:10.
Tutti si mettono in all’erta, armi in pugno e occhi puntati in tutte le
direzioni. Chinnici esce dall’ascensore, si sentono i passi nell’androne. Calvo,
spalle alla macchina e con la schiena poggiata sulla carrozzeria in modo da
sentire lo sportello chiudersi e dare il via alla partenza è concentrato sui
tetti dei palazzi. Il Giudice, trattenutosi qualche secondo a parlare col
portiere varca la soglia del portone con passo svelto in direzione dell’Alfetta
2000 blindata facendo un cenno di saluto ai membri della scorta che lo attendono.
Il percorso obbligato studiato dal gruppo di fuoco di Cosa Nostra ha
funzionato, Chinnici passa accanto alla Fiat 126 verde oliva del 1977, in
quella strettoia obbligata, quel patibolo che da 150 metri stavano aspettando
che venisse attraversato. Dal semirimorchio ribaltabile del Fiat Leoncino
parcheggiato all’angolo con la via Pirandello il dito di Madonia, l’esecutore
materiale il 30 aprile dell’anno scorso dell’omicidio del Segretario Regionale
del Partito Comunista Italiano e parlamentare Pio La Torre e del suo
collaboratore Rosario di Salvo, spinge la leva del telecomando verso destra.
All’interno della 126, sotto il sedile del passeggero la centralina riceve il
segnale attivando il motorino al suo interno che muove un chiodo verso l’altro
chiudendo la linea. Le batterie del secondo circuito scaricano la corrente
sulla linea di tiro attraversando come un fulmine l’abitacolo entrando nel
baule portabagagli fino al detonatore nella bombola annegato nell’esplosivo.
All’interno dei bossoli in alluminio il ponticello si arroventa al passaggio
dell’elettricità incendiando la sostanza infiammabile che innesca la carica di
Azoturo di Piombo e di conseguenza la Pentrite. Con una velocissima reazione a
catena il detonatore si innesca attivando la carica del primo involucro
metallico e quindi del secondo. Col sistema esplosivo ad alto contenuto
energetico i gas prodotti dalla reazione, a causa delle altissime temperature
raggiunte nell'esplosione, occupano volumi enormemente superiori a quelli
corrispondenti alla sostanza di partenza e quindi, considerando che la velocità
di detonazione aumenta se la carica di esplosivo è confinata entro un materiale
resistente anziché essere libera nell'aria, quella quantità di esplosivo,
detonando racchiusa in quell’ambiente ristretto, in una reazione esotermica più
completa i gas provocano sulle pareti una pressione istantanea ed elevatissima
che ne moltiplica gli effetti. Con una velocità di oltre 6 chilometri al
secondo l’Amatolo detona disintegrando l’auto e quello che le sta vicino. I
vetri dello stabile esplodono, un terzo della via Pipitone va in pezzi mentre
un tuono sveglia la città. Due figure, ancora in pigiama e senza neanche
affacciarsi al balcone scendono precipitosamente dal terzo piano giù per le
scale ritrovandosi in pochi secondi catapultati in strada correndo per inerzia
dietro quel boato terrificante. Il tempo e lo spazio, per Giovanni ed Elvira,
24 e 19 anni, si fermano. Nella via l’aria calda è irrespirabile, l’atmosfera
rarefatta, surreale. Una gigantesca coltre di fumo, di polvere e gas avvolge
tutto: la scala, l’androne, il palazzo, la loro casa. In strada, dove non ci
sono più l’asfalto, i marciapiedi, le auto parcheggiate, quelle che di solito
cominciano a transitare, i pedoni che camminano, è tutto informe, tutto è fuso
assieme. Al centro c’è un cratere largo 70 centimetri e profondo 15 e tutto
intorno, un groviglio di lamiere, calcinacci, vetri, macerie, pezzi di cose
indefinite, gli fanno da cornice. Dentro questo inferno, dove qualcuno è stato
dilaniato o sta esalando l’ultimo respiro e altri miracolosamente scampano alla
morte, c’è il Giudice Rocco Chinnici, il loro padre. 200 metri più lontano il
camion è ripartito, ha imboccato una traversa per consentire a Madonia di
scendere e saltare a bordo della sua auto guidata da Brusca. Giovanni ed Elvira
invece sono vicino al cratere, il Punto Zero, attoniti si guardano attorno. Ci
sono fiamme, fumo, non si vede niente, è da lì che si è scatenato l’inferno. Sono
attoniti, annichiliti, sono soli in questo scenario di morte, soli per un tempo
che sembra loro infinito. È agghiacciante, quasi da far richiamare alla mente
le devastanti immagini della città di Beirut: vetri in frantumi, persone morte
e ferite distese a terra, l’androne dello stabile con l’annesso servizio di
portineria praticamente distrutto, infissi scardinati, saracinesche di negozi
accartocciate e divelte, lamiere, schegge di vario tipo. Una Fiat 127, una 500,
una 850, una Lancia, una Mini 90 e una Jaguar sono distrutte, in fiamme, alcune
sono rivoltate mentre ad altre mancano dei pezzi, frammenti di carrozzeria che
sono sparsi per metri e che hanno, fra l’altro, gravemente danneggiato le
strutture in laterizio delle abitazioni circostanti. L’asfalto presenta un grosso
avvallamento con la formazione di una depressione nella parte sottostante il
marciapiede. Sul tratto della via in direzione della saracinesca contrassegnata
con il civico 57, a circa cinque metri dalla buca e a 4,40 metri dal prospetto
dell’immobile contrassegnato con il numero 59, ci sono i resti dell'autobomba. Dell'auto
è rimasta solo la parte posteriore sbalzata all'indietro e, precisamente, il
pezzo di scocca che sorreggeva le ruote posteriori ed il motore. Il resto del
mezzo, rivolto verso la saracinesca al numero 57, è stato disintegrato e
proiettato a 5 metri di distanza. Numerosi frammenti di lamiere e di parti
meccaniche della Fiat 126 sono sul marciapiede davanti alla saracinesca fra i
civici 66 e 70, oltre che sul piano attico al sesto piano. La potenza della
detonazione è stata devastante al punto che il tettuccio dell’auto è stato
proiettato all’interno di un pozzo luce del condominio di via Villa Sperlinga numero
21, alto ben 26 metri, situato a 12 metri dallo stabile dove abitava il Giudice,
mentre una pioggia di schegge strappate dalle auto parcheggiate ha crivellato
le facciate degli edifici circostanti, anche a notevole distanza. I due ragazzi
sono sotto shock, più si guardano attorno e più prendono coscienza di ciò che è
realmente successo: per chi al momento della detonazione si è trovato
all’esterno e nell’immediato raggio di azione della bomba non vi è stata
nessuna via di scampo. Sul marciapiede compreso tra lo stipite sinistro del
civico 59 e quello destro del civico 61, c’è il cadavere del Giudice, ha i
vestiti lacerati su tutto il corpo, la testa in direzione dello stipite
sinistro del civico 61 e i piedi rivolti verso la depressione dell’asfalto, il
volto è sfigurato da uno squarcio che ne deforma completamente i lineamenti. Accanto
al cadavere c’è un piccolo albero su cui sono andati a incastrarsi i pezzi
bruciacchiati degli abiti. A pochi centimetri c’è la sua borsa di cuoio piena
di documenti. Le lastre di marmo che ricoprono il muro davanti sono coperte di sangue
sino all’altezza di 2 metri e mezzo con intensità decrescente dal basso verso
l’alto e col quadrante inferiore destro completamente ricoperto. La visione è
atroce. Sul tratto di asfalto a monte della depressione, a distanza di circa 4,5
metri e a un metro dal bordo del marciapiede c’è il cadavere dell’Appuntato
Salvatore Bartolotta. È parzialmente mutilato, con la testa rivolta verso lo stipite
sinistro del civico 61, i piedi rivolti verso la parte opposta e con sotto il
corpo la pistola calibro 9 parabellum in dotazione. Nella adiacente via di
Villa Sperlinga, sul tratto di marciapiede compreso fra i numeri 23 e 25, c’è
il corpo esanime di Stefano Li Sacchi, portiere dello stabile dove viveva il
Magistrato, portato lì da alcuni parenti nell’intento di soccorrerlo e che
giace supino con la testa rivolta verso via Pipitone e i piedi in direzione
della strada opposta. All’interno dell’androne si trova il cadavere del capo-scorta,
il Maresciallo Trapassi. Il suo corpo giace supino con la testa rivolta verso
la soglia d’ingresso, parzialmente mutilato, con l’arto inferiore tranciato in
prossimità dell’inguine e scivolato a 30 centimetri di distanza. Sul marciapiede,
a circa 40 centimetri dal portone c’è la sua pistola. 19 persone sono ferite,
sorprese dall’esplosione in strada e nelle abitazioni più vicine. I Carabinieri
Lo Nigro, Amato, Calvo e Pecoraro, i componenti dell’equipaggio del Nucleo
Radiomobile di rinforzo alla scorta, sono miracolosamente scampati all’agguato,
l’onda d’urto, che si è propagata per 150 metri, li ha solo sfiorati
proseguendo la sua corsa dopo avere impattato sull’Alfetta 2000 blindata del Consigliere
Istruttore a bordo della quale si trovava, in attesa dell’arrivo del Giudice,
l’autista giudiziario Paparcuri. La forza dell’onda di pressione ha piegato verso
l’interno la carrozzeria che ne ha assorbito parzialmente la furia ma investendolo
e mandandolo in coma. Con questo gesto, Cosa Nostra inizia a passare ad un
livello successivo, quello in cui si crede invincibile e padrona del mondo.
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