TIPOLOGIA: attentato
CAUSE: autobomba
DATA: 27 maggio 1993
STATO: Italia
LUOGO: Firenze, via dei Georgofili
MORTI: 5
FERITI: 48
Analisi e ricostruzione a cura di Luigi Sistu
C’è Cosa Nostra questa notte tra il 26 e il 27 maggio del 1993 in un
vicolo di Firenze. I suoi uomini, Francesco Giuliano e Cosimo Lo Nigro, della
famiglia di Brancaccio, si stanno muovendo nell’ombra a bordo di due vetture.
Una delle due è un Fiat Fiorino e nel vano posteriore c’è un carico di distruzione
che sta per essere scatenato in un punto ben preciso che raggiungerà, coi suoi
effetti, i centri di potere. Associazione criminale di tipo mafioso Cosa Nostra
è nata in Sicilia nel 19° secolo e si è sviluppata esponenzialmente dopo la
fine della Seconda guerra mondiale. Strutturata gerarchicamente, nota in tutto
il mondo per gli attentati, gli omicidi esemplari e la violenza diretta contro
lo Stato italiano con l’eliminazione di uomini politici, poliziotti e
magistrati, mantiene il controllo su numerose attività economiche e politiche
regionali ed extraregionali per mezzo di reti di fiancheggiatori e
dell’inserimento di propri capitali nel settore dei pubblici appalti, della
sanità e del turismo, penetrando perfino nei settori della grande distribuzione
alimentare, dei mercati ortofrutticoli, nelle attività edili e in quelle di
tipo economico-finanziario. L’Organizzazione è divisa in “Famiglie”, ciascuna
con un capo, il “rappresentante”, eletto da tutti gli “uomini d’onore” e assistito
da un vice-capo e uno o più consiglieri. Tre Famiglie, ognuna organizzata in
"'decine" composte da dieci uomini d'onore, i "soldati",
coordinati da un "capodecina", costituiscono un
"mandamento", la zona di influenza, gestito dal “capo mandamento”
anch'esso eletto e che fa parte della "Commissione Provinciale", il
massimo organismo dirigente di Cosa Nostra nella provincia, organismo che
prende le decisioni più importanti, risolve i contrasti tra le famiglie,
espelle gli uomini inaffidabili, controlla tutti gli omicidi, inferiore in
quanto a potere soltanto a quella "Regionale". Corruzione e
riciclaggio sono il volano che ha permesso a Cosa Nostra di radicarsi, anno
dopo anno, sempre di più nel territorio accrescendo il proprio potere in
maniera spropositata. Il piccolo furgone nel cuore antico di Firenze è il nuovo
ricatto della Mafia siciliana allo Stato, la risposta da parte del clan dei Corleonesi
del 73enne supercapo di Cosa Nostra Salvatore Riina all’applicazione
dell’articolo 41bis della legge sull’ordinamento penitenziario che prevede
carcere duro e isolamento per i detenuti accusati di appartenere a
organizzazioni criminali. Riina è in carcere dal 15 gennaio e dopo il suo
arresto, i boss rimanenti tra i quali Giuseppe e Filippo Graviano, capi del mandamento
di Brancaccio-Ciaculli, Matteo Messina Denaro, capo del mandamento di
Castelvetrano, Bernardo Provenzano, sostituto capo del mandamento di Corleone, Francesco
Giuliano, Cosimo Lo Nigro e Francesco Tagliavia, della famiglia di Brancaccio,
Giovanni Brusca, reggente del mandamento di San Giuseppe Jato, Leoluca
Bagarella, del mandamento di Corleone, fratello di Ninetta, la moglie di Salvatore
Riina, Antonino Gioè, il capo della Famiglia di Altofonte, del mandamento di
San Giuseppe Jato, e Gioacchino La Barbera, capo del mandamento di Passo di
Rigano-Boccadifalco, si erano riuniti il primo di aprile a Santa Flavia, comune
alle porte di Bagheria, nella città metropolitana di Palermo, in una riunione
deliberativa nel villino di proprietà di un certo Leonardo Vasile ma occupata dal
figlio Giuseppe, uomo legato ai Graviano, per mettere in atto una strategia
stragista del tutto nuova, con obiettivi completamente diversi, non magistrati,
non servitori dello Stato, ma luoghi di interesse storico-culturale. Il libro
di storia dell’arte e alcune guide turistiche, da cui era stato scelto
l’obiettivo, era stato portato da Messina Denaro, rappresentante indiscusso
della mafia della provincia di Trapani, favorevole fin da subito alla
continuazione della strategia degli attentati dinamitardi assieme ai boss
Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, e i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano. A
fare da paciere tra questa fazione, aggressiva, e quella contraria, moderata,
composta da Michelangelo La Barbera, Raffaele Ganci, Salvatore Cancemi,
rispettivamente capi dei mandamenti di Della Noce e Porta Nuova, Matteo Motisi,
dello storico clan Motisi del quartiere palermitano Pagliarelli, Benedetto
Spera, della famiglia di Belmonte Mezzagno, Antonio Giuffrè, capo del
mandamento di Caccamo e Pietro Aglieri, capo della famiglia di Santa Maria di
Gesù, era stato Bernardo Provenzano, amico intimo di Riina, al fine di scongiurare
un’altra guerra di mafia ma ponendo la condizione che gli attentati avessero
avuto luogo fuori dalla Sicilia, nel “continente”. Con questo gesto doveva
essere colpita al cuore l'Italia dell'arte e della cultura e doveva essere
colpita con un martello. Mirando ad un obiettivo rappresentato da una persona
fisica il significato e gli effetti sarebbero stati limitati rispetto a quelli
che avrebbero accompagnato obiettivi diversi, come opere d’arte o edifici
storici di rilevante importanza, poiché una persona, per quanto importante, può
sempre essere sostituita ma un’opera d’arte, una volta persa lo è per tutti e
per sempre, con la morte di una città qualora questa viva di turismo. Questa
riflessione, in merito ad un ipotetico abbattimento della Torre di Pisa e in
risposta ad una domanda ben precisa di Antonino Gioè, colui che aveva avuto
nell’inquadratura del cannocchiale il convoglio di auto blindate che
trasportavano il Giudice Giovanni Falcone appena prima di vederlo volare per
aria, era stata fatta da un uomo estraneo alle “famiglie”, alla Sicilia, un
uomo conosciuto anni prima nell’ambiente carcerario: Paolo Bellini. Bellini non
è un delinquente comune, è nell’isola dall’anno scorso poiché infiltrato col
nome in codice di “aquila selvaggia” dal Maresciallo dell’Arma dei Carabinieri
Roberto Tempesta, il sottufficiale in servizio al Nucleo Tutela Patrimonio Artistico,
e dal Colonnello del Raggruppamento Operativo Speciale dell’Arma dei
Carabinieri Mario Mori. Ha il preciso scopo di avere informazioni sull’ubicazione
di alcune opere d’arte rubate dalla Pinacoteca di Modena il 23 gennaio del 1992
e del valore di 25 miliardi di lire in cambio del regime di semilibertà a
seguito della condanna a tre anni di carcere per furto e commercio di opere
d’arte rubate. Conosciuto quando era rinchiuso in attesa di giudizio nel
carcere di Sciacca intorno al 1981 per una serie di furti di opere d’arte
commessi in Toscana, aveva iniziato ad approfittare dell’influenza di Gioè quale
persona “di massimo rispetto” per avere informazioni riguardanti dei crediti
miliardari da riscuotere in Sicilia per conto di alcune società del nord
Italia, favori che sono diventati poi trattative riguardanti dei quadri rubati
in cambio di condizioni vantaggiose quali arresti domiciliari causa malattia
per gli uomini di mafia detenuti e già trasferiti nelle carceri speciali di
Pianosa e dell’Asinara. Quello che i siciliani non sanno è il fatto che Bellini
non sia estraneo alle bombe. Sicario della ‘Ndrangheta non ha all’attivo solo i
13 omicidi in Emilia-Romagna che i corleonesi credono eseguiti per la cosca
calabrese. Noto estremista di destra e legato agli ambienti di Avanguardia
Nazionale, un’organizzazione neofascista golpista fondata il 25 aprile del 1960
dal politico esponente della destra neofascista Stefano Delle Chiaie, è uno dei
responsabili della strage alla Stazione ferroviaria di Bologna del 2 agosto
1980. Infiltrato e informatore per conto di alcuni membri del partito
neofascista Movimento Sociale Italiano era stato lui a portare la bomba in
città, e consegnarla, dopo averla trasportata per mezza Italia, nelle mani di
chi si era occupato di lasciarla nella sala d’aspetto di seconda classe
consapevole che da lì a poco avrebbe dilaniato l’edificio provocando un mare di
morti. E come allora, anche questa notte l’esplosivo sta per scatenare la sua
cieca potenza. Il carico di distruzione che si trova all’interno del vano merci
del Fiorino è costituito da due tipi distinti di esplosivo che lavoreranno
assieme in cui uno funge da carica primaria per l’altro: la Composizione B e il
Trinitrotoluene. Già utilizzati per l’attentato al Giudice Giovanni Falcone il
23 maggio dell’anno scorso dove, in aggiunta ad altro esplosivo più “lento”,
erano stati in grado di sventrare un’autostrada uccidendo il giudice, la moglie
e tre agenti della scorta, sono confezionati in quattro involucri separati, di
forma circolare simili a forme di parmigiano, due grandi e due leggermente più
piccoli. I due grandi, del peso di 70 chilogrammi con un diametro di 60
centimetri, un’altezza di 40, e uno dei piccoli, del peso di 60 chilogrammi con
un diametro di 50 e un’altezza di 40, contengono il Trinitrotoluene. Il quarto,
il secondo dei piccoli, contiene una parte di Trinitrotoluene, una di
Composizione B e funge da booster, la carica di avvio. Il primo, esplosivo
preparato la prima volta nel 1863 dal chimico tedesco Julius Wilbrand,
perfezionato dal chimico tedesco Hermann Frantz Moritz Kopp nel 1888 e prodotto
industrialmente in Germania un anno dopo col nome di Tritolo o Tnt, proviene
dai depositi della Famiglia di Brancaccio con Giuseppe Graviano che aveva
scomodato Cosimo d’Amato, pescatore di Porticello e cugino di Lo Nigro, che per
il recupero dell’esplosivo era solito attingere da una vecchia nave colata a
picco durante la Seconda Guerra Mondiale e adagiata sul fondale col suo carico
intatto nella stiva. Oggetto dei desideri proibiti per numerosissimi appassionati
di immersioni e per coloro i quali operano nel settore del turismo subacqueo,
questa nave non è solo un’oasi di vita colorata e ricca, spunto per riprese
video mozzafiato facilmente raggiungibile dalla costa, ma è anche una
gigantesca “Santa Barbara” a disposizione dei clan. Varata il 3 gennaio del
1923 per la Cosulich Società Triestina di Navigazione insieme ai
gemelli Ida, Alberta, Clara, Teresa e Lucia, la
Laura C. era impiegata assieme a loro sulle linee dell’America Settentrionale.
La nave, un piroscafo da carico di 122 metri di lunghezza, 17 di larghezza e 20
mila tonnellate di stazza, era stata confiscata per le sue peculiarità il 29
ottobre 1940 a Trieste dalla Regia Marina per i propri scopi legati al
conflitto bellico in corso. Partita da Venezia il 28 giugno 1941 con
destinazione Tripoli stivava rifornimenti per le forze dell’Asse operanti in
Nordafrica costituenti, oltre un carico di 5.773 tonnellate di materiali tra
cui medicinali, scorte alimentari, biciclette, vestiario, macchine da cucire,
cavi per linee telefoniche e parti di ricambio per automezzi, anche armi,
munizioni e 1.200 tonnellate di Tnt sistemate nella terza stiva poppiera e
costituite da casse contenenti panetti del peso di 200 grammi l’uno. Mentre
navigava in convoglio con altri due piroscafi e scortata da un incrociatore e
una torpediniera era stata avvistata da un sommergibile britannico Upholder che
presso Capo dell’Armi, in Calabria, le aveva lanciato contro tre siluri che
avevano fermato i motori, bloccato il timone e allagato le stive. L’equipaggio,
deciso a fare incagliare la nave in costa trascinata da due rimorchiatori alla
foce della fiumara di Molaro, sulla spiaggia di Saline Ioniche, per salvare la
nave o almeno il suo carico, non aveva fatto caso alla configurazione del fondale,
molto scosceso, che aveva fatto sì che la Laura C., nel giro di poco più
di sette ore scivolasse all’indietro affondando senza spezzarsi alla profondità
di 50 metri e a 100 metri dalla spiaggia. Negli anni, mentre parte delle
vettovaglie che facevano parte del carico, finite a riva, erano diventate una
insperata risorsa per la popolazione locale affamata dai razionamenti imposti
dalla guerra, l’esplosivo è stato abbondantemente prelevato dai sub della
‘Ndrangheta calabrese, della Cosa Nostra siciliana, della Camorra campana e della
Sacra Corona Unita pugliese con l’obiettivo di confezionare bombe per la loro
personale strategia della tensione. La Composizione B invece proviene da una residuato
bellico della Seconda Guerra Mondiale, uno dei tanti rimasti impigliati nella
rete di un peschereccio, evento non proprio isolato considerato che ogni anno il
mare e il suolo italiano continuano a farne affiorare decine ogni anno, la
maggior parte delle quali armate e potenzialmente letali. Riusciti a portare
sul ponte la carcassa semidistrutta dell’ogiva di una bomba aeronautica a
caduta libera americana “per uso generico, a media capacità” da 227
chilogrammi, gli uomini a bordo erano riusciti ad aprire il corpo lungo 104,2
centimetri e con un diametro di 32,8 ed asportarne il contenuto rimasto, poco
rispetto ai 100,7 chilogrammi in dotazione, ma comunque in buone condizioni e
ancora operativo. Conosciuta anche col nome italiano di Tritolite, creata e
sviluppata agli inizi della Seconda Guerra Mondiale dai laboratori di ricerca
americani, la Composizione B è composta da una percentuale di 59,5% di RDX,
39,5% di Tritolo e un 1% di cera sintetica di paraffina. L’RDX,
formalmente chiamato Ciclotrimetilenetrinitramina, ha caratteristiche
eccezionali ed è stato scoperto e brevettato dal chimico e farmacista tedesco Georg
Friedrich Henning nel 1898. È stato codificato con questo nome prima
dall’esercito inglese come Royal Demolition eXplosive e poi prodotto in larga
scala dagli Stati Uniti nel 1920 come “RD” Research and Development, ricerca e
sviluppo, sigla comune a tutti i nuovi prodotti per la ricerca militare, e
"X", la classificazione, nata come lettera provvisoria ma rimasta
definitiva. L’esplosivo “giunto dal mare” era stato recuperato con lo stesso
modus operandi per l’attentato al Giudice Falcone. Il Tritolo arrivava da un
vecchio casolare di proprietà della zia di Gaspare Spatuzza, un affiliato della
famiglia di Brancaccio guidata dai Graviano, proprio accanto alla proprietà
della madre e solitamente usato come deposito. Una volta portato in superficie
dalla Laura C. e recuperato al porto dopo essere arrivato in banchina
all’interno di fusti cilindrici delle dimensioni di un metro per 50 centimetri
di diametro legati con delle funi alle paratie del peschereccio di Cosimo
d’Amato, era stato trasportato, nascosto sotto delle reti da pesca nel cassone
dell’Ape Piaggio di Cosimo Lo Nigro da Spatuzza, in un capannone al civico
1419/D di Corso dei Mille, a Palermo, luogo sotto l’influenza della famiglia di
Roccella capeggiata da Antonino Mangano, una delle quattro famiglie componenti
il mandamento di Brancaccio. Lì era rimasto in stallo mezza giornata prima di
essere trasferito da Cristofaro Cannella a bordo della sua Wolkswagen Golf nera
scortato da Spatuzza in un altro deposito, questa volta nella zona industriale
di Brancaccio e di proprietà della VaL. TRANS., ditta di trasporti dove
Spatuzza è attualmente impiegato, per essere svuotati del contenuto pronto per
essere deconfezionato. La Composizione B arrivava invece da un deposito
clandestino di Misilmeri gestito da un certo Pieruccio Lo Bianco, chiuso in un
armadio dopo he un peschereccio trapanese, la “Stella Maris”, lo aveva portato
sulla terraferma. Il Tritolo, chiuso in federe di cuscini e poi in sacchi neri
della spazzatura, provvisoriamente nascosti in un angolo del piazzale della VaL.
TRANS. occultato sotto del materiale inerte scarto della lavorazione delle
cave, e coperto da teloni, era stato successivamente prelevato, unito ai sacchi
contenenti la Composizione B e trasportati in un immobile fatiscente di vicolo
Guarnaschelli, a Palermo, messo a disposizione da Mangano che aveva reso
utilizzabile il piccolo appartamento di due stanze, corridoio e bagno di
proprietà del padre Salvatore, per la preparazione degli esplosivi. Qui il
contenuto, solidificato per l’azione di acqua e umidità in grani di varia
pezzatura, da pochi centimetri ad alcune decine, di colore giallo chiaro il
primo e leggermente più scuro il secondo, era stato scaricato su di un tavolo
poco alla volta, asciugato, dove erano state sbriciolate artigianalmente le
scaglie di uno e i grani dell’altro setacciandoli con uno scolapasta,
operazione ripetuta più volte fino all’ottenimento di due polveri asciutte e finissime
pronte per essere ricompattate. La prima macinatura, eseguita mediante mazzuoli
in ferro e recipienti in alluminio, aveva preceduto la seconda tramite una
molazza procurata da Antonino Mangano, la stessa utilizzata anche per la macinatura
della bomba di Firenze, di proprietà del padre Salvatore ed eseguita nel
deposito di materiale edile della EdilVaccaro del cognato Giacomino, sito nella
via Messina Montagne dove era stato lavorato del materiale anche per altre
occasioni. Delle operazioni di macinatura, avvenute cinque giorni fa, se ne
erano occupati Giuliano, Lo Nigro e Gaspare Spatuzza. Durante il lavoro, svolto
tra il piccolo immobile fatiscente e il deposito di Vaccaro, i tre con la
materia prima raffinata avevano poi proceduto al peso e al riconfezionamento in
sacchi grandi neri della spazzatura, pressando con forza e avvolgendoli più
volte con corde di cotone del diametro di 5 millimetri fino a dargli delle
forme circolari, pronte per l’innesco, avvolte successivamente con nastro largo
marrone per imballaggi a cui erano state apposte delle maniglie in cordoncino
bianco per facilitarne la manipolazione. Gli involucri, simili a forme di
parmigiano, molto ben protetti, erano stati prelevati dal luogo in cui erano
provvisoriamente nascosti, l’ovile di proprietà di un certo Antonino Nastasi,
detto Papase, mafioso di spicco di Castelvetrano e uomo molto vicino a Matteo
Messina Denaro, e portati nel cassone dell’Ape Piaggio di Lo Nigro al capannone
della ditta di Pietro Carra, un autotrasportatore che gravita negli ambienti
mafiosi di Brancaccio, per essere trasportati fino alla Toscana. Il viaggio gli
era stato commissionato da Giuseppe Barranca, uomo di spicco di Brancaccio, che
si era recato negli uffici della CO.PRO.RA. srl, in Palermo, via Federico Orsi
Ferrari, assieme a Lo Nigro, chiedendogli di preparare il camion, una motrice
Volvo con semirimorchio del tipo ribaltabile provvisto di un doppio fondo
vicino alle ruote con accesso sollevando una parte del pianale, utilizzato
solitamente per conservare i teloni dopo averli ripiegati. Questo tipo di
spedizione, già testata il 19 aprile per un trasporto di hashish che Carra
aveva fatto transitare per loro da Palermo a Roma col compenso di 3 milioni di
lire, dopo aver consentito l’arrivo a destinazione di 20 quintali in panetti da
mezzo chilogrammo nascosti in camere d’aria di camion sistemate sul pianale in
uno spazio ricavato tra traverse ferroviarie in legno e rottami d’auto, aveva
fatto sì che gli uomini di Cosa Nostra riponessero nell’autotrasportatore la
piena fiducia per i trasporti futuri di merci delicate in tutta sicurezza. Per
la partenza, col medesimo compenso e dove Carra aveva approfittato di un trasporto
già programmato di un altro semirimorchio da consegnare alla ditta Sabital di
Firenze e che era stato legato sopra il pianale di quello trainato, si erano
dati appuntamento al capannone di via Messina Marine dove l’uomo era arrivato
trovandovi già Barranca, un certo Antonio Scarano, Giuliano e Lo Nigro che si era
allontanato con Giuliano per tornare poco dopo coi pacchi coperti da una rete
da pesca. Sistemale le forme nel doppio fondo delle dimensioni di 3 metri di
lunghezza, 70 centimetri di altezza e 60 di profondità, gli era stato dato un
foglio con un numero di un telefono fisso e il nome della destinazione: la
provincia di Prato, dove sarebbe dovuto arrivare per le ore 20:00 di due giorni
dopo e fermarsi davanti alla chiesa dei Testimoni di Geova. Qui era stato
attrezzato un garage dopo che nel mese di aprile Giuseppe Ferro, capo del mandamento
di Alcamo, chiamato da Gioacchino Calabrò, il capo della Famiglia di
Castellammare del Golfo, messosi in contatto con lo zio Antonino Messana lo
aveva esortato alla ricerca di un luogo utilizzabile per un giorno, scelta caduta
su alcuni garage abbandonati siti di fronte alla sua abitazione, piccoli,
anonimi, perfetti per l’allestimento dell’autobomba. Il giorno successivo, dopo
aver lasciato il capannone Carra si era imbarcato col camion a Palermo lasciando
la Sicilia con la motonave Freccia Rossa della compagnia di navigazione “Grandi
Traghetti” delle ore 18:00 per poi sbarcare al porto di Livorno alle ore 14:30
e dirigersi a Galciana, una frazione di Prato, dove aveva appuntamento per le
ore 20:00 del giorno 25. Aveva percorso la Firenze-Mare con direzione Livorno-Firenze
e con sempre in mano il biglietto col numero di telefono da chiamare in caso di
necessità era uscito a Prato-Ovest, percorrendo il tragitto molto lentamente,
fermandosi in ogni area di servizio in quanto aveva molto tempo davanti a sé e
poca strada da percorrere. Appena prima di arrivare a Prato, verso le 19:30
aveva ricevuto una telefonata sul cellulare da Barranca che gli aveva spostato
l’appuntamento alle ore 23:00, sempre al solito posto, perciò, dopo essersi
fermato e aver dormito fino alle 22:40 aveva ripreso il viaggio arrivando alla
chiesa all’entrata del paese per l’ora stabilita spegnendo il motore davanti ad
un parcheggio in cui aveva chiamato il numero di telefono lasciatogli in
Sicilia. Si era poi addentrato per le vie del paese fino al cimitero, dove in
via Olinto, un vialotto di campagna che lo fiancheggia, una volta raggiunto da
Lo Nigro, Giuliano e Spatuzza su una Uno bianca targata Firenze di proprietà di
Tommasa Perricone, moglie di Antonio Messana, capo della Famiglia di Alcamo, in
cui prima che in poco più di un’ora venisse scaricato l’esplosivo e trasportato
nel garage di via Sotto l’Organo di Galciana di Prato messo a disposizione da
Messana, Carra era stato messo in allerta per la ripartenza con Barranca per
rientrare a Palermo. Il Punto Zero, il vicolo di Firenze dove fare esplodere il
Fiorino, non era stato confermato subito, ci erano voluti due sopralluoghi distinti,
il 24 e il 25 maggio, dove erano stati valutati i danni, la possibile presenza
di forze di polizia, la larghezza delle strade, il punto in cui fermarsi ma
soprattutto il percorso per poterlo raggiungere. Nel secondo, Lo Nigro e
Giuliano si erano portati dietro Vincenzo Ferro, figlio di Giuseppe Ferro, nipote
di Antonino Messana, studente universitario alla facoltà di medicina e mafioso
riluttante. Dalla stazione ferroviaria avevano raggiunto a piedi Piazza della Signoria,
avevano attraversato velocemente il Piazzale degli Uffizi fino a raggiungere il
Lungarno, avevano scandagliato la zona escludendo il Piazzale degli Uffizi perché
affollato e per la presenza massiccia di telecamere, ed erano andati a cena in
ristorante. Due ore dopo, dopo aver percorso a ritroso lo stesso itinerario
avevano confermato il luogo prescelto: via dei Georgofili. È stato il 26
pomeriggio, intorno alle ore 18:00 che Giuliano e Spatuzza, allontanatisi a
bordo della Uno erano rientrati dopo circa un’ora col piccolo furgone della
Fiat. Della ditta fiorentina FIRE e di proprietà di un certo Alvaro Rossi, mezzo
perfetto poiché in meno di 4 metri di lunghezza riusciva ad offrire un volume
utile di carico di 3,2 metri cubi, con il piano di carico a soli 50 centimetri
da terra e le dimensioni interne utili di 1,78 metri in lunghezza, 1,35 in
larghezza e 1,36 in altezza, lo avevano rubato intorno alle ore 19:30 in via
della Scala, in prossimità della sua abitazione nei pressi della stazione di
Santa Maria Novella dopo vari tentativi di ricerca di un mezzo adeguato che
potesse trasportare un volume di carico come quello che si sarebbero apprestati
ad assemblare da lì a poco nel garage posto sotto l’abitazione di due livelli
di Antonio Messana. Rimosso il portapacchi dal tettuccio in modo che potesse
entrare nel piccolo box, Lo Nigro, Giuliano, Spatuzza e Barranca in poco meno
di tre ore avevano reso operativa la bomba nei tre metri cubi del vano merci: una
carica esplosiva del peso di 260 chilogrammi ad altissimo potenziale armata con
due detonatori a fuoco, artifizi esplosivi primari
diretti discendenti di quelli inventati dal chimico e ingegnere svedese Alfred
Nobel nel 1867 e contenenti nel loro corpo cilindrico in alluminio una piccola
quantità di esplosivo secondario, la Pentrite, uno degli esplosivi più potenti
preparato per la prima volta nel 1891 dal chimico tedesco Bernhard Tollens, innescato
a sua volta da pochissimo esplosivo primario, l’Azoturo di Piombo, il preparato
dalla Curtis's and Harvey Ltd Explosives Factory nel 1890. Alle estremità dei
detonatori, affondati all’interno del pacco piccolo preventivamente forato con
un cacciavite e costituente la carica di spinta, erano stati fissati due
spezzoni di miccia a lenta combustione della lunghezza di 1,5 metri ciascuno calibrati
per un percorso di fiamma di 1 metro ogni 120 secondi e calcolati per un tempo
di 3 minuti per la fuga. La miccia, del tipo catramato, di colore nero
costituita da un rivestimento in catrame e del diametro di 5 millimetri,
diretta discendente della corda di canapa catramata brevettata il 6 settembre del
1836 da William Bickford è costituita da un cordone di cotone impermeabile con
un’anima di Polvere Nera, esplosivo costituito da 74,65% di nitrato di
potassio, 13,50% di carbone e 11,85% di zolfo, ricetta arrivata ai giorni
nostri grazie al monaco e scienziato Ruggero Bacone nel 1249 modificando quella
comparsa per la prima volta in un'opera di Wu Ching Toung Yao nel 1044 che nel
1044 suggeriva il dosaggio di un 74% in peso di nitrato di potassio, 15% in
peso di carbone e 11% in peso di zolfo. Micce e detonatori provengono da una
cava di sabbia, la INCO di Roccamena-Camporeale, nel territorio di Roccamena,
nel Belice, da cui la sua famiglia mafiosa si era in passato rifornita per
approvvigionarsi per altri attentati, di proprietà di Giuseppe Modesto, un
imprenditore molto vicino a Giovanni Brusca. Questo aveva approfittato della
sua “amicizia” nonché della parentela con Franco Piedescalzi, l’addetto al
maneggio degli esplosivi della cava, qualche mese fa tramite Giuseppe
Agrigento, anche lui persona molto vicina a Brusca nonché capofamiglia di San
Cipirello, incaricato di recuperarne quanti più possibili assieme ad un ingente
quantitativo di esplosivo in previsione di una serie di attentati iniziati con
quello al giudice Giovanni Falcone del 23 maggio dell’anno scorso dov’era
saltato in aria assieme a parte della scorta e dell’Autostrada A29. Messi a
contatto i pani e ricontrollati i collegamenti, il furgone era stato chiuso
pronto a scatenare l’inimmaginabile entro due ore. Nel vicolo di Firenze sono
passati 40 minuti dalla mezzanotte, mentre Giuliano è a bordo della Fiat Uno Lo
Nigro è sul Fiat Fiorino fumando un sigaro. Ci sono anche Spatuzza e Barranca,
poco lontano, che osservano il Fiorino fermarsi davanti alla Torre dè Pulci. Lo
vede anche una donna fermarsi in via dei Georgofili, sede della famosa e
omonima Accademia, immobile e a fari sono spenti tanto da non suscitare
curiosità o sospetti e farle proseguire la passeggiata. Mentre la Uno si
allontana lasciando il furgone vuoto e le micce accese, una coppia gli passa davanti,
un uomo e una donna chiacchierano tenendosi per mano non facendo caso all’auto
silente, fermandosi qualche secondo per poi proseguire nel buio. Sono le ore
01:04, l’ultimo centimetro di miccia si esaurisce. La fiamma, arrivando
all’interno dei detonatori accende l’Azoturo di Piombo sensibile al calore che
esplodendo innesca la Pentrite a contatto con la carica di spinta. Con una
reazione a catena velocissima la Composizione B attiva il Tritolo che detona
con una velocità di 6.800 metri al secondo. Il Fiorino esplode e l’esplosione è
violentissima. Il boato spaventoso spezza il cuore di Firenze, la sveglia, la
terrorizza. Il centro viene sventrato. La Torre dè Pulci, che ospita l'antica
Accademia dei Georgofili, viene aperta fino al soffitto. Tre piani di storia
crollano risucchiando nel sonno la famiglia di Fabrizio Nencioni, ispettore dei
vigili urbani, e di Angela Fiume, custode dell'Accademia, che abitano al terzo
piano. La famiglia scompare in un lampo di fuoco insieme alle due bambine,
Nadia e Caterina, trascinate giù senza avere neanche il tempo di capacitarsi di
niente. Mentre una sfera di gas ad altissima pressione si abbatte sugli edifici
vicini, la stretta via dei Georgofili e quella di via Lambertesca ne
amplificano l'effetto incanalando l'onda di sovrappressione nel labirinto
rinascimentale che spazza via qualsiasi cosa con una forza impressionante. Le
tegole volano giù dai tetti, legni e pietre piovono sulle strade colpendo i
passanti. Al Quisisana, una pensione con vista sull'Arno a 30 metri da Ponte
Vecchio si scatena il panico con l'intonaco che cede, le finestre che saltano e
i vetri che si frantumano. Gli Uffizi, il Corridoio Vasariano, il Museo di
Storia della Scienza e la Chiesa di Santo Stefano al Ponte sono squassati dalle
fondazioni. Le porte vengono scardinate, le finestre divelte, le pareti si
crepano e i pavimenti si sollevano mentre una rosa di mattoni squarciano i
quadri, sfregiano le statue, distruggono volte e lucernari. Una nuvola di
polvere e detriti avvolge e travolge il centro storico. È un inferno senza luce
che dura pochi secondi poiché il palazzo davanti all'Accademia prende immediatamente
fuoco, sorprendendo una giovane coppia al terzo piano. Francesca Chelli, 22
anni, spezzina, studentessa di architettura, coperta di ustioni riesce a
scappare mentre Dario Capolicchio, il suo fidanzato, viene inghiottito dal rogo
dietro di lei. In strada qualcuno vede la sua figura barcollare verso la
finestra avvolta dalle fiamme che alzando le braccia tenta di sporgersi invano.
L’ombra cade all’indietro sparendo davanti agli occhi di chi gli urla di
resistere. Qualcuno in strada urla, chiede aiuto, corre, picchia i pugni contro
portoni da cui non apre nessuno. Un uomo dietro un vicolo si trascina tra la
polvere, cerca il suo occhio strappatogli via da una scheggia impazzita. Il fumo
e le fiamme si propagano, sfiorano gli Uffizi mentre Polizia, Carabinieri e Vigili
del Fuoco si sono riversati in strada per dare soccorso, un soccorso
disordinato, confuso, tra turisti e residenti che scappano dagli alberghi e
dalle abitazioni scalzi e in vestaglia senza avere la minima idea di cosa stia
succedendo. Pianti e grida di dolore e paura si mischiano ai ruggiti delle
fiamme che aggrediscono i solai in legno, dei muri che collassano e delle sirene
che rimbombano tra i vicoli. Centinaia sono le persone che si accalcano tra Piazza
della Signoria, il Lungarno e Ponte Vecchio mentre in mezzo al fumo e alla
polvere il numero dei feriti sale con una velocità spaventosa. Prima dieci, poi
venti, trenta. Alla fine saranno 48. Appena la polvere si adagia sul terreno
ecco che appare quello che nessuno avrebbe voluto vedere: il cuore antico della
città sembra lo scenario di un bombardamento che ha interessato un’area di 12
ettari con forma circolare e del diametro di 400 metri. Nella Chiesa di Santo
Stefano al Ponte, sul lato che guarda piazza del Pesce, l’onda d’urto ha
scardinato la “macchina architettonica” dell’edificio per effetto del
sollevamento della cupola fuoriuscita dalle geometrie normali. La caduta del
materiale di costruzione ha interessato la parte absidale del complesso
danneggiando gravemente il prezioso altare sottostante e alcune pitture in quel
momento ricoverate nella sagrestia della chiesa. Gravemente danneggiate anche l’Accademia
dei Georgofili, l’Istituto e Museo della Storia e della Scienza, parte della
Galleria degli Uffizi e del Corridoio Vasariano con la compromissione sia delle
strutture murarie, dei collegamenti verticali, dei lucernari, dei soffitti e
dei tetti del complesso artistico-monumentale, sia del 25% delle opere d’arte
contenute, con 173 dipinti, 42 busti archeologici e 16 statue di grandi dimensioni
rovinati per sempre. Il Fiat Fiorino, dove Cosa Nostra aveva stipato il nuovo ultimatum
allo Stato è sparito. Il blocco motore si trova all’interno del cortile del
palazzo vicino, letteralmente sparato a 35 metri di distanza dopo averne sbriciolato,
attraversandolo, il gigantesco portone di legno massiccio. Il telaio è a 7
metri, poco dopo un pezzo di targa e la ghiera del cambio. Al suo posto ora c’è
un cratere di forma ellissoidale con diametro parallelo alla via dei Georgofili
di 495 centimetri, quello normale all’asse stradale di 290 centimetri, profondo
141 centimetri con un perimetro di 13,93 metri, un’area di 11,429 metri
quadrati e un volume di 9,53 metri cubi. Mentre da una lato del cratere
qualsiasi cosa è stata crivellata dalla rosata di schegge irradiata
dall’epicentro, dall’altra invece c’è il vuoto, con la Torre dè Pulci ridotta
ad una piramide di macerie alta 4 metri dove è rimasta in piedi solo una parete
con una cyclette appoggiata al muro, un armadio, i pensili della cucina e un
seggiolone in precario equilibrio. Tra i detriti spunta una ruotina di un
passeggino, poco più in là una culla, poi un piedino accanto ad un album di
foto bruciacchiato, strappato e mosso dal vento che ritraggono la giornata di
domenica ad un battesimo. Qualcuno guarda quel piede, sembra quello di una
bambola ma non lo è, è quello di una bambina. Caterina, 50 giorni appena, non
respira più, è lei nelle foto. È morta schiacciata da tonnellate di pietra e
legno assieme ai genitori e alla sorellina di 9 anni. Mentre un vigile del
fuoco si avvicina, la avvolge in un lenzuolo, la tiene stretta a sé dirigendosi
verso l’ambulanza in fondo alla via, Giuseppe Barraca, disteso nella brandina
del camion dietro la cabina del Volvo di Pietro Carra fermo sulla statale
Firenze-Mare, ascolta la notizia da una radio mangianastri comprata in una
stazione di servizio dell’Agip prima della deviazione per Genova-Livorno,
soddisfatto per l’operazione compiuta. C’è chi chiamerà le vittime “effetto
collaterale”, chi “imprevisto”, ma resta il fatto che quel fagotto in miniatura
ha appena mostrato a tutti che Cosa Nostra, volente o nolente, ha appena
raggiunto un altro livello.
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