30 aprile, 2018

Monongah, Miniera di carbone, 6 dicembre 1907


TIPOLOGIA: incidente
CAUSE: errore umano
DATA:
6 dicembre 1907
STATO:
Virginia Occidentale
LUOGO:
Monongah, Miniera di carbone
MORTI: 956
FERITI:
0

Analisi e ricostruzione a cura di Luigi Sistu

È il 6 dicembre 1907, è venerdì, è una fredda mattina lavorativa come tante, dura, faticosa, qui a Monongah. Monongah è una cittadina della West Virginia che si fatica a trovare sulle carte geografiche, il suo nome indiano-americano nelle lingua della tribù Seneca significa "Fiume dalle acque ondulate". Le tremila anime che ci abitano vivono per la miniera della Fairmont Coal Company di proprietà della Consolidated Coal Mine of Baltimore. Per estrarre carbone e ardesia nei pozzi vi lavorano grandi e piccoli. Ogni operaio, regolarmente assunto e con appuntata sul petto la spilla d’ottone che riporta la matricola, è accompagnato da almeno due aiutanti. Questi sono adolescenti e bambini e la loro presenza sotto terra non è registrata da nessuna parte. Gli adulti guadagnano 10 centesimi l'ora, per i ragazzi invece c’è una mancia legata alla quantità di carbone portato in superficie. È tutta gente povera, semianalfabeta e sfruttata che vive in baracche di legno ricoperte di carta catramata, anche in dodici per stanza, pagando fino a dieci dollari al mese d’affitto, la metà dello stipendio. Ad Ellis Island, la porta d'ingresso per l'America, l’anno scorso solo dall’Italia sono arrivati in 300 mila, emigrati alla ricerca di una vita dignitosa, di un futuro. Dalla baia di New York li hanno portati qui a Monongah per soddisfare il bisogno di carbone e legname del boom industriale americano, anticipando i 15 dollari del viaggio che poi ha trattenuto dalle paghe settimanali. Alla miniera sono tutti giovani e vivono quasi da reclusi, i campi di lavoro sono controllati da guardie armate, non si può lasciare il campo per nessun motivo, almeno non prima di aver pagato tutti i debiti con la compagnia. Tutto ciò che si guadagna è speso qui, il vestiario, l’attrezzatura, perfino le rate alimentari sono gestite dallo spaccio della Compagnia mineraria che trattiene le spese dagli stipendi. Questa mattina, l’attività estrattiva delle gallerie numero 6 e numero 8 è a pieno regime e il lavoro degli operai continua ininterrottamente, come ogni giorno. L’impianto della Consolidated Coal Company è considerato una meraviglia della modernità industriale, l’energia elettrica alimenta i macchinari per tagliare il carbone, un sistema di rotaie con locomotive e carrelli ne provvede al trasporto mentre una teleferica consente la salita lungo il pendio della montagna. Le gallerie sono collegate da un ponte d’acciaio sopra il fiume West Fork in superficie e da un labirinto di tunnel in sotterraneo. La galleria numero 8 si trova sulla sponda occidentale del fiume, la numero 6 invece è sulla sponda opposta. La vena di carbone Pittsburgh giace a meno di 70 metri dalla cima della collina su cui si apre l'entrata principale della miniera, a circa 10 metri sotto il livello del fiume. In queste due gallerie, le principali per dimensioni, gli operai devono quotidianamente prestare la massima attenzione alle esalazioni di grisù, il gas combustibile silenzioso e letale costituito prevalentemente da metano, azoto, anidride carbonica, etano, elio, neon e idrogeno. Incolore ed inodore, essendo più leggero dell'aria, si trova raccolto in sacche isolate nelle parti alte delle gallerie. Per l’estrazione del minerale, qui come nella maggior parte delle miniere, si usa l’esplosivo. Pratico, più economico in termini di tempo e forza lavoro, è utilizzato quotidianamente nell’avanzamento delle gallerie. I depositi dove viene stoccato, le “riservette”, rifornite settimanalmente, per ragioni logistiche si trovano nella parte più bassa della miniera scavate nella roccia e rinforzate come piccoli bunker. I detonatori a fuoco, i tubetti di stagno inventato dal chimico e ingegnere svedese Alfred Nobel nel 1867 e riempiti col Fulminato di Mercurio, esplosivo primario sensibilissimo agli urti e al calore, sintetizzato già nel XVII secolo e perfezionato nel 1799 dal chimico inglese Edward Howard, sono riposti in una loggia rialzata immediatamente dopo le porte in ferro del deposito. A pochi metri, impilate dietro l’angolo della stanza a forma di “L” per ragioni di sicurezza in modo da essere a distanza dal resto del magazzino, si trovano le casse di Dinamite, qui utilizzata in una tipologia a base inerte, non esplosiva. Questa, brevettata sempre da Nobel nel 1867, è composta dalla Nitroglicerina sintetizzata dal chimico e medico italiano Ascanio Sobrero nel 1847 dalla Nitrocellulosa, prodotto scoperto dal chimico tedesco Christian Friedrich Schönbein nel 1846,  miscelata con farina di roccia silicea sedimentaria di origine organica. Sono le ore 10:30 e la stanchezza si fa sentire, la poca luce, la fatica e la polvere sono pessime compagne di lavoro a cui non ci si riesce ad abituare. Al centro di uno dei tunnel, all’altezza di un nodo di scambio, due operai si stanno occupando della movimentazione dei carrelli lungo i binari per allontanarli dal fronte di scavo. Sulla parete le perforatrici stanno lavorando a ritmo serrato e tra poco verrà preparata per il caricamento dell’esplosivo nei fori da mina. Poco più indietro, sui binari, gli uomini alla prese col convoglio sganciano il primo carrello dalla testa della fila. Il terreno, reso scivoloso dalle continue infiltrazioni d’acqua non rende facile le operazioni, uno degli uomini inciampa perdendo il controllo del carrello. Il mezzo, col freno disinserito prende velocità, accade tutto velocemente e nessuno è in grado di fare niente se non guardarlo sparire nel buio. Questo, continuando ad accelerare lungo la galleria e sollevando al suo passaggio una nuvola di polvere di carbone percorre in pochi secondi il rettilineo fino allo scambio successivo in cui arriva a tutta velocità. Il vagone deraglia, si ribalta su un fianco andando a sbattere contro la parete dove trancia un cavo elettrico che prende fuoco con una lunga fiammata bianca. I granelli di polvere di carbone sollevati, andati a diminuire lo spazio tra quelli già sospesi in aria durante le operazioni di lavoro, si accendono. La nuvola si incendia, i minatori accanto vengono inceneriti, la galleria trema, il pavimento e le pareti si aprono. La rapida combustione in questo spazio confinato in cui la reazione chimica non ha il tempo di liberare tutta l'energia prodotta sotto forma di calore ne produce una parte consistente sotto forma di energia di pressione che genera a sua volta lo spostamento dell'aria circostante ad una velocità elevatissima. La mostruosa esplosione, formata da una catena di esplosioni ravvicinate, percorre la galleria producendo ad ogni deflagrazione un’onda barica che solleva in sospensione altre polveri di carbone innescate a loro volta al contatto col fronte di fuoco che consuma in un attimo tutto l’ossigeno. La ragnatela di tunnel è attraversata da un muro d’aria infuocata che viaggia ad una velocità di 1000 chilometri orari che si inoltra fin dentro le crepe nelle pareti raggiungendo una delle sacche isolate di grisù. Il gas, miscelato con una percentuale d’aria al 5%, si infiamma violentemente. Una fiammata di 3.500 gradi centigradi investe il corridoio incendiando altra polvere di carbone sollevata per il precedente spostamento d’aria fino ad arrivare alla riservetta. La violenza dell’onda d’urto scardina la porta rinforzata incanalandosi nella stanza ad L investendo le casse di esplosivo. L’intero stoccaggio settimanale salta in aria. Una tonnellata di Dinamite detona con una velocità di 7.400 metri al secondo generando una sfera di 7 milioni di litri di gas ad una temperatura di 4.200 gradi centigradi che cancella il deposito fortificato, polverizza le pareti divisorie, le centine e i rinforzi. La nuova onda d'urto generata raggiunge quasi istantaneamente le altre sacche di grisù che, miscelate con una percentuale d’aria al 15%, per effetto meccanico esplodono con una gigantesca onda esplosiva supersonica che si unisce alla prima e travolge i cunicoli uno dopo l’altro. La terra ha un sordo sussulto, i quadri appesi ai muri delle abitazioni lontane 30 chilometri ondeggiano, la collina si gonfia. 956 operai di cui 171 italiani muoiono all’istante, sciolti e inghiottiti dal terreno. Andati via da San Giovanni in Fiore, San Nicola dell’Alto, Falerna, Gizzeria, Civitella Roveto, Duronia, Civita d’Antino, Canistro, Torella del Sannio e altri paesi della Calabria, dell’Abruzzo e del Molise, invece della fortuna trovano la morte, arsi vivi e schiacciati da un monte che gli si sgretola addosso. La vampata di fuoco distrugge l’entrata della miniera sfogando all’esterno stagliandosi in cielo per 60 metri, dalla galleria numero 8 un frammento di 250 chilogrammi del tetto in cemento del locale motori viene scagliato a 150 metri sulla riva opposta del West Fork, il locale aerazione viene accartocciato, l’enorme ventilatore è strappato dai sostegni spezzandosi in tre parti con la più grossa che va a piantarsi nel fango sulla sponda orientale del fiume. Dal West Fork si alza una gigantesca ondata di marea che raggiunge la linea ferroviaria che corre lungo il corso d'acqua. All’esterno tutti gli edifici vengono rasi al suolo, la collina crolla sui tre ingressi della galleria numero 8 sollevando una nube nera, densa e pesante a forma di crisantemo che in pochi secondi ricopre le campagne e le acque del fiume. Cala il silenzio. Sconvolti e sanguinanti, quattro minatori riescono ad uscire da una crepa fumante sul fianco della galleria numero 6, non dicono niente, sono ciechi e sordi, sono appena una manciata i passi che fanno prima di crollare a terra esanimi. Dalle casette in legno sulla riva opposta del West Fork si precipitano le mogli dei minatori, è ancora tutto buio, un muro di polvere rende difficile la vista della miniera. Le donne si guardano attorno, ci sono anche gli operai del turno successivo che a gruppi stanno accorrendo verso l’entrata del pozzo. La vista della collina sprofondata è sconvolgente, nessuno ha mai visto una cosa simile, nessuno dovrebbe vederla. Alcuni funzionari della compagnia mineraria sono già in viaggio da Fairmont, ci metteranno meno di un’ora ad arrivare, una volta sul posto resteranno senza parole, è un disastro. I lavoratori delle miniere vicine si fermano, la mobilitazione è totale, vengono create due unità di soccorso di trenta elementi ciascuna, tecnicamente impreparate e prive di adeguati respiratori, che non potranno resistere all'interno della miniera per più di 15 minuti. Tre di essi moriranno durante l’intervento. Dalla vicina Shinnston stanno preparando per il trasporto un ventilatore provvisorio da montare all'ingresso principale per immettere aria forzata all'interno dei cunicoli. Si spera di trovare sopravvissuti. In 11 ore avanzeranno solo di 200 metri e 3 chilometri più avanti tenteranno di aprire un tunnel di aerazione. L'ingresso della galleria numero 6, inaccessibile, è sbarrato dalle carcasse di 613 carrelli, una dozzina di medici è in attesa davanti all’entrata ma il loro intervento non sarà mai necessario. I primi corpi, carbonizzati e martoriati non fanno presagire nulla di buono. Madri, mogli, fidanzate, sorelle, non andranno via, aspetteranno davanti all'ingresso dell'impianto osservando, urlando, piangendo, sperando, pregando. Gli sviluppi saranno strazianti, dalle viscere della terra, con un passamano senza fine saranno portati in superficie i resti umani orrendamente mutilati e bruciati di quelli che ad inizio turno erano mariti, padri, fratelli. Verranno ammassati all’interno dell’edificio ancora in costruzione della banca locale. Gli effetti personali o un brandello di vestiario saranno spesso l’unico modo per cercare di identificarli. Molte, troppe salme rimarranno senza nome, altre verranno rivendicate da più di una famiglia. 500 casse di legno arrivate all’aria aperta su sei vagoni ferroviari saranno allineate sulla Main Avenue, la strada principale, in attesa di una tomba o sepoltura in fosse comuni scavate nella terra gelata. Una folla di madri, vedove e orfani vagherà alla ricerca di qualche segno di riconoscimento, una scarpa, una giacca, un anello. Soltanto in 362 avranno un nome e il diritto alla lapide, altri saranno riposti in una fossa senza nome, altri ancora rimarranno sotto il carbone, inghiottiti dalla galleria a cui avevano affidato il loro futuro. L’orrore, la distruzione, la morte, susciteranno molto clamore in tutto il mondo, poi una stanca rassegnazione coprirà di silenzio quelli che per 12 ore al giorno, ripagati con stipendi da fame, affidando al piccone la loro speranza di riscatto, lasceranno a noi tutti la testimonianza di cosa sia stata per molti l’emigrazione nel mondo: figli di nessuno, anonimi italiani coperti con il manto scuro dell’oblio.

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01 aprile, 2018

Firenze, Via dei Georgofili, 27 maggio 1993


TIPOLOGIA: attentato
CAUSE: autobomba
DATA:
27 maggio 1993
STATO: Italia
LUOGO: Firenze, via dei Georgofili
MORTI:
5
FERITI:
48

Analisi e ricostruzione a cura di Luigi Sistu

C’è Cosa Nostra questa notte tra il 26 e il 27 maggio del 1993 in un vicolo di Firenze. I suoi uomini, Francesco Giuliano e Cosimo Lo Nigro, della famiglia di Brancaccio, si stanno muovendo nell’ombra a bordo di due vetture. Una delle due è un Fiat Fiorino e nel vano posteriore c’è un carico di distruzione che sta per essere scatenato in un punto ben preciso che raggiungerà, coi suoi effetti, i centri di potere. Associazione criminale di tipo mafioso Cosa Nostra è nata in Sicilia nel 19° secolo e si è sviluppata esponenzialmente dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Strutturata gerarchicamente, nota in tutto il mondo per gli attentati, gli omicidi esemplari e la violenza diretta contro lo Stato italiano con l’eliminazione di uomini politici, poliziotti e magistrati, mantiene il controllo su numerose attività economiche e politiche regionali ed extraregionali per mezzo di reti di fiancheggiatori e dell’inserimento di propri capitali nel settore dei pubblici appalti, della sanità e del turismo, penetrando perfino nei settori della grande distribuzione alimentare, dei mercati ortofrutticoli, nelle attività edili e in quelle di tipo economico-finanziario. L’Organizzazione è divisa in “Famiglie”, ciascuna con un capo, il “rappresentante”, eletto da tutti gli “uomini d’onore” e assistito da un vice-capo e uno o più consiglieri. Tre Famiglie, ognuna organizzata in "'decine" composte da dieci uomini d'onore, i "soldati", coordinati da un "capodecina", costituiscono un "mandamento", la zona di influenza, gestito dal “capo mandamento” anch'esso eletto e che fa parte della "Commissione Provinciale", il massimo organismo dirigente di Cosa Nostra nella provincia, organismo che prende le decisioni più importanti, risolve i contrasti tra le famiglie, espelle gli uomini inaffidabili, controlla tutti gli omicidi, inferiore in quanto a potere soltanto a quella "Regionale". Corruzione e riciclaggio sono il volano che ha permesso a Cosa Nostra di radicarsi, anno dopo anno, sempre di più nel territorio accrescendo il proprio potere in maniera spropositata. Il piccolo furgone nel cuore antico di Firenze è il nuovo ricatto della Mafia siciliana allo Stato, la risposta da parte del clan dei Corleonesi del 73enne supercapo di Cosa Nostra Salvatore Riina all’applicazione dell’articolo 41bis della legge sull’ordinamento penitenziario che prevede carcere duro e isolamento per i detenuti accusati di appartenere a organizzazioni criminali. Riina è in carcere dal 15 gennaio e dopo il suo arresto, i boss rimanenti tra i quali Giuseppe e Filippo Graviano, capi del mandamento di Brancaccio-Ciaculli, Matteo Messina Denaro, capo del mandamento di Castelvetrano, Bernardo Provenzano, sostituto capo del mandamento di Corleone, Francesco Giuliano, Cosimo Lo Nigro e Francesco Tagliavia, della famiglia di Brancaccio, Giovanni Brusca, reggente del mandamento di San Giuseppe Jato, Leoluca Bagarella, del mandamento di Corleone, fratello di Ninetta, la moglie di Salvatore Riina, Antonino Gioè, il capo della Famiglia di Altofonte, del mandamento di San Giuseppe Jato, e Gioacchino La Barbera, capo del mandamento di Passo di Rigano-Boccadifalco, si erano riuniti il primo di aprile a Santa Flavia, comune alle porte di Bagheria, nella città metropolitana di Palermo, in una riunione deliberativa nel villino di proprietà di un certo Leonardo Vasile ma occupata dal figlio Giuseppe, uomo legato ai Graviano, per mettere in atto una strategia stragista del tutto nuova, con obiettivi completamente diversi, non magistrati, non servitori dello Stato, ma luoghi di interesse storico-culturale. Il libro di storia dell’arte e alcune guide turistiche, da cui era stato scelto l’obiettivo, era stato portato da Messina Denaro, rappresentante indiscusso della mafia della provincia di Trapani, favorevole fin da subito alla continuazione della strategia degli attentati dinamitardi assieme ai boss Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, e i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano. A fare da paciere tra questa fazione, aggressiva, e quella contraria, moderata, composta da Michelangelo La Barbera, Raffaele Ganci, Salvatore Cancemi, rispettivamente capi dei mandamenti di Della Noce e Porta Nuova, Matteo Motisi, dello storico clan Motisi del quartiere palermitano Pagliarelli, Benedetto Spera, della famiglia di Belmonte Mezzagno, Antonio Giuffrè, capo del mandamento di Caccamo e Pietro Aglieri, capo della famiglia di Santa Maria di Gesù, era stato Bernardo Provenzano, amico intimo di Riina, al fine di scongiurare un’altra guerra di mafia ma ponendo la condizione che gli attentati avessero avuto luogo fuori dalla Sicilia, nel “continente”. Con questo gesto doveva essere colpita al cuore l'Italia dell'arte e della cultura e doveva essere colpita con un martello. Mirando ad un obiettivo rappresentato da una persona fisica il significato e gli effetti sarebbero stati limitati rispetto a quelli che avrebbero accompagnato obiettivi diversi, come opere d’arte o edifici storici di rilevante importanza, poiché una persona, per quanto importante, può sempre essere sostituita ma un’opera d’arte, una volta persa lo è per tutti e per sempre, con la morte di una città qualora questa viva di turismo. Questa riflessione, in merito ad un ipotetico abbattimento della Torre di Pisa e in risposta ad una domanda ben precisa di Antonino Gioè, colui che aveva avuto nell’inquadratura del cannocchiale il convoglio di auto blindate che trasportavano il Giudice Giovanni Falcone appena prima di vederlo volare per aria, era stata fatta da un uomo estraneo alle “famiglie”, alla Sicilia, un uomo conosciuto anni prima nell’ambiente carcerario: Paolo Bellini. Bellini non è un delinquente comune, è nell’isola dall’anno scorso poiché infiltrato col nome in codice di “aquila selvaggia” dal Maresciallo dell’Arma dei Carabinieri Roberto Tempesta, il sottufficiale in servizio al Nucleo Tutela Patrimonio Artistico, e dal Colonnello del Raggruppamento Operativo Speciale dell’Arma dei Carabinieri Mario Mori. Ha il preciso scopo di avere informazioni sull’ubicazione di alcune opere d’arte rubate dalla Pinacoteca di Modena il 23 gennaio del 1992 e del valore di 25 miliardi di lire in cambio del regime di semilibertà a seguito della condanna a tre anni di carcere per furto e commercio di opere d’arte rubate. Conosciuto quando era rinchiuso in attesa di giudizio nel carcere di Sciacca intorno al 1981 per una serie di furti di opere d’arte commessi in Toscana, aveva iniziato ad approfittare dell’influenza di Gioè quale persona “di massimo rispetto” per avere informazioni riguardanti dei crediti miliardari da riscuotere in Sicilia per conto di alcune società del nord Italia, favori che sono diventati poi trattative riguardanti dei quadri rubati in cambio di condizioni vantaggiose quali arresti domiciliari causa malattia per gli uomini di mafia detenuti e già trasferiti nelle carceri speciali di Pianosa e dell’Asinara. Quello che i siciliani non sanno è il fatto che Bellini non sia estraneo alle bombe. Sicario della ‘Ndrangheta non ha all’attivo solo i 13 omicidi in Emilia-Romagna che i corleonesi credono eseguiti per la cosca calabrese. Noto estremista di destra e legato agli ambienti di Avanguardia Nazionale, un’organizzazione neofascista golpista fondata il 25 aprile del 1960 dal politico esponente della destra neofascista Stefano Delle Chiaie, è uno dei responsabili della strage alla Stazione ferroviaria di Bologna del 2 agosto 1980. Infiltrato e informatore per conto di alcuni membri del partito neofascista Movimento Sociale Italiano era stato lui a portare la bomba in città, e consegnarla, dopo averla trasportata per mezza Italia, nelle mani di chi si era occupato di lasciarla nella sala d’aspetto di seconda classe consapevole che da lì a poco avrebbe dilaniato l’edificio provocando un mare di morti. E come allora, anche questa notte l’esplosivo sta per scatenare la sua cieca potenza. Il carico di distruzione che si trova all’interno del vano merci del Fiorino è costituito da due tipi distinti di esplosivo che lavoreranno assieme in cui uno funge da carica primaria per l’altro: la Composizione B e il Trinitrotoluene. Già utilizzati per l’attentato al Giudice Giovanni Falcone il 23 maggio dell’anno scorso dove, in aggiunta ad altro esplosivo più “lento”, erano stati in grado di sventrare un’autostrada uccidendo il giudice, la moglie e tre agenti della scorta, sono confezionati in quattro involucri separati, di forma circolare simili a forme di parmigiano, due grandi e due leggermente più piccoli. I due grandi, del peso di 70 chilogrammi con un diametro di 60 centimetri, un’altezza di 40, e uno dei piccoli, del peso di 60 chilogrammi con un diametro di 50 e un’altezza di 40, contengono il Trinitrotoluene. Il quarto, il secondo dei piccoli, contiene una parte di Trinitrotoluene, una di Composizione B e funge da booster, la carica di avvio. Il primo, esplosivo preparato la prima volta nel 1863 dal chimico tedesco Julius Wilbrand, perfezionato dal chimico tedesco Hermann Frantz Moritz Kopp nel 1888 e prodotto industrialmente in Germania un anno dopo col nome di Tritolo o Tnt, proviene dai depositi della Famiglia di Brancaccio con Giuseppe Graviano che aveva scomodato Cosimo d’Amato, pescatore di Porticello e cugino di Lo Nigro, che per il recupero dell’esplosivo era solito attingere da una vecchia nave colata a picco durante la Seconda Guerra Mondiale e adagiata sul fondale col suo carico intatto nella stiva. Oggetto dei desideri proibiti per numerosissimi appassionati di immersioni e per coloro i quali operano nel settore del turismo subacqueo, questa nave non è solo un’oasi di vita colorata e ricca, spunto per riprese video mozzafiato facilmente raggiungibile dalla costa, ma è anche una gigantesca “Santa Barbara” a disposizione dei clan. Varata il 3 gennaio del 1923 per la Cosulich Società Triestina di Navigazione insieme ai gemelli Ida, Alberta, Clara, Teresa e Lucia, la Laura C. era impiegata assieme a loro sulle linee dell’America Settentrionale. La nave, un piroscafo da carico di 122 metri di lunghezza, 17 di larghezza e 20 mila tonnellate di stazza, era stata confiscata per le sue peculiarità il 29 ottobre 1940 a Trieste dalla Regia Marina per i propri scopi legati al conflitto bellico in corso. Partita da Venezia il 28 giugno 1941 con destinazione Tripoli stivava rifornimenti per le forze dell’Asse operanti in Nordafrica costituenti, oltre un carico di 5.773 tonnellate di materiali tra cui medicinali, scorte alimentari, biciclette, vestiario, macchine da cucire, cavi per linee telefoniche e parti di ricambio per automezzi, anche armi, munizioni e 1.200 tonnellate di Tnt sistemate nella terza stiva poppiera e costituite da casse contenenti panetti del peso di 200 grammi l’uno. Mentre navigava in convoglio con altri due piroscafi e scortata da un incrociatore e una torpediniera era stata avvistata da un sommergibile britannico Upholder che presso Capo dell’Armi, in Calabria, le aveva lanciato contro tre siluri che avevano fermato i motori, bloccato il timone e allagato le stive. L’equipaggio, deciso a fare incagliare la nave in costa trascinata da due rimorchiatori alla foce della fiumara di Molaro, sulla spiaggia di Saline Ioniche, per salvare la nave o almeno il suo carico, non aveva fatto caso alla configurazione del fondale, molto scosceso, che aveva fatto sì che la Laura C., nel giro di poco più di sette ore scivolasse all’indietro affondando senza spezzarsi alla profondità di 50 metri e a 100 metri dalla spiaggia. Negli anni, mentre parte delle vettovaglie che facevano parte del carico, finite a riva, erano diventate una insperata risorsa per la popolazione locale affamata dai razionamenti imposti dalla guerra, l’esplosivo è stato abbondantemente prelevato dai sub della ‘Ndrangheta calabrese, della Cosa Nostra siciliana, della Camorra campana e della Sacra Corona Unita pugliese con l’obiettivo di confezionare bombe per la loro personale strategia della tensione. La Composizione B invece proviene da una residuato bellico della Seconda Guerra Mondiale, uno dei tanti rimasti impigliati nella rete di un peschereccio, evento non proprio isolato considerato che ogni anno il mare e il suolo italiano continuano a farne affiorare decine ogni anno, la maggior parte delle quali armate e potenzialmente letali. Riusciti a portare sul ponte la carcassa semidistrutta dell’ogiva di una bomba aeronautica a caduta libera americana “per uso generico, a media capacità” da 227 chilogrammi, gli uomini a bordo erano riusciti ad aprire il corpo lungo 104,2 centimetri e con un diametro di 32,8 ed asportarne il contenuto rimasto, poco rispetto ai 100,7 chilogrammi in dotazione, ma comunque in buone condizioni e ancora operativo. Conosciuta anche col nome italiano di Tritolite, creata e sviluppata agli inizi della Seconda Guerra Mondiale dai laboratori di ricerca americani, la Composizione B è composta da una percentuale di 59,5% di RDX, 39,5% di Tritolo e un 1% di cera sintetica di paraffina. L’RDX, formalmente chiamato Ciclotrimetilenetrinitramina, ha caratteristiche eccezionali ed è stato scoperto e brevettato dal chimico e farmacista tedesco Georg Friedrich Henning nel 1898. È stato codificato con questo nome prima dall’esercito inglese come Royal Demolition eXplosive e poi prodotto in larga scala dagli Stati Uniti nel 1920 come “RD” Research and Development, ricerca e sviluppo, sigla comune a tutti i nuovi prodotti per la ricerca militare, e "X", la classificazione, nata come lettera provvisoria ma rimasta definitiva. L’esplosivo “giunto dal mare” era stato recuperato con lo stesso modus operandi per l’attentato al Giudice Falcone. Il Tritolo arrivava da un vecchio casolare di proprietà della zia di Gaspare Spatuzza, un affiliato della famiglia di Brancaccio guidata dai Graviano, proprio accanto alla proprietà della madre e solitamente usato come deposito. Una volta portato in superficie dalla Laura C. e recuperato al porto dopo essere arrivato in banchina all’interno di fusti cilindrici delle dimensioni di un metro per 50 centimetri di diametro legati con delle funi alle paratie del peschereccio di Cosimo d’Amato, era stato trasportato, nascosto sotto delle reti da pesca nel cassone dell’Ape Piaggio di Cosimo Lo Nigro da Spatuzza, in un capannone al civico 1419/D di Corso dei Mille, a Palermo, luogo sotto l’influenza della famiglia di Roccella capeggiata da Antonino Mangano, una delle quattro famiglie componenti il mandamento di Brancaccio. Lì era rimasto in stallo mezza giornata prima di essere trasferito da Cristofaro Cannella a bordo della sua Wolkswagen Golf nera scortato da Spatuzza in un altro deposito, questa volta nella zona industriale di Brancaccio e di proprietà della VaL. TRANS., ditta di trasporti dove Spatuzza è attualmente impiegato, per essere svuotati del contenuto pronto per essere deconfezionato. La Composizione B arrivava invece da un deposito clandestino di Misilmeri gestito da un certo Pieruccio Lo Bianco, chiuso in un armadio dopo he un peschereccio trapanese, la “Stella Maris”, lo aveva portato sulla terraferma. Il Tritolo, chiuso in federe di cuscini e poi in sacchi neri della spazzatura, provvisoriamente nascosti in un angolo del piazzale della VaL. TRANS. occultato sotto del materiale inerte scarto della lavorazione delle cave, e coperto da teloni, era stato successivamente prelevato, unito ai sacchi contenenti la Composizione B e trasportati in un immobile fatiscente di vicolo Guarnaschelli, a Palermo, messo a disposizione da Mangano che aveva reso utilizzabile il piccolo appartamento di due stanze, corridoio e bagno di proprietà del padre Salvatore, per la preparazione degli esplosivi. Qui il contenuto, solidificato per l’azione di acqua e umidità in grani di varia pezzatura, da pochi centimetri ad alcune decine, di colore giallo chiaro il primo e leggermente più scuro il secondo, era stato scaricato su di un tavolo poco alla volta, asciugato, dove erano state sbriciolate artigianalmente le scaglie di uno e i grani dell’altro setacciandoli con uno scolapasta, operazione ripetuta più volte fino all’ottenimento di due polveri asciutte e finissime pronte per essere ricompattate. La prima macinatura, eseguita mediante mazzuoli in ferro e recipienti in alluminio, aveva preceduto la seconda tramite una molazza procurata da Antonino Mangano, la stessa utilizzata anche per la macinatura della bomba di Firenze, di proprietà del padre Salvatore ed eseguita nel deposito di materiale edile della EdilVaccaro del cognato Giacomino, sito nella via Messina Montagne dove era stato lavorato del materiale anche per altre occasioni. Delle operazioni di macinatura, avvenute cinque giorni fa, se ne erano occupati Giuliano, Lo Nigro e Gaspare Spatuzza. Durante il lavoro, svolto tra il piccolo immobile fatiscente e il deposito di Vaccaro, i tre con la materia prima raffinata avevano poi proceduto al peso e al riconfezionamento in sacchi grandi neri della spazzatura, pressando con forza e avvolgendoli più volte con corde di cotone del diametro di 5 millimetri fino a dargli delle forme circolari, pronte per l’innesco, avvolte successivamente con nastro largo marrone per imballaggi a cui erano state apposte delle maniglie in cordoncino bianco per facilitarne la manipolazione. Gli involucri, simili a forme di parmigiano, molto ben protetti, erano stati prelevati dal luogo in cui erano provvisoriamente nascosti, l’ovile di proprietà di un certo Antonino Nastasi, detto Papase, mafioso di spicco di Castelvetrano e uomo molto vicino a Matteo Messina Denaro, e portati nel cassone dell’Ape Piaggio di Lo Nigro al capannone della ditta di Pietro Carra, un autotrasportatore che gravita negli ambienti mafiosi di Brancaccio, per essere trasportati fino alla Toscana. Il viaggio gli era stato commissionato da Giuseppe Barranca, uomo di spicco di Brancaccio, che si era recato negli uffici della CO.PRO.RA. srl, in Palermo, via Federico Orsi Ferrari, assieme a Lo Nigro, chiedendogli di preparare il camion, una motrice Volvo con semirimorchio del tipo ribaltabile provvisto di un doppio fondo vicino alle ruote con accesso sollevando una parte del pianale, utilizzato solitamente per conservare i teloni dopo averli ripiegati. Questo tipo di spedizione, già testata il 19 aprile per un trasporto di hashish che Carra aveva fatto transitare per loro da Palermo a Roma col compenso di 3 milioni di lire, dopo aver consentito l’arrivo a destinazione di 20 quintali in panetti da mezzo chilogrammo nascosti in camere d’aria di camion sistemate sul pianale in uno spazio ricavato tra traverse ferroviarie in legno e rottami d’auto, aveva fatto sì che gli uomini di Cosa Nostra riponessero nell’autotrasportatore la piena fiducia per i trasporti futuri di merci delicate in tutta sicurezza. Per la partenza, col medesimo compenso e dove Carra aveva approfittato di un trasporto già programmato di un altro semirimorchio da consegnare alla ditta Sabital di Firenze e che era stato legato sopra il pianale di quello trainato, si erano dati appuntamento al capannone di via Messina Marine dove l’uomo era arrivato trovandovi già Barranca, un certo Antonio Scarano, Giuliano e Lo Nigro che si era allontanato con Giuliano per tornare poco dopo coi pacchi coperti da una rete da pesca. Sistemale le forme nel doppio fondo delle dimensioni di 3 metri di lunghezza, 70 centimetri di altezza e 60 di profondità, gli era stato dato un foglio con un numero di un telefono fisso e il nome della destinazione: la provincia di Prato, dove sarebbe dovuto arrivare per le ore 20:00 di due giorni dopo e fermarsi davanti alla chiesa dei Testimoni di Geova. Qui era stato attrezzato un garage dopo che nel mese di aprile Giuseppe Ferro, capo del mandamento di Alcamo, chiamato da Gioacchino Calabrò, il capo della Famiglia di Castellammare del Golfo, messosi in contatto con lo zio Antonino Messana lo aveva esortato alla ricerca di un luogo utilizzabile per un giorno, scelta caduta su alcuni garage abbandonati siti di fronte alla sua abitazione, piccoli, anonimi, perfetti per l’allestimento dell’autobomba. Il giorno successivo, dopo aver lasciato il capannone Carra si era imbarcato col camion a Palermo lasciando la Sicilia con la motonave Freccia Rossa della compagnia di navigazione “Grandi Traghetti” delle ore 18:00 per poi sbarcare al porto di Livorno alle ore 14:30 e dirigersi a Galciana, una frazione di Prato, dove aveva appuntamento per le ore 20:00 del giorno 25. Aveva percorso la Firenze-Mare con direzione Livorno-Firenze e con sempre in mano il biglietto col numero di telefono da chiamare in caso di necessità era uscito a Prato-Ovest, percorrendo il tragitto molto lentamente, fermandosi in ogni area di servizio in quanto aveva molto tempo davanti a sé e poca strada da percorrere. Appena prima di arrivare a Prato, verso le 19:30 aveva ricevuto una telefonata sul cellulare da Barranca che gli aveva spostato l’appuntamento alle ore 23:00, sempre al solito posto, perciò, dopo essersi fermato e aver dormito fino alle 22:40 aveva ripreso il viaggio arrivando alla chiesa all’entrata del paese per l’ora stabilita spegnendo il motore davanti ad un parcheggio in cui aveva chiamato il numero di telefono lasciatogli in Sicilia. Si era poi addentrato per le vie del paese fino al cimitero, dove in via Olinto, un vialotto di campagna che lo fiancheggia, una volta raggiunto da Lo Nigro, Giuliano e Spatuzza su una Uno bianca targata Firenze di proprietà di Tommasa Perricone, moglie di Antonio Messana, capo della Famiglia di Alcamo, in cui prima che in poco più di un’ora venisse scaricato l’esplosivo e trasportato nel garage di via Sotto l’Organo di Galciana di Prato messo a disposizione da Messana, Carra era stato messo in allerta per la ripartenza con Barranca per rientrare a Palermo. Il Punto Zero, il vicolo di Firenze dove fare esplodere il Fiorino, non era stato confermato subito, ci erano voluti due sopralluoghi distinti, il 24 e il 25 maggio, dove erano stati valutati i danni, la possibile presenza di forze di polizia, la larghezza delle strade, il punto in cui fermarsi ma soprattutto il percorso per poterlo raggiungere. Nel secondo, Lo Nigro e Giuliano si erano portati dietro Vincenzo Ferro, figlio di Giuseppe Ferro, nipote di Antonino Messana, studente universitario alla facoltà di medicina e mafioso riluttante. Dalla stazione ferroviaria avevano raggiunto a piedi Piazza della Signoria, avevano attraversato velocemente il Piazzale degli Uffizi fino a raggiungere il Lungarno, avevano scandagliato la zona escludendo il Piazzale degli Uffizi perché affollato e per la presenza massiccia di telecamere, ed erano andati a cena in ristorante. Due ore dopo, dopo aver percorso a ritroso lo stesso itinerario avevano confermato il luogo prescelto: via dei Georgofili. È stato il 26 pomeriggio, intorno alle ore 18:00 che Giuliano e Spatuzza, allontanatisi a bordo della Uno erano rientrati dopo circa un’ora col piccolo furgone della Fiat. Della ditta fiorentina FIRE e di proprietà di un certo Alvaro Rossi, mezzo perfetto poiché in meno di 4 metri di lunghezza riusciva ad offrire un volume utile di carico di 3,2 metri cubi, con il piano di carico a soli 50 centimetri da terra e le dimensioni interne utili di 1,78 metri in lunghezza, 1,35 in larghezza e 1,36 in altezza, lo avevano rubato intorno alle ore 19:30 in via della Scala, in prossimità della sua abitazione nei pressi della stazione di Santa Maria Novella dopo vari tentativi di ricerca di un mezzo adeguato che potesse trasportare un volume di carico come quello che si sarebbero apprestati ad assemblare da lì a poco nel garage posto sotto l’abitazione di due livelli di Antonio Messana. Rimosso il portapacchi dal tettuccio in modo che potesse entrare nel piccolo box, Lo Nigro, Giuliano, Spatuzza e Barranca in poco meno di tre ore avevano reso operativa la bomba nei tre metri cubi del vano merci: una carica esplosiva del peso di 260 chilogrammi ad altissimo potenziale armata con due detonatori a fuoco, artifizi esplosivi primari diretti discendenti di quelli inventati dal chimico e ingegnere svedese Alfred Nobel nel 1867 e contenenti nel loro corpo cilindrico in alluminio una piccola quantità di esplosivo secondario, la Pentrite, uno degli esplosivi più potenti preparato per la prima volta nel 1891 dal chimico tedesco Bernhard Tollens, innescato a sua volta da pochissimo esplosivo primario, l’Azoturo di Piombo, il preparato dalla Curtis's and Harvey Ltd Explosives Factory nel 1890. Alle estremità dei detonatori, affondati all’interno del pacco piccolo preventivamente forato con un cacciavite e costituente la carica di spinta, erano stati fissati due spezzoni di miccia a lenta combustione della lunghezza di 1,5 metri ciascuno calibrati per un percorso di fiamma di 1 metro ogni 120 secondi e calcolati per un tempo di 3 minuti per la fuga. La miccia, del tipo catramato, di colore nero costituita da un rivestimento in catrame e del diametro di 5 millimetri, diretta discendente della corda di canapa catramata brevettata il 6 settembre del 1836 da William Bickford è costituita da un cordone di cotone impermeabile con un’anima di Polvere Nera, esplosivo costituito da 74,65% di nitrato di potassio, 13,50% di carbone e 11,85% di zolfo, ricetta arrivata ai giorni nostri grazie al monaco e scienziato Ruggero Bacone nel 1249 modificando quella comparsa per la prima volta in un'opera di Wu Ching Toung Yao nel 1044 che nel 1044 suggeriva il dosaggio di un 74% in peso di nitrato di potassio, 15% in peso di carbone e 11% in peso di zolfo. Micce e detonatori provengono da una cava di sabbia, la INCO di Roccamena-Camporeale, nel territorio di Roccamena, nel Belice, da cui la sua famiglia mafiosa si era in passato rifornita per approvvigionarsi per altri attentati, di proprietà di Giuseppe Modesto, un imprenditore molto vicino a Giovanni Brusca. Questo aveva approfittato della sua “amicizia” nonché della parentela con Franco Piedescalzi, l’addetto al maneggio degli esplosivi della cava, qualche mese fa tramite Giuseppe Agrigento, anche lui persona molto vicina a Brusca nonché capofamiglia di San Cipirello, incaricato di recuperarne quanti più possibili assieme ad un ingente quantitativo di esplosivo in previsione di una serie di attentati iniziati con quello al giudice Giovanni Falcone del 23 maggio dell’anno scorso dov’era saltato in aria assieme a parte della scorta e dell’Autostrada A29. Messi a contatto i pani e ricontrollati i collegamenti, il furgone era stato chiuso pronto a scatenare l’inimmaginabile entro due ore. Nel vicolo di Firenze sono passati 40 minuti dalla mezzanotte, mentre Giuliano è a bordo della Fiat Uno Lo Nigro è sul Fiat Fiorino fumando un sigaro. Ci sono anche Spatuzza e Barranca, poco lontano, che osservano il Fiorino fermarsi davanti alla Torre dè Pulci. Lo vede anche una donna fermarsi in via dei Georgofili, sede della famosa e omonima Accademia, immobile e a fari sono spenti tanto da non suscitare curiosità o sospetti e farle proseguire la passeggiata. Mentre la Uno si allontana lasciando il furgone vuoto e le micce accese, una coppia gli passa davanti, un uomo e una donna chiacchierano tenendosi per mano non facendo caso all’auto silente, fermandosi qualche secondo per poi proseguire nel buio. Sono le ore 01:04, l’ultimo centimetro di miccia si esaurisce. La fiamma, arrivando all’interno dei detonatori accende l’Azoturo di Piombo sensibile al calore che esplodendo innesca la Pentrite a contatto con la carica di spinta. Con una reazione a catena velocissima la Composizione B attiva il Tritolo che detona con una velocità di 6.800 metri al secondo. Il Fiorino esplode e l’esplosione è violentissima. Il boato spaventoso spezza il cuore di Firenze, la sveglia, la terrorizza. Il centro viene sventrato. La Torre dè Pulci, che ospita l'antica Accademia dei Georgofili, viene aperta fino al soffitto. Tre piani di storia crollano risucchiando nel sonno la famiglia di Fabrizio Nencioni, ispettore dei vigili urbani, e di Angela Fiume, custode dell'Accademia, che abitano al terzo piano. La famiglia scompare in un lampo di fuoco insieme alle due bambine, Nadia e Caterina, trascinate giù senza avere neanche il tempo di capacitarsi di niente. Mentre una sfera di gas ad altissima pressione si abbatte sugli edifici vicini, la stretta via dei Georgofili e quella di via Lambertesca ne amplificano l'effetto incanalando l'onda di sovrappressione nel labirinto rinascimentale che spazza via qualsiasi cosa con una forza impressionante. Le tegole volano giù dai tetti, legni e pietre piovono sulle strade colpendo i passanti. Al Quisisana, una pensione con vista sull'Arno a 30 metri da Ponte Vecchio si scatena il panico con l'intonaco che cede, le finestre che saltano e i vetri che si frantumano. Gli Uffizi, il Corridoio Vasariano, il Museo di Storia della Scienza e la Chiesa di Santo Stefano al Ponte sono squassati dalle fondazioni. Le porte vengono scardinate, le finestre divelte, le pareti si crepano e i pavimenti si sollevano mentre una rosa di mattoni squarciano i quadri, sfregiano le statue, distruggono volte e lucernari. Una nuvola di polvere e detriti avvolge e travolge il centro storico. È un inferno senza luce che dura pochi secondi poiché il palazzo davanti all'Accademia prende immediatamente fuoco, sorprendendo una giovane coppia al terzo piano. Francesca Chelli, 22 anni, spezzina, studentessa di architettura, coperta di ustioni riesce a scappare mentre Dario Capolicchio, il suo fidanzato, viene inghiottito dal rogo dietro di lei. In strada qualcuno vede la sua figura barcollare verso la finestra avvolta dalle fiamme che alzando le braccia tenta di sporgersi invano. L’ombra cade all’indietro sparendo davanti agli occhi di chi gli urla di resistere. Qualcuno in strada urla, chiede aiuto, corre, picchia i pugni contro portoni da cui non apre nessuno. Un uomo dietro un vicolo si trascina tra la polvere, cerca il suo occhio strappatogli via da una scheggia impazzita. Il fumo e le fiamme si propagano, sfiorano gli Uffizi mentre Polizia, Carabinieri e Vigili del Fuoco si sono riversati in strada per dare soccorso, un soccorso disordinato, confuso, tra turisti e residenti che scappano dagli alberghi e dalle abitazioni scalzi e in vestaglia senza avere la minima idea di cosa stia succedendo. Pianti e grida di dolore e paura si mischiano ai ruggiti delle fiamme che aggrediscono i solai in legno, dei muri che collassano e delle sirene che rimbombano tra i vicoli. Centinaia sono le persone che si accalcano tra Piazza della Signoria, il Lungarno e Ponte Vecchio mentre in mezzo al fumo e alla polvere il numero dei feriti sale con una velocità spaventosa. Prima dieci, poi venti, trenta. Alla fine saranno 48. Appena la polvere si adagia sul terreno ecco che appare quello che nessuno avrebbe voluto vedere: il cuore antico della città sembra lo scenario di un bombardamento che ha interessato un’area di 12 ettari con forma circolare e del diametro di 400 metri. Nella Chiesa di Santo Stefano al Ponte, sul lato che guarda piazza del Pesce, l’onda d’urto ha scardinato la “macchina architettonica” dell’edificio per effetto del sollevamento della cupola fuoriuscita dalle geometrie normali. La caduta del materiale di costruzione ha interessato la parte absidale del complesso danneggiando gravemente il prezioso altare sottostante e alcune pitture in quel momento ricoverate nella sagrestia della chiesa. Gravemente danneggiate anche l’Accademia dei Georgofili, l’Istituto e Museo della Storia e della Scienza, parte della Galleria degli Uffizi e del Corridoio Vasariano con la compromissione sia delle strutture murarie, dei collegamenti verticali, dei lucernari, dei soffitti e dei tetti del complesso artistico-monumentale, sia del 25% delle opere d’arte contenute, con 173 dipinti, 42 busti archeologici e 16 statue di grandi dimensioni rovinati per sempre. Il Fiat Fiorino, dove Cosa Nostra aveva stipato il nuovo ultimatum allo Stato è sparito. Il blocco motore si trova all’interno del cortile del palazzo vicino, letteralmente sparato a 35 metri di distanza dopo averne sbriciolato, attraversandolo, il gigantesco portone di legno massiccio. Il telaio è a 7 metri, poco dopo un pezzo di targa e la ghiera del cambio. Al suo posto ora c’è un cratere di forma ellissoidale con diametro parallelo alla via dei Georgofili di 495 centimetri, quello normale all’asse stradale di 290 centimetri, profondo 141 centimetri con un perimetro di 13,93 metri, un’area di 11,429 metri quadrati e un volume di 9,53 metri cubi. Mentre da una lato del cratere qualsiasi cosa è stata crivellata dalla rosata di schegge irradiata dall’epicentro, dall’altra invece c’è il vuoto, con la Torre dè Pulci ridotta ad una piramide di macerie alta 4 metri dove è rimasta in piedi solo una parete con una cyclette appoggiata al muro, un armadio, i pensili della cucina e un seggiolone in precario equilibrio. Tra i detriti spunta una ruotina di un passeggino, poco più in là una culla, poi un piedino accanto ad un album di foto bruciacchiato, strappato e mosso dal vento che ritraggono la giornata di domenica ad un battesimo. Qualcuno guarda quel piede, sembra quello di una bambola ma non lo è, è quello di una bambina. Caterina, 50 giorni appena, non respira più, è lei nelle foto. È morta schiacciata da tonnellate di pietra e legno assieme ai genitori e alla sorellina di 9 anni. Mentre un vigile del fuoco si avvicina, la avvolge in un lenzuolo, la tiene stretta a sé dirigendosi verso l’ambulanza in fondo alla via, Giuseppe Barraca, disteso nella brandina del camion dietro la cabina del Volvo di Pietro Carra fermo sulla statale Firenze-Mare, ascolta la notizia da una radio mangianastri comprata in una stazione di servizio dell’Agip prima della deviazione per Genova-Livorno, soddisfatto per l’operazione compiuta. C’è chi chiamerà le vittime “effetto collaterale”, chi “imprevisto”, ma resta il fatto che quel fagotto in miniatura ha appena mostrato a tutti che Cosa Nostra, volente o nolente, ha appena raggiunto un altro livello.

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