01 ottobre, 2021

Milano, Banca Nazionale dell'Agricoltura, 12 dicembre 1969


TIPOLOGIA: attentato
CAUSE: carica occultata
DATA:
12 dicembre 1969
STATO: Italia
LUOGO: Milano, Banca Nazionale dell’Agricoltura
MORTI:
17
FERITI:
88

Analisi e ricostruzione a cura di Luigi Sistu

Sono le ore 16:15 del 12 dicembre 1969, è venerdì pomeriggio, Natale è ormai prossimo, spuntano i primi addobbi e a Milano i negozi sono già affollati. La sede della Banca Nazionale dell'Agricoltura di piazza Fontana è ancora piena di gente. Normalmente l’orario di chiusura dell’istituto di credito sarebbe alle ore 16:30, tuttavia oggi è il giorno del mercato e con un po’ di elasticità la chiusura dei cancelli è stata posticipata per consentire ai clienti il completamento le proprie incombenze. Fuori piove, un motivo in più per consentire ai coltivatori diretti, imprenditori agricoli, allevatori, mediatori, commercianti di mangimi e piccoli risparmiatori di campagna arrivati da tutta la provincia, di restare all’interno della struttura. La Banca Nazionale dell'Agricoltura è l’unica a Milano a permettere ai propri clienti di prolungare le mediazioni oltre l’orario di chiusura, contrattazioni effettuate nella grande sala, “la rotonda”, dove al centro, in corrispondenza del tetto a cupola, trova posto un massiccio tavolo ottagonale di mogano con sopra una spessa lastra di cristallo e un ripiano sottostante in cui i clienti possono sistemare le proprie borse. In alto, due piani di vetrate circolari dominano l’area circostante degli uffici amministrativi che vista l’ora tarda si stanno pian piano svuotando degli impiegati. Tutt’intorno, dietro il bancone circolare vi stazionano ancora gli sportellisti e i funzionari della banca, in tutto sono una settantina. All’esterno, alla fine di via Santa Tecla, il taxista Cornelio Rolandi ha appena lasciato un individuo in abito scuro a 130 metri dall’ingresso dell’edificio. È salito sul taxi in piazza Cesare Beccaria e scendendo dall’auto ha chiesto all’autista di attenderlo mentre si dirige camminando normalmente, senza fretta, verso la banca. Ha con sè una grossa borsa in vinilpelle, una Mosbach-Gruber fabbricata in Germania, nera con fibbia di metallo e un gallo inciso sopra. Si chiama Delfo Zorzi, ha 27 anni, è nativo di Mestre, è laureato in Lingue Orientali all’Istituto Universitario Orientale di Napoli ed è un esponente di Ordine Nuovo. Questa falange extraparlamentare di estrema destra è appena nata, è guidata dal politico Clemente Graziani e vi fanno parte alcuni militanti dell’associazione politico-culturale di estrema destra Centro Studi Ordine Nuovo fondata nel 1956 dal politico esponente del Movimento Sociale Italiano Pino Rauti. Assieme a Carlo Maria Maggi, referente per il Triveneto, 35enne laureato in medicina che esercita la professione presso l'ospedale geriatrico Giustinian di Venezia e come medico di base nell'isola della Giudecca, Zorzi guida la cellula veneziana-mestrina del neonato movimento. Questa organizzazione, una vera e propria struttura armata articolata in cellule, da quella di Venezia-Mestre a quella di Padova, forma una rete eversiva protetta dagli apparati statali e utilizzata in chiave anticomunista. Ogni qualvolta che una cellula si muove agisce in maniera del tutto indisturbata attivando con lei armeria e polveriera. Zorzi, in silenzio, apre la porta a vetri, entra nel grande atrio della banca, si confonde nel via vai disordinato, si sbottona il cappotto, si toglie il cappello, si siede in uno dei posti liberi attorno all’enorme tavolo ottagonale che domina il centro del salone, si guarda intono, appoggia la borsa per terra, un po’ riparata dagli sguardi di chi è seduto vicino a lui. Non servirebbe nemmeno, nessuno farà mai caso a quella borsa, una delle tante nella stanza piena di gente, ci saranno almeno un centinaio di persone. Capannelli di clienti che discutono qua e là, impiegati dell’istituto di credito che vanno e vengono dal bancone, gente che fa la fila davanti a uno sportello per pagare una cambiale, riscuotere un assegno, prelevare del denaro mentre i telefoni squillano e le voci si rincorrono con gli accenti più diversi. L’uomo, mentre compila un modulo spinge la borsa con i piedi verso il centro del tavolo, poi si chiude il cappotto, si rimette il cappello, si alza e si allontana senza voltarsi indietro, con passo deciso diretto al portone d’ingresso. Attraversa di nuovo il salone e dopo essere passato davanti a quelle facce, a quegli uomini venuti dalla periferia dove probabilmente non faranno ritorno, esce dalla banca dove, ad attenderlo, il tassista è ancora lì. L’uomo risale nell’auto che riparte proseguendo per la via Santa Tecla in direzione di via Albricci. Nella sede della Banca Nazionale dell'Agricoltura, al centro del salone è rimasta la valigia, sola, è un modello senza il doppio scomparto, alla signora Loretta Galeazzo, commessa della Valigeria Al Duomo di Padova, era stato chiesto proprio quello, grande, molto capiente, abbastanza da contenere un volume equivalente a 7 chilogrammi di esplosivo. La bomba, ad alto potenziale, è costituita da due unità distinte, una di esplosivo per uso civile, 4 chilogrammi, e una per uso militare, 3 chilogrammi. Il primo, in candelotti, è il Vitezit 30, un prodotto per un uso prettamente estrattivo fabbricato dalla Chemical Industry Slobodan Princip-Seljo di Vitez, in Jugoslavia. È sostanzialmente una Gelignite, il primo esplosivo plastico della storia, ed è a base di Nitrocellulosa, un composto chimico con proprietà infiammabili-esplosive scoperto dal chimico tedesco Christian Friedrich Schönbein nel 1846, dissolta nella Nitroglicerina, la sostanza scoperta dal chimico e medico italiano Ascanio Sobrero nel 1847 sintetizzando proprio la Nitrocellulosa seguendo gli esperimenti falliti nel 1845 del chimico tedesco Christian Friendrich Schönbein. Miscelata con polpa di legno e Nitrato di Potassio, la Gelignite era stata inventata nel 1875 dal chimico e ingegnere svedese Alfred Nobel, già inventore della Dinamite, ed essendo molto più stabile della prima, poteva essere maneggiata con maggiore sicurezza tanto da diventare il miglior prodotto in uso per le attività estrattive, essere fabbricata in enormi quantità e, grazie al suo potere distruttivo, il primo esplosivo preferito dell’IRA irlandese che aveva fatto scuola ai “lealisti” di tutto il mondo. La cellula dell’organizzazione è ben fornita, 200 candelotti, avvolti in carta paraffina color mattone e comprati da un certo Roberto Rotelli, un simpatizzante di destra della zona di Venezia-Lido esperto sommozzatore facente parte del Gruppo Subacquei San Marco e titolare di una società che dispone di questo esplosivo per le attività di recupero dalle navi affondate. Vengono tenuti in un bunker nei pressi del Canale Alberoni-Petroli, un canale artificiale che collega il Mare Adriatico dalla bocca del porto di Malamocco al porto commerciale di Marghera attraversando la laguna di Venezia. Essendo un esplosivo delicato e molto potente ogni cartuccia è avvolta in carta di giornale e riposta dentro sacchi di juta imbottiti di segatura al fine di assorbire l’umidità ed evitare il trasudamento che renderebbe instabile il principio attivo moltiplicandone la sensibilità e quindi la pericolosità del maneggio. La seconda unità della bomba invece, l’esplosivo di tipo militare, è costituita da Trinitrotoluene puro. Confezionato in panetti e preparato per la prima volta nel 1863 dal chimico tedesco Julius Wilbrand, perfezionato dal chimico tedesco Hermann Frantz Moritz Kopp nel 1888 e prodotto industrialmente in Germania un anno dopo col nome di Tritolo o Tnt, occultato tra le merci trasportate da vari autoarticolati è arrivato dalla Cecoslovacchia entrando in Italia dalla Svizzera transitando per la Germania. Ordine Nuovo lo ha recuperato dall’unico luogo che al nord ha accesso e possiede in grandi quantità questo tipo di materiale, uno dei depositi segreti italiani di un’organizzazione paramilitare dormiente creata per intervenire in caso di un’ipotetica invasione dell’Europa occidentale da parte del blocco comunista guidato dall’Unione Sovietica: Gladio. Dipendente dalla NATO, Gladio non è l’unica struttura di sicurezza parallela presente in Europa, fa parte di un insieme molto più ampio di operazioni segrete, le “covert operations”, una sorta di rete di strutture in vari paesi del blocco occidentale chiamata “Stay-Behind” con diramazioni anche in Grecia, Belgio, Francia, Germania e Paesi Bassi. Con la sua nascita, ufficialmente il 26 novembre 1956 con un accordo tra la CIA, la Central Intelligence Agency, e il SIFAR, il Servizio Informazione Forze Armate poi sostituito dal SID, il Servizio Informazioni Difesa, per il suo smantellamento nel 1965 a causa della scoperta di attività illegali di dossieraggio su tutta la classe dirigente italiana in cui raccoglievano informazioni riservate e delicate che rendevano i politici ricattabili, Gladio era in movimento già dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Con le prime divergenze tra Stati Uniti e Unione Sovietica, dove agli americani era chiaro che nei paesi all’interno della loro sfera di influenza bisognava contenere a tutti i costi il comunismo, la priorità e le attenzioni maggiori erano state focalizzate sull’Italia per almeno due motivi: per la sua posizione geografica, al “confine” tra blocco occidentale e blocco sovietico, e per il fatto di avere uno dei partiti comunisti più forti e strutturati d’Europa, il PCI, il Partito Comunista Italiano. La Gelignite, che costituisce la parte innescante della bomba, è armata da un detonatore a fuoco annegato longitudinalmente in uno dei candelotti che la compongono. Il detonatore, un cilindro di alluminio versione moderna del tubetto di stagno progettato da Alfred Nobel nel 1867, contiene all’estremità una piccola quantità di esplosivo secondario, la Pentrite, uno degli esplosivi più potenti, preparata per la prima volta nel 1891 dal chimico tedesco Bernhard Tollens, innescata a sua volta da uno primario, l’Azoturo di Piombo, il preparato della Curtis's and Harvey Ltd Explosives Factory del 1890. All’interno del detonatore è fissato uno spezzone di pochi centimetri di miccia del tipo a lenta combustione calibrata per un percorso della fiamma di 1 metro ogni 120 secondi. Questa è la diretta discendente della corda di canapa catramata brevettata il 6 settembre 1836 da William Bickford, costituita da un cordone di cotone impermeabile con un’anima di Polvere Nera, esplosivo costituito da 74,65% di nitrato di potassio, 13,50% di carbone e 11,85% di zolfo, ricetta arrivata ai giorni nostri grazie al monaco e scienziato Ruggero Bacone nel 1249 modificando quella comparsa per la prima volta in un'opera di Wu Ching Toung Yao nel 1044. Alla miccia è nastrato un fiammifero controvento avvolto da un filo di nichel-cromo collegato ad un congegno meccanico a tempo con arco massimo di 60 minuti del tipo Diehl 60/m/n/d a deviazione, stesso modello usato nelle lavastoviglie e venduto dalla ditta Gavotti di Milano. Franco Freda di questi ne aveva acquistati 50, li aveva fatti arrivare alla Gavotti a settembre ordinandoli dalla Elettrocontrolli di Bologna dove Tullio Fabris, il suo elettricista, li aveva ritirati per poi consegnarli alla segretaria del suo studio assieme a 5 metri di filo di nichel-cromo. Fabris era estraneo al gruppo e a qualsiasi militanza politica, era semplicemente l’elettricista a cui Freda, dopo averlo impiegato in alcuni comuni lavori da artigiano nella fase del rinnovo dell’arredamento del suo studio di Padova, aveva chiesto, in confidenza e approfittando di ingenuità e buona fede, alcune delucidazioni sul funzionamento del Diehl a deviazione. In modo da silenziare il ticchettio del timer, chiusa ermeticamente in una cassetta metallica in lamiera d’acciaio con verniciatura martellata di marca Juwel, delle dimensioni di 30 centimetri per 24 per 9, con serratura a cilindro, maniglia e apertura a cerniera e fabbricata a Lainate, alla parte innescante dell’ordigno alimentata e completata da due pile da 4,5 Volt è unità la seconda chiusa in un involucro nastrato e perfettamente aderente alla prima. 28enne militante neofascista “nazimaoista” per le sue teorie a metà strada tra nazismo e maoismo, Freda è laureato in giurisprudenza all’Università di Padova. Conosciuto come “l’editore” per il suo lavoro, ha alle spalle 29 feriti per tre bombe esplose a Milano il 25 aprile, una alla Fiera Campionaria e due alla Stazione Centrale, e altre 8 esplose il 9 agosto all’interno di treni in sosta alle stazioni di Chiari, Grasignano di Zocco, Caserta, Alviano, Pescara, Pescina e Mira. È membro della cellula padovana di Ordine Nuovo che gestisce con Giovanni Ventura, 25enne laureando in filosofia, proprietario della rivista “Ezzelino” ed editore che rende conto ad un attivista di estrema destra, Guido Giannettini, giornalista ed agente del SID, il Servizio di Informazioni e Difesa italiano, con cui ha in comune l’esplosivista e l’artificiere della cellula, Carlo Digilio. Col nome in codice “Erodoto”, il 32enne romano, militare di carriera, Digilio si era occupato della costruzione della bomba e dei tre test effettuati nel periodo tra ottobre e novembre serviti a sperimentare il sistema di armamento. Sono le ore 16:36 e nell’atrio della banca i clienti si accingono a concludere le contrattazioni, qualcuno sta ancora firmando delle cambiali, altri si scambiano dati e informazioni. All’interno della borsa il congegno meccanico a tempo ha iniziato a scandire l’ultimo minuto. C’è ancora qualcuno seduto al tavolo, scrive, chiacchiera, ma il disco-orario arriva a zero, il circuito elettrico si chiude, la corrente dalla batteria arriva al filo di nichel-cromo che in pochi secondi si arroventa accendendo la pasta di clorato di potassio e solfuro di antimonio della capocchia del fiammifero controvento. Lo spezzone di miccia si scalda e il calore, arrivando in una frazione di secondo all’anima di Polvere Nera, la infiamma. Pochi secondi e qualcuno seduto al tavolo inizia a sentire l’odore di bruciato, la fiamma sta percorrendo i centimetri del cordone impermeabile, i clienti al tavolo si guardano, l’odore si fa più forte mentre la fiamma entra nell’estremità cava della capsula del detonatore. La carica primaria si innesca, in una reazione a catena di poche frazioni di secondo l’Azoturo di Piombo accende la Pentrite che attiva il plastico. Sono le ore 16:37, la Gelignite della prima carica detona innescando la seconda. Una luce, un boato, l’esplosione fa tremare il tetto a cupola del grande salone. I corpi si accartocciano, si bruciano, si straziano, volano gambe e braccia, pezzi di metallo e legno fendono l’aria come proiettili squarciando le carni e ferendo a morte. L’onda d’urto polverizza il tavolo, frantuma le vetrate interne e scardina quelle perimetrali, raggiunge il primo piano sorprendendo l’impiegato dello sportello numero 15, Fortunato Zinni, che sta chiudendo la vetrata con la schiena appoggiata al vetro. L’uomo viene scagliato tre metri più avanti contro lo schedario di metallo mentre alle sue spalle la vetrata frana nel salone circolare. Gli uffici vengono devastati, 17 persone smembrate. Schegge di legno, pietra e metallo sparate a 360 gradi hanno trapassato tutto. In 13 muoiono sul colpo, altri 4 poco dopo. Il fragore dell’assordante boato è sostituito da un momentaneo silenzio. Lo spettacolo è spettrale: fumo e detriti sono ovunque, i resti umani anche sulla superficie della cupola. I corpi bruciano, nella penombra del salone, tra il pulviscolo e il fumo soffocanti, una ragazzina sporca di sangue e polvere ha il viso dilaniato da pezzi di cristallo, cammina per la sala, sta cercando il suo braccio che le è strappato di netto, pochi metri e crolla a terra priva di sensi. L’atrio è una macelleria fumante e tra gli arredi rivoltati degli uffici i telefoni iniziano a squillare ininterrottamente. A chiamare è la questura, dove è scattato l’allarme. A sollevare la cornetta è un impiegato che vivo e sotto shock si muove nel buio circondato dal fumo acre e dai lamenti dei feriti: è Fortunato Zinni. “Che cosa vede?”, gli domanda il poliziotto all’altro capo del filo, in via Fatebenefratelli. “Un braccio, vedo un braccio”. Con una mano tesa in avanti e una a sorreggersi alla parete, l’uomo cerca di mettere timidamente un piede davanti all’altro. Vede una mano, poi un altro braccio, ora una gamba, in basso due uomini strisciano, non hanno più le gambe, dietro di loro il sangue si mischia alla polvere, c’è ancora tanto fumo e chi può cerca di raggiungere l’esterno camminando alla cieca. L’odore è acre, pungente, come di carne bruciata misto a disinfettante che rendono l’aria irrespirabile. 88 persone sono coperte di sangue, cercano soccorso, gridano, supplicano l’aiuto di una città che minuto dopo minuto viene avvolta da un silenzioso terrore rotto dalle sirene laceranti delle ambulanze che percorrono le strade di Milano a tutta velocità. All’interno della banca il pavimento del salone è stato squarciato, al centro c’è una voragine di un metro di diametro. Ha contorni nettissimi, l’onda d’urto ha rotto la pia­llatura di copertura, la soletta di cemento e parte dell’armatura della struttura in calcestruzzo armato tanto da rendere comunicante il piano in cui è esplosa la bomba con quello sottostante. La resistenza opposta in basso dalla soletta di cemento del pavimento e in alto dal pesante massello in mogano del tavolo ha fatto sfogare la potenza dell’onda esplosiva in orizzontale, verso la parte sinistra della rotonda. È qui il maggior numero di morti. Sono le ore 16:40, al Palazzo di Giustizia, a due passi da piazza Fontana, la notizia viene comunicata per telefono. Il Procuratore Capo Enrico De Peppo e il sostituto di turno, Ugo Paolillo, escono dai loro uffici e raggiungono quasi di corsa il luogo della strage dove ad attenderli ci sono già il questore Marcello Guida, il cardinale Giovanni Colombo e il Direttore Generale della banca, Pietro Macchiarella. I presenti atterriti sono da questo macabro spettacolo, un braccio è attaccato al muro, una testa è sul pavimento accanto ad una sedia, il sangue colora il vetro polverizzato, brandelli di cadavere spuntano da ogni parte, è una macelleria dell’orrore. Gocce di sangue scendono cadenzate sul pavimento da pezzi di carne compressi sull’intonaco dei muri e sulla cupola. Nel grande emiciclo della banca i cadaveri sono a terra sopra vetri rotti, pezzi di mobili e di cemento. I corpi dilaniati, frantumati, sono in mezzo a pozze di sangue nero. Un terribile odore di morte e un pesante silenzio rotto è rotto solo da un pianto isolato. Ci sono teste, braccia, gambe staccate dal corpo, due uomini scaraventati fuori dalle vetrate sono ancora sull’asfalto mentre negli uffici c’è chi sventrato grida tenendosi la pancia con le mani. La palla di fuoco e la successiva onda d’urto rimbalzando sulla parete hanno provocato il crollo del rivestimento in mattoni forati che delimitava l’angolo posteriore sinistro del locale. L’onda d’urto, dilagandosi nella rotonda ha frantumato prima i divisori di vetro degli sportelli del bancone circolare, poi le vetrate del primo e del secondo piano, poi quelle della cupola sovrastante trasformando i vetri in una pioggia che ha martoriato ulteriormente i corpi dei clienti inermi stesi sul pavimento, e infine è andata ad incanalarsi da una parte nel corridoio che immette nei sotterranei facendolo collassare, dall’altra verso esterno sfogando dalle vetrate sul piazzale antistante dove le macchine parcheggiate sono state sbalzate in avanti e i passanti travolti prima dall’onda di sovrappressione, poi da porzioni di struttura staccatisi della facciata. È un disastro, un evento che nessuno si aspettava sarebbe mai successo, una carneficina acuto di una giornata convulsa perché c’è una seconda bomba e si trova nella sede della Banca Commerciale Italiana, in piazza della Scala, a neppure un chilometro in linea d’aria da piazza Fontana. È lì, immobile, sarebbe dovuta esplodere a banca chiusa ma qualcosa non ha funzionato perché il meccanismo si è inceppato. Altre tre invece hanno funzionato, sono esplose a Roma, nella Capitale: la prima ha ferito 14 persone, si è innescata alle ore 16:55 nel passaggio sotterraneo che collega l'entrata della Banca Nazionale del Lavoro di via Veneto con quella di via di San Basilio; la seconda si è innescata alle ore 17:20 davanti all'Altare della Patria, sotto il pennone della bandiera; la terza ha ferito 4 persone innescandosi dieci minuti dopo, alle ore 17:30, davanti all'ingresso del Museo Centrale del Risorgimento, nella centralissima piazza Venezia. All’interno della banca il dottor Paolillo è nel salone a guardarsi intorno, quasi incredulo, a trovare la forza e le parole per dare le prime disposizioni, ordinare i primi accertamenti, coordinare gli interventi. Fuori intanto si è radunata una folla, la città è divisa tra lo stupore e lo sdegno, l’orrore e l’indignazione. Queste bombe, questi segnali, hanno appena inaugurato uno dei periodi più bui della nostra epoca, sarà l’inizio di una serie preordinata e ben congegnata di eventi atti alla destabilizzazione del paese, complici la forte ondata di lotte sociali del 1968-69 e l’avanzata anche elettorale del Partito comunista italiano, questi eventi saranno volti a creare in Italia uno stato di tensione e una paura diffusa nella popolazione tali da far giustificare o addirittura auspicare svolte di tipo autoritario, trasformando l’Italia in una sorta di dittatura “morbida”. Una strategia eversiva questa gestita da una pluralità di soggetti: la componente neofascista e rivoluzionaria, mera manovalanza, che spinta da elementi infiltrati all’interno la spingeranno a compiere azioni terroristiche, la componente dei servizi segreti del SID, che non privi di complicità e legami internazionali forniranno gli elementi infiltranti e garantiranno la copertura degli eventi attribuendone la paternità ad altri o sfruttando mediaticamente a proprio favore perfino episodi esterni alla strategia, e la componente massonica, che fungerà da direttivo. Lo stragismo degli anni Settanta è cominciato.

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