TIPOLOGIA: attentato
CAUSE: carica occultata
DATA: 12 dicembre 1969
STATO: Italia
LUOGO: Milano, Banca Nazionale
dell’Agricoltura
MORTI: 17
FERITI: 88
Analisi e ricostruzione a cura di Luigi Sistu
Sono le ore 16:15 del 12 dicembre 1969, è venerdì pomeriggio, Natale è
ormai prossimo, spuntano i primi addobbi e a Milano i negozi sono già affollati.
La sede della Banca Nazionale dell'Agricoltura di piazza Fontana è ancora piena
di gente. Normalmente l’orario di chiusura dell’istituto di credito sarebbe
alle ore 16:30, tuttavia oggi è il giorno del mercato e con un po’ di
elasticità la chiusura dei cancelli è stata posticipata per consentire ai
clienti il completamento le proprie incombenze. Fuori piove, un motivo in più
per consentire ai coltivatori diretti, imprenditori agricoli, allevatori,
mediatori, commercianti di mangimi e piccoli risparmiatori di campagna arrivati
da tutta la provincia, di restare all’interno della struttura. La Banca
Nazionale dell'Agricoltura è l’unica a Milano a permettere ai propri clienti di
prolungare le mediazioni oltre l’orario di chiusura, contrattazioni effettuate
nella grande sala, “la rotonda”, dove al centro, in corrispondenza del tetto a
cupola, trova posto un massiccio tavolo ottagonale di mogano con sopra una spessa
lastra di cristallo e un ripiano sottostante in cui i clienti possono sistemare
le proprie borse. In alto, due piani di vetrate circolari dominano l’area
circostante degli uffici amministrativi che vista l’ora tarda si stanno pian
piano svuotando degli impiegati. Tutt’intorno, dietro il bancone circolare vi
stazionano ancora gli sportellisti e i funzionari della banca, in tutto sono una
settantina. All’esterno, alla fine di via Santa Tecla, il taxista Cornelio
Rolandi ha appena lasciato un individuo in abito scuro a 130 metri
dall’ingresso dell’edificio. È salito sul taxi in piazza Cesare Beccaria e
scendendo dall’auto ha chiesto all’autista di attenderlo mentre si dirige
camminando normalmente, senza fretta, verso la banca. Ha con sè una grossa
borsa in vinilpelle, una Mosbach-Gruber fabbricata in Germania, nera con fibbia
di metallo e un gallo inciso sopra. Si chiama Delfo Zorzi, ha 27 anni, è nativo
di Mestre, è laureato in Lingue Orientali all’Istituto Universitario Orientale
di Napoli ed è un esponente di Ordine Nuovo. Questa falange extraparlamentare
di estrema destra è appena nata, è guidata dal politico Clemente Graziani e vi
fanno parte alcuni militanti dell’associazione politico-culturale di estrema
destra Centro Studi Ordine Nuovo fondata nel 1956 dal politico
esponente del Movimento Sociale Italiano Pino Rauti. Assieme a Carlo Maria
Maggi, referente per il Triveneto, 35enne laureato in medicina che esercita la
professione presso l'ospedale geriatrico Giustinian di Venezia e come medico di
base nell'isola della Giudecca, Zorzi guida la cellula veneziana-mestrina
del neonato movimento. Questa organizzazione, una vera e propria struttura
armata articolata in cellule, da quella di Venezia-Mestre a quella di Padova,
forma una rete eversiva protetta dagli apparati statali e utilizzata in chiave
anticomunista. Ogni qualvolta che una cellula si muove agisce in maniera del
tutto indisturbata attivando con lei armeria e polveriera. Zorzi, in silenzio, apre
la porta a vetri, entra nel grande atrio della banca, si confonde nel via vai
disordinato, si sbottona il cappotto, si toglie il cappello, si siede in
uno dei posti liberi attorno all’enorme tavolo ottagonale che domina il centro
del salone, si guarda intono, appoggia la borsa per terra, un po’ riparata
dagli sguardi di chi è seduto vicino a lui. Non servirebbe nemmeno, nessuno
farà mai caso a quella borsa, una delle tante nella stanza piena di gente, ci
saranno almeno un centinaio di persone. Capannelli di clienti che discutono qua
e là, impiegati dell’istituto di credito che vanno e vengono dal bancone, gente
che fa la fila davanti a uno sportello per pagare una cambiale, riscuotere un
assegno, prelevare del denaro mentre i telefoni squillano e le voci si
rincorrono con gli accenti più diversi. L’uomo, mentre compila un modulo spinge
la borsa con i piedi verso il centro del tavolo, poi si chiude il cappotto, si
rimette il cappello, si alza e si allontana senza voltarsi indietro, con passo
deciso diretto al portone d’ingresso. Attraversa di nuovo il salone e dopo
essere passato davanti a quelle facce, a quegli uomini venuti dalla periferia
dove probabilmente non faranno ritorno, esce dalla banca dove, ad attenderlo,
il tassista è ancora lì. L’uomo risale nell’auto che riparte proseguendo per la
via Santa Tecla in direzione di via Albricci. Nella sede della Banca Nazionale
dell'Agricoltura, al centro del salone è rimasta la valigia, sola, è un modello
senza il doppio scomparto, alla signora Loretta Galeazzo, commessa della Valigeria
Al Duomo di Padova, era stato chiesto proprio quello, grande, molto capiente,
abbastanza da contenere un volume equivalente a 7 chilogrammi di esplosivo. La
bomba, ad alto potenziale, è costituita da due unità distinte, una di esplosivo
per uso civile, 4 chilogrammi, e una per uso militare, 3 chilogrammi. Il primo,
in candelotti, è il Vitezit 30, un prodotto per un uso prettamente estrattivo
fabbricato dalla Chemical Industry Slobodan Princip-Seljo di Vitez, in
Jugoslavia. È sostanzialmente una Gelignite, il primo esplosivo plastico della
storia, ed è a base di Nitrocellulosa, un composto chimico con proprietà
infiammabili-esplosive scoperto dal chimico tedesco Christian Friedrich
Schönbein nel 1846, dissolta nella Nitroglicerina, la sostanza scoperta dal
chimico e medico italiano Ascanio Sobrero nel 1847 sintetizzando proprio la
Nitrocellulosa seguendo gli esperimenti falliti nel 1845 del chimico tedesco
Christian Friendrich Schönbein. Miscelata con polpa di legno e Nitrato di
Potassio, la Gelignite era stata inventata nel 1875 dal chimico e ingegnere
svedese Alfred Nobel, già inventore della Dinamite, ed essendo molto più
stabile della prima, poteva essere maneggiata con maggiore sicurezza tanto da
diventare il miglior prodotto in uso per le attività estrattive, essere
fabbricata in enormi quantità e, grazie al suo potere distruttivo, il primo
esplosivo preferito dell’IRA irlandese che aveva fatto scuola ai “lealisti” di
tutto il mondo. La cellula dell’organizzazione è ben fornita, 200 candelotti, avvolti
in carta paraffina color mattone e comprati da un certo Roberto Rotelli, un simpatizzante
di destra della zona di Venezia-Lido esperto sommozzatore facente parte del Gruppo
Subacquei San Marco e titolare di una società che dispone di questo esplosivo
per le attività di recupero dalle navi affondate. Vengono tenuti in un bunker
nei pressi del Canale Alberoni-Petroli, un canale artificiale che collega
il Mare Adriatico dalla bocca del porto di Malamocco
al porto commerciale di Marghera attraversando la laguna di Venezia. Essendo
un esplosivo delicato e molto potente ogni cartuccia è avvolta in carta di
giornale e riposta dentro sacchi di juta imbottiti di segatura al fine di
assorbire l’umidità ed evitare il trasudamento che renderebbe instabile il
principio attivo moltiplicandone la sensibilità e quindi la pericolosità del
maneggio. La seconda unità della bomba invece, l’esplosivo di tipo militare, è costituita
da Trinitrotoluene puro. Confezionato in panetti e preparato per la prima volta
nel 1863 dal chimico tedesco Julius Wilbrand, perfezionato dal chimico tedesco Hermann
Frantz Moritz Kopp nel 1888 e prodotto industrialmente in Germania un anno dopo
col nome di Tritolo o Tnt, occultato tra le merci trasportate da vari
autoarticolati è arrivato dalla Cecoslovacchia entrando in Italia dalla
Svizzera transitando per la Germania. Ordine Nuovo lo ha recuperato dall’unico
luogo che al nord ha accesso e possiede in grandi quantità questo tipo di
materiale, uno dei depositi segreti italiani di un’organizzazione paramilitare
dormiente creata per intervenire in caso di un’ipotetica invasione dell’Europa
occidentale da parte del blocco comunista guidato dall’Unione Sovietica: Gladio.
Dipendente dalla NATO, Gladio non è l’unica struttura di sicurezza parallela
presente in Europa, fa parte di un insieme molto più ampio di operazioni
segrete, le “covert operations”, una sorta di rete di strutture in vari paesi
del blocco occidentale chiamata “Stay-Behind” con diramazioni anche in Grecia,
Belgio, Francia, Germania e Paesi Bassi. Con la sua nascita, ufficialmente il
26 novembre 1956 con un accordo tra la CIA, la Central Intelligence Agency, e
il SIFAR, il Servizio Informazione Forze Armate poi sostituito dal SID, il
Servizio Informazioni Difesa, per il suo smantellamento nel 1965 a causa della
scoperta di attività illegali di dossieraggio su tutta la classe dirigente
italiana in cui raccoglievano informazioni riservate e delicate che rendevano i
politici ricattabili, Gladio era in movimento già dopo la fine della Seconda
guerra mondiale. Con le prime divergenze tra Stati Uniti e Unione Sovietica, dove
agli americani era chiaro che nei paesi all’interno della loro sfera di
influenza bisognava contenere a tutti i costi il comunismo, la priorità e le
attenzioni maggiori erano state focalizzate sull’Italia per almeno due motivi:
per la sua posizione geografica, al “confine” tra blocco occidentale e blocco
sovietico, e per il fatto di avere uno dei partiti comunisti più forti e
strutturati d’Europa, il PCI, il Partito Comunista Italiano. La Gelignite, che
costituisce la parte innescante della bomba, è armata da un detonatore a fuoco annegato
longitudinalmente in uno dei candelotti che la compongono. Il detonatore, un
cilindro di alluminio versione moderna del tubetto di stagno progettato da
Alfred Nobel nel 1867, contiene all’estremità una piccola quantità di esplosivo
secondario, la Pentrite, uno degli esplosivi più potenti, preparata per la
prima volta nel 1891 dal chimico tedesco Bernhard Tollens, innescata a sua
volta da uno primario, l’Azoturo di Piombo, il preparato della Curtis's and
Harvey Ltd Explosives Factory del 1890. All’interno del detonatore è fissato
uno spezzone di pochi centimetri di miccia del tipo a lenta combustione calibrata
per un percorso della fiamma di 1 metro ogni 120 secondi. Questa è la diretta
discendente della corda di canapa catramata brevettata il 6 settembre 1836 da
William Bickford, costituita da un cordone di cotone impermeabile con un’anima
di Polvere Nera, esplosivo costituito da 74,65% di nitrato di potassio, 13,50%
di carbone e 11,85% di zolfo, ricetta arrivata ai giorni nostri grazie al
monaco e scienziato Ruggero Bacone nel 1249 modificando quella comparsa per la
prima volta in un'opera di Wu Ching Toung Yao nel 1044. Alla miccia è nastrato
un fiammifero controvento avvolto da un filo di nichel-cromo collegato ad un
congegno meccanico a tempo con arco massimo di 60 minuti del tipo Diehl
60/m/n/d a deviazione, stesso modello usato nelle lavastoviglie e venduto dalla
ditta Gavotti di Milano. Franco Freda di questi ne aveva acquistati 50, li
aveva fatti arrivare alla Gavotti a settembre ordinandoli dalla Elettrocontrolli
di Bologna dove Tullio Fabris, il suo elettricista, li aveva ritirati per poi consegnarli
alla segretaria del suo studio assieme a 5 metri di filo di nichel-cromo. Fabris
era estraneo al gruppo e a qualsiasi militanza politica, era semplicemente
l’elettricista a cui Freda, dopo averlo impiegato in alcuni comuni lavori da
artigiano nella fase del rinnovo dell’arredamento del suo studio di Padova, aveva
chiesto, in confidenza e approfittando di ingenuità e buona fede, alcune
delucidazioni sul funzionamento del Diehl a deviazione. In modo da silenziare
il ticchettio del timer, chiusa ermeticamente in una cassetta metallica in
lamiera d’acciaio con verniciatura martellata di marca Juwel, delle dimensioni
di 30 centimetri per 24 per 9, con serratura a cilindro, maniglia e apertura a
cerniera e fabbricata a Lainate, alla parte innescante dell’ordigno alimentata e
completata da due pile da 4,5 Volt è unità la seconda chiusa in un involucro nastrato
e perfettamente aderente alla prima. 28enne militante neofascista “nazimaoista”
per le sue teorie a metà strada tra nazismo e maoismo, Freda è laureato in
giurisprudenza all’Università di Padova. Conosciuto come “l’editore” per il suo
lavoro, ha alle spalle 29 feriti per tre bombe esplose a Milano il 25 aprile,
una alla Fiera Campionaria e due alla Stazione Centrale, e altre 8 esplose il 9
agosto all’interno di treni in sosta alle stazioni di Chiari, Grasignano di
Zocco, Caserta, Alviano, Pescara, Pescina e Mira. È membro della cellula
padovana di Ordine Nuovo che gestisce con Giovanni Ventura, 25enne laureando in
filosofia, proprietario della rivista “Ezzelino” ed editore che rende conto ad
un attivista di estrema destra, Guido Giannettini, giornalista ed agente del
SID, il Servizio di Informazioni e Difesa italiano, con cui ha in comune l’esplosivista
e l’artificiere della cellula, Carlo Digilio. Col nome in codice “Erodoto”, il 32enne
romano, militare di carriera, Digilio si era occupato della costruzione della
bomba e dei tre test effettuati nel periodo tra ottobre e novembre serviti a
sperimentare il sistema di armamento. Sono le ore 16:36 e nell’atrio della
banca i clienti si accingono a concludere le contrattazioni, qualcuno sta
ancora firmando delle cambiali, altri si scambiano dati e informazioni. All’interno
della borsa il congegno meccanico a tempo ha iniziato a scandire l’ultimo
minuto. C’è ancora qualcuno seduto al tavolo, scrive, chiacchiera, ma il
disco-orario arriva a zero, il circuito elettrico si chiude, la corrente dalla
batteria arriva al filo di nichel-cromo che in pochi secondi si arroventa
accendendo la pasta di clorato di potassio e solfuro di antimonio della
capocchia del fiammifero controvento. Lo spezzone di miccia si scalda e il
calore, arrivando in una frazione di secondo all’anima di Polvere Nera, la
infiamma. Pochi secondi e qualcuno seduto al tavolo inizia a sentire l’odore di
bruciato, la fiamma sta percorrendo i centimetri del cordone impermeabile, i
clienti al tavolo si guardano, l’odore si fa più forte mentre la fiamma entra nell’estremità
cava della capsula del detonatore. La carica primaria si innesca, in una
reazione a catena di poche frazioni di secondo l’Azoturo di Piombo accende la
Pentrite che attiva il plastico. Sono le ore 16:37, la Gelignite della prima
carica detona innescando la seconda. Una luce, un boato, l’esplosione fa
tremare il tetto a cupola del grande salone. I corpi si accartocciano, si
bruciano, si straziano, volano gambe e braccia, pezzi di metallo e legno
fendono l’aria come proiettili squarciando le carni e ferendo a morte. L’onda d’urto
polverizza il tavolo, frantuma le vetrate interne e scardina quelle
perimetrali, raggiunge il primo piano sorprendendo l’impiegato dello sportello
numero 15, Fortunato Zinni, che sta chiudendo la vetrata con la schiena
appoggiata al vetro. L’uomo viene scagliato tre metri più avanti contro lo
schedario di metallo mentre alle sue spalle la vetrata frana nel salone
circolare. Gli uffici vengono devastati, 17 persone smembrate. Schegge di
legno, pietra e metallo sparate a 360 gradi hanno trapassato tutto. In 13 muoiono
sul colpo, altri 4 poco dopo. Il fragore dell’assordante boato è sostituito da
un momentaneo silenzio. Lo spettacolo è spettrale: fumo e detriti sono ovunque,
i resti umani anche sulla superficie della cupola. I corpi bruciano, nella
penombra del salone, tra il pulviscolo e il fumo soffocanti, una ragazzina sporca
di sangue e polvere ha il viso dilaniato da pezzi di cristallo, cammina per la
sala, sta cercando il suo braccio che le è strappato di netto, pochi metri e
crolla a terra priva di sensi. L’atrio è una macelleria fumante e tra gli
arredi rivoltati degli uffici i telefoni iniziano a squillare ininterrottamente.
A chiamare è la questura, dove è scattato l’allarme. A sollevare la cornetta è
un impiegato che vivo e sotto shock si muove nel buio circondato dal fumo acre
e dai lamenti dei feriti: è Fortunato Zinni. “Che cosa vede?”, gli domanda il
poliziotto all’altro capo del filo, in via Fatebenefratelli. “Un braccio, vedo
un braccio”. Con una mano tesa in avanti e una a sorreggersi alla parete,
l’uomo cerca di mettere timidamente un piede davanti all’altro. Vede una mano,
poi un altro braccio, ora una gamba, in basso due uomini strisciano, non hanno
più le gambe, dietro di loro il sangue si mischia alla polvere, c’è ancora
tanto fumo e chi può cerca di raggiungere l’esterno camminando alla cieca.
L’odore è acre, pungente, come di carne bruciata misto a disinfettante che
rendono l’aria irrespirabile. 88 persone sono coperte di sangue, cercano soccorso,
gridano, supplicano l’aiuto di una città che minuto dopo minuto viene avvolta da
un silenzioso terrore rotto dalle sirene laceranti delle ambulanze che
percorrono le strade di Milano a tutta velocità. All’interno della banca il pavimento
del salone è stato squarciato, al centro c’è una voragine di un metro di
diametro. Ha contorni nettissimi, l’onda d’urto ha rotto la piallatura di
copertura, la soletta di cemento e parte dell’armatura della struttura in
calcestruzzo armato tanto da rendere comunicante il piano in cui è esplosa la
bomba con quello sottostante. La resistenza opposta in basso dalla soletta di
cemento del pavimento e in alto dal pesante massello in mogano del tavolo ha
fatto sfogare la potenza dell’onda esplosiva in orizzontale, verso la parte
sinistra della rotonda. È qui il maggior numero di morti. Sono le ore 16:40, al
Palazzo di Giustizia, a due passi da piazza Fontana, la notizia viene
comunicata per telefono. Il Procuratore Capo Enrico De Peppo e il sostituto di
turno, Ugo Paolillo, escono dai loro uffici e raggiungono quasi di corsa il
luogo della strage dove ad attenderli ci sono già il questore Marcello Guida,
il cardinale Giovanni Colombo e il Direttore Generale della banca, Pietro
Macchiarella. I presenti atterriti sono da questo macabro spettacolo, un
braccio è attaccato al muro, una testa è sul pavimento accanto ad una sedia, il
sangue colora il vetro polverizzato, brandelli di cadavere spuntano da ogni
parte, è una macelleria dell’orrore. Gocce di sangue scendono cadenzate sul
pavimento da pezzi di carne compressi sull’intonaco dei muri e sulla cupola. Nel
grande emiciclo della banca i cadaveri sono a terra sopra vetri rotti, pezzi di
mobili e di cemento. I corpi dilaniati, frantumati, sono in mezzo a pozze di
sangue nero. Un terribile odore di morte e un pesante silenzio rotto è rotto
solo da un pianto isolato. Ci sono teste, braccia, gambe staccate dal corpo,
due uomini scaraventati fuori dalle vetrate sono ancora sull’asfalto mentre
negli uffici c’è chi sventrato grida tenendosi la pancia con le mani. La palla
di fuoco e la successiva onda d’urto rimbalzando sulla parete hanno provocato
il crollo del rivestimento in mattoni forati che delimitava l’angolo posteriore
sinistro del locale. L’onda d’urto, dilagandosi nella rotonda ha frantumato prima
i divisori di vetro degli sportelli del bancone circolare, poi le vetrate del
primo e del secondo piano, poi quelle della cupola sovrastante trasformando i
vetri in una pioggia che ha martoriato ulteriormente i corpi dei clienti inermi
stesi sul pavimento, e infine è andata ad incanalarsi da una parte nel
corridoio che immette nei sotterranei facendolo collassare, dall’altra verso esterno
sfogando dalle vetrate sul piazzale antistante dove le macchine parcheggiate sono
state sbalzate in avanti e i passanti travolti prima dall’onda di sovrappressione,
poi da porzioni di struttura staccatisi della facciata. È un disastro, un
evento che nessuno si aspettava sarebbe mai successo, una carneficina acuto di
una giornata convulsa perché c’è una seconda bomba e si trova nella sede della
Banca Commerciale Italiana, in piazza della Scala, a neppure un chilometro in linea
d’aria da piazza Fontana. È lì, immobile, sarebbe dovuta esplodere a banca
chiusa ma qualcosa non ha funzionato perché il meccanismo si è inceppato. Altre
tre invece hanno funzionato, sono esplose a Roma, nella Capitale: la prima ha
ferito 14 persone, si è innescata alle ore 16:55 nel passaggio sotterraneo che
collega l'entrata della Banca Nazionale del Lavoro di via Veneto con quella di
via di San Basilio; la seconda si è innescata alle ore 17:20 davanti all'Altare della
Patria, sotto il pennone della bandiera; la terza ha ferito 4
persone innescandosi dieci minuti dopo, alle ore 17:30, davanti all'ingresso
del Museo Centrale del Risorgimento,
nella centralissima piazza Venezia. All’interno della banca il
dottor Paolillo è nel salone a guardarsi intorno, quasi incredulo, a trovare la
forza e le parole per dare le prime disposizioni, ordinare i primi
accertamenti, coordinare gli interventi. Fuori intanto si è radunata una folla,
la città è divisa tra lo stupore e lo sdegno, l’orrore e l’indignazione. Queste
bombe, questi segnali, hanno appena inaugurato uno dei periodi più bui della
nostra epoca, sarà l’inizio di una serie preordinata e ben congegnata di eventi
atti alla destabilizzazione del paese, complici la forte ondata di lotte
sociali del 1968-69 e l’avanzata anche elettorale del Partito comunista
italiano, questi eventi saranno volti a creare in Italia uno stato di tensione
e una paura diffusa nella popolazione tali da far giustificare o addirittura
auspicare svolte di tipo autoritario, trasformando l’Italia in una sorta di dittatura
“morbida”. Una strategia eversiva questa gestita da una pluralità di soggetti: la
componente neofascista e rivoluzionaria, mera manovalanza, che spinta da
elementi infiltrati all’interno la spingeranno a compiere azioni terroristiche,
la componente dei servizi segreti del SID, che non privi di complicità e legami
internazionali forniranno gli elementi infiltranti e garantiranno la copertura
degli eventi attribuendone la paternità ad altri o sfruttando mediaticamente a
proprio favore perfino episodi esterni alla strategia, e la componente
massonica, che fungerà da direttivo. Lo stragismo degli anni Settanta è
cominciato.
Tutti i
diritti sono riservati. È vietata qualsiasi utilizzazione, totale
o parziale, dei contenuti inseriti nel presente blog, ivi inclusa la
memorizzazione, riproduzione, rielaborazione, diffusione o distribuzione dei
contenuti stessi mediante qualunque piattaforma tecnologica, supporto o rete
telematica, senza previa autorizzazione.
Gli articoli pubblicati su questo blog sono il prodotto intellettuale dell'autore, frutto dello studio di perizie, testimonianze e rilievi video-fotografici reperiti dallo stesso in sede privata. L'intento di chi scrive è la divulgazione di eventi di interesse pubblico accompagnati da un'analisi tecnica degli stessi rinnegando qualsiasi giudizio personale, politico, religioso.